N. 62 - Febbraio 2013
(XCIII)
I Fratelli Musulmani all’esame di economia politica
L’Egitto e la costituzione
di Federico Donelli
In
Egitto
nello
scorso
dicembre,
tra
il
15 e
il
22,
si è
tenuto
il
referendum
popolare
per
l’approvazione
della
prima
carta
costituzionale
dell’era
post
Mubarak
su
una
bozza
finale
redatta
dall’Assemblea
costituente
composta
in
larga
maggioranza
dai
due
partiti
islamici,
Giustizia
e
Libertà
dei
Fratelli
Musulmani
e Al
Nour
riconducibile
alla
componente
salafita,
e
promossa
pubblicamente
dal
Presidente
Mohammad
Morsi.
Schierati
in
maniera
compatta
contro
la
bozza
costituzionale
c’erano
i
diversi
gruppi
di
opposizione
per
la
prima
volta
uniti
e
compatti
nel
Fronte
di
Salvezza
Nazionale.
Il
nuovo
testo
costituzionale,
approvato
con
il
63,5%
dei
consensi,
è
entrato
in
vigore
la
mattina
del
25
con
la
firma
del
Presidente
Morsi
il
quale
ha
per
l’occasione
dichiarato
che
con
la
nuova
costituzione
il
Paese
è
entrato
in
una
nuova
era
che
vedrà
nei
prossimi
anni
per
l’Egitto
prosperità
e
successi.
Nonostante
la
vittoria,
l’affermazione
dei
“si”
non
è
risultata
essere
schiacciante
quanto
pronosticato
a
più
riprese
dalla
Fratellanza
musulmana
e
dai
loro
alleati
salafiti;
infatti,
a
votare
favorevolmente
per
la
bozza
costituzionale
sono
stati
circa
11
milioni
di
cittadini
su
un
totale
di
votanti
di
poco
superiore
ai
17
milioni,
una
cifra
minima
in
rapporto
ai
51,3
milioni
di
cittadini
egiziani
registrati
al
voto.
Il
fatto
che
quasi
il
64%
dei
cittadini
egiziani
non
si
sia
recato
alle
urne
preoccupa
sia
gli
osservatori
esterni
sia
la
dirigenza
politica
dei
Fratelli
Musulmani,
Presidente
Morsi
in
testa;
un
dato
preoccupante
anche
in
virtù
dell’ultimo
precedente,
datato
19
Marzo
2011,
quando
il
45%
degli
egiziani
aventi
diritto
di
voto
si
era
recato
alle
urne
per
votare
al
referendum
sulla
modifica
della
Costituzione,
la
prima
consultazione
dopo
la
caduta
del
regime
di
Mubarak.
Ad
astenersi
dal
voto
non
solamente
quindi
la
componente
egiziana
laica,
che
rimane
comunque
una
minoranza,
ma
anche
ampie
frange
dell’elettorato
degli
stessi
Fratelli
Musulmani
i
quali
pagano
le
sempre
più
critiche
condizioni
di
vita
della
popolazione.
Condizioni
che
altro
non
sono
se
non
lo
specchio
del
crescente
peggioramento
dell’economia
del
Paese
e
della
scarsa
competenza
– ma
più
probabilmente
incapacità
–
dell’attuale
governo
di
fare
fronte
alla
situazione
di
declino.
A
pesare
negli
ultimi
diciotto
mesi
non
è
risultato
essere
solamente
il
drastico
calo
dei
(fondamentali)
investimenti
stranieri,
spaventati
dall’inaffidabilità
dei
Fratelli
Musulmani
e
dalle
crescenti
pressioni
provenienti
dall’ala
salafita,
ma
anche
quello
del
turismo
straniero,
che
rappresentava
una
fetta
molto
importante
del
PIL
egiziano,
e
l’interruzione
della
produzione
manifatturiera.
Dopo
aver
dimostrate
le
proprie
capacità
in
politica
estera,
sfruttando
abilmente
la
sponda
offertagli
da
Hamas
durante
la
crisi
autunnale
con
Israele,
e
dopo
aver
ottenuto
la
-seppure
flebile
-
vittoria
nel
referendum
di
approvazione
della
nuova
Carta
costituzionale,
il
Presidente
Morsi
è
chiamato
ora
a un
compito
ben
più
arduo
ossia
riuscire
a
conciliare
le
linee
guida
del
proprio
governo
con
la
necessità
incombente
di
rianimare
un’economia
sull’orlo
del
baratro.
Lo
scorso
17
gennaio
una
delegazione
di
tecnici
ed
economisti
del
Fondo
Monetario
Internazionale
si è
recata
a Il
Cairo,
a
distanza
di
pochi
mesi
dalla
loro
ultima
visita,
per
negoziare
la
concessione
di
un
prestito
all’Egitto
di
circa
5
miliardi
di
dollari.
Le
condizioni
poste
per
la
concessione
del
prestito
vincolano
però
l’Egitto
ad
attuare
un
preciso
pacchetto
di
riforme
in
campo
finanziario
e
non
solo,
che
includerebbero
una
serie
di
modifiche
strutturali
considerate
necessarie
per
ridare
respiro
all’economia
egiziana
e
porre
le
basi
per
una
sua
tempestiva
ripresa.
Le
misure
previste,
per
quanto
giudicate
fondamentali
dalla
commissione
d’indagine
delegata
dal
FMI,
avrebbero
gravi
ripercussioni
dal
punto
di
vista
politico
per
l’esecutivo
egiziano;
infatti,
prevedono
un
netto
taglio
dei
sussidi
(su
elettricità
e
benzina)
di
cui
gode
gran
parte
della
popolazione
egiziana.
Risulta
quindi
facile
prevedere
che
queste
misure,
se
intraprese,
andrebbero
a
intaccare
pericolosamente
la
popolarità
dei
Fratelli
Musulmani
e
del
Presidente
Morsi.
Per
questo
motivo
il
governo
guidato
dalla
maggioranza
islamica,
composta
oltre
che
dai
Fratelli
Musulmani
dalla
componente
salafita
rappresentata
dal
partito
Al
Nour,
mira
a
posticipare
l’introduzione
delle
misure
richieste
dal
FMI
a
dopo
le
elezioni
parlamentari
che
si
terranno
il
prossimo
mese
di
aprile.
Una
scelta
che
da
una
parte
tutela
nei
confronti
del
proprio
elettorato
che
difficilmente
accetterebbe
l’austerità
richiesta
dal
FMI,
ma
dall’altra
parte
rischia
di
minacciare
il
buon
esito
dei
negoziati
con
lo
stesso
FMI
poco
propenso
ad
accettare
ulteriori
temporeggiamenti
da
parte
del
governo
egiziano.
La
situazione
dell’economia
del
Paese
al
momento
appare
drammatica;
dati
non
ufficiali
ma
molto
attendibili
riportano
di
come
le
riserve
di
valuta
estera
(circa
15
miliardi
di
dollari)
appartenenti
allo
Stato
egiziano
si
stiano
riducendo
drasticamente
arrivando
a
garantire
l’importazione
di
prodotti
di
base,
alimentari
e
petroliferi,
ancora
ed
esclusivamente
per
i
prossimi
tre,
al
massimo
quattro
mesi.
A
soccorrere
l’Egitto,
o
per
essere
precisi
in
soccorso
del
governo
a
guida
islamica,
è
intervenuto
il
Qatar
che
seguendo
la
propria
ambizione
di
crearsi
nuovi
e
sempre
più
ampi
spazi
di
influenza,
ha
da
prima
sostenuto
economicamente
i
partiti
di
governo
per
poi
intervenire
direttamente
con
un
pacchetto
di
aiuti,
intorno
ai 5
miliardi
di
dollari,
destinati
alle
casse
dello
Stato.
Il
prestito
qatariota
è al
momento
sufficienti
per
consentire
al
governo
egiziano
di
temporeggiare
di
fronte
alle
incombenti
richieste
del
FMI.
Questi
aiuti
vanno
inoltre
a
sommarsi
a
quelli
precedentemente
ricevuti
dalla
Turchia,
circa
2
miliardi
di
dollari,
che
a
ottobre
hanno
portato
ossigeno
alla
Banca
Centrale
egiziana;
altri
investitori
al
momento
non
se
ne
vedono,
a
pesare
è
soprattutto
la
credibilità
e
l’affidabilità
del
governo
egiziano
che
è
ben
lungi
dal
dare
garanzie
a
possibili
fondi
di
investimento
stranieri.
L’eccezione,
rappresentata
da
Qatar
e
Turchia,
rientra
in
un
più
ampio
quadro
di
riposizionamenti
geopolitici;
infatti,
a
seguito
delle
rivolte
arabe
della
primavera
2011,
i
due
Paesi
hanno
incrementato
il
proprio
impegno
nella
politica
estera
regionale
riversandovi
ingenti
risorse
con
l’obiettivo
di
rafforzare
maggiormente
la
propria
immagine
agli
occhi
dei
governanti
e di
acquisire
nuove
aree
di
influenza.
La
situazione
rimane
molto
delicata
perché
gli
stessi
Fratelli
Musulmani
sono
ben
consapevoli
che
per
poter
imprimere
un’accelerata
a
molte
delle
riforme
a
loro
care,
soprattutto
in
ambiti
molto
delicati
quali
quello
dell’istruzione
e
della
giustizia,
dovranno
saper
incrementare
o
quanto
meno
mantenere
elevato
il
livello
del
consenso
popolare
che
fino
a
questo
momento,
a
eccezione
degli
scarsi
risultati
al
referendum
di
dicembre,
non
è
mai
mancato.
La
possibilità
che
in
previsione
delle
elezioni
parlamentari
di
aprile,
per
preservare
il
proprio
bacino
elettorale,
il
Presidente
Morsi
lasci
in
stand-by
l’economia
egiziana
sono
molto
alte.
Una
tale
eventualità
però
può
comportare
rischi
a
medio
termine
anche
maggiori;
infatti,
la
mancata
concessione
del
prestito
del
FMI
condannerebbe
le
finanze
egiziane
portando
il
Paese
in
una
inevitabile
situazione
di
caos.
Una
situazione
che
gli
stessi
Fratelli
Musulmani
non
sono
preparati
a
gestire
e
che
obbligherebbe
un
nuovo
e
più
deciso
intervento
dei
militari
i
quali
una
volta
riprese
le
redini
del
governo,
potrebbero
contare
sia
sull’appoggio
dei
principali
gruppi
finanziari
egiziani,
precedentemente
legati
a
Mubarak,
sia
su
quello
degli
Stati
Uniti,
quindi
indirettamente
dello
stesso
FMI,
da
sempre
legati
all’establishment
militare
egiziano.
In
questo
plausibile
scenario
futuro
sembrerebbero
rimanere
fuori
–
nuovamente
–
gli
strati
sociali
egiziani
rappresentati
dall’attuale
opposizione,
che
in
parte
è
tuttora
espressione
delle
aspirazioni
e
speranze
sfociate
nel
gennaio
del
2011
in
piazza
Tahir
e
per
le
strade
del
Cairo.
Facendo
una
dovuta
precisazione
e
cioè
che
piazza
Tahir
rispecchiò
solamente
una
componente
minima
della
popolazione
egiziana,
è
altresì
vero
che
lo
stallo
in
cui
rischia
di
finire
l’azione
di
governo
dei
Fratelli
Musulmani
potrebbe
creare
un
terreno
favorevole
al
recupero
di
popolarità
e
voti
della
componente
politica
laica.
Tuttavia,
l’opposizione
laica,
i
cui
gruppi
di
diversa
estrazione
ideologica
si
sono
riuniti
in
occasione
del
referendum
costituzionale
sotto
il
partito
“ombrello”
Fronte
di
Salvezza
Nazionale,
rischia
di
non
riuscire
ad
approfittare
delle
condizioni
favorevoli
che
si
prospettano
già
in
previsione
delle
prossime
elezioni
parlamentari
di
aprile.
Infatti,
a
minare
il
Fronte
di
Salvezza
Nazionale
vi
sono
oltre
alle
vecchie
ruggini
risalenti
a
battaglie
politiche
degli
scorsi
decenni,
pesano
le
molte
differenze
ideologiche
– al
suo
interno
sono
infatti
raggruppati
liberali,
forze
di
sinistra
e
gruppi
vicini
al
vecchio
regime
di
Mubarak
– e
soprattutto
una
quasi
totale
mancanza
di
organizzazione
sul
territorio.
Proprio
quest’ultimo
elemento
assume
nell’attuale
contesto
politico
egiziano
un’importanza
ancora
maggiore,
dimostrata
dagli
ottimi
risultati
conseguiti
nelle
prime
libere
elezioni
dell’era
post
Mubarak
dai
partiti
islamici,
i
quali
da
decenni
godono
di
una
efficiente
rete
di
propaganda
estesa
e
ramificatasi
negli
anni
in
tutto
l’Egitto.
La
sensazione
è
quella
che
il
futuro
del
Paese
resti
nelle
mani
della
componente
islamica
e
del
vecchio
establishment
militare;
entrambi
i
gruppi
sono
consapevoli
che
la
vera
partita
per
il
controllo
del
“nuovo”
Egitto
si
giocherà
sul
tavolo
economico
finanziario
e
sulle
reciproche
capacità
di
rialzare
un
Paese
sull’orlo
del
baratro.