EFIALTE DI TRACHIS
STORIA DEL PASTORE CHE TRADì i
TRECENTO
di Massimo Manzo
Elfiate Il pastore che tradì i
Trecento Nella folta galleria di
traditori che hanno popolato la
storia umana, Elfiate è una presenza
immancabile. A prima vista la
circostanza potrebbe apparire
curiosa, dato che gran parte della
sua vita è, e probabilmente rimarrà
per sempre, ignota. Tutte le
informazioni disponibili si
concentrano in pochi anni e per il
resto di lui sappiamo pochissimo.
Eppure la sua triste fama supera
spesso quella di gran parte dei
traditori del mondo antico. Il
perché lo si deve a due circostanze
particolari: la prima è che il suo
tradimento fu cruciale in uno degli
episodi di eroismo più noti di
sempre, entrato tra i “miti”
fondanti dell’identità occidentale;
il secondo è che tale episodio,
insieme a quel poco che sappiamo di
Elfiate stesso, è stato raccontato
da una delle “penne” più brillanti e
talentuose dell’antichità.
L’evento di cui si parla è la
strenua resistenza che un manipolo
di 300 spartani e un pugno di altri
alleati greci oppose all’immenso
esercito persiano sul passo delle
Termopili, nel nord della Grecia. La
penna è invece quella di Erodoto, il
padre indiscusso della storiografia
occidentale. È grazie alle sue
Storie (composte nella seconda metà
del V secolo a.C.) che è possibile
conoscere il conflitto che nel 480
a.C. oppose l’impero achemenide a
una coalizione di poleis greche
guidate da Atene e Sparta. Si
trattava, in realtà, del “secondo
tempo” di una guerra iniziata dieci
anni prima, quando il Gran Re
persiano Dario I aveva deciso di
lanciare una “spedizione punitiva”
contro ateniesi ed eretriesi,
colpevoli di aver appoggiato le
rivolte delle città greche dell’Asia
Minore formalmente incorporate nel
suo immenso impero, esteso dalla
Turchia all’Egitto, fino alle remote
province dell’attuale Afghanistan.
Nel 499 era infatti avvenuto che un
gruppo di poleis greche della Ionia,
guidate da Mileto, si erano
ribellate al giogo persiano
abbattendo le tirannidi che le
reggevano, espressione del potere
achemenide, incendiando la città di
Sardi. Il tutto con l’aiuto (più
simbolico che reale) di una parte
della flotta di Atene ed Eretria. Di
fronte alla pronta reazione
persiana, la rivolta ionica fallì e
i greci dell’Asia Minore furono
ridotti all’obbedienza, ma lo
scontro aveva inevitabilmente aperto
una profonda ferita nei rapporti tra
il mondo greco e quello persiano,
spingendo Dario I a pianificare la
vendetta contro i ribelli ateniesi.
Nonostante siano state enfatizzate
dalla storiografia occidentale, oggi
alcuni storici pensano che,
probabilmente, le intemperanze di
Atene costituivano per il Gran Re un
problema secondario. Indicativo, in
questo senso, è un famoso aneddoto
riferito da Erodoto, secondo cui
Dario avrebbe ordinato a un servo di
ricordargli tre volte al giorno
dell’affare ateniese, ripetendogli
la celebre frase «Signore, ricorda
gli ateniesi».
Evidentemente il Gran Re, abituato
ad amministrare domini vastissimi,
aveva bisogno di un promemoria per
ricordarsi degli abitanti di quella
piccola città a ovest del suo
impero. Nel 492 decise in ogni caso
di inviare in Grecia un contingente
militare guidato dal generale
Mardonio, che in poco tempo ottenne
l’annessione di una parte della
Tracia e l’obbedienza del re dei
macedoni, Aminta I. A fermare
l’avanzata delle sue forze fu solo
un tremendo temporale, che causò
gravi danni alla flotta persiana che
appoggiava l’armata. Per nulla
intimorito, l’anno dopo Dario I
inviò degli ambasciatori alle
principali cittàStato greche,
chiedendo un tributo simbolico di
terra e acqua in segno di
sottomissione. Molte città
accettarono l’invito tranne le due
principali, Atene e Sparta, che,
gelose della propria autonomia,
rifiutarono sdegnosamente di
sottomettersi. A quel punto il Gran
Re decise che la misura era ormai
colma: era arrivato il momento di
invadere nuovamente la penisola
ellenica. Nel 490 a.C. riunì una
poderosa flotta di seicento navi e
un esercito che secondo le stime più
accurate contava tra i ventimila e i
trentamila uomini. Distrutta Eretria,
i persiani erano pronti a sbarcare
in Attica, la regione in cui si
trovava Atene, ma i loro piani
furono inaspettatamente mandati
all’aria dal genio militare di
Milziade, uno degli strateghi al
comando dello sparuto contingente di
ateniesi e plateesi schierati a
difesa della spiaggia. Sulla piana
di Maratona le forze greche, forti
di appena diecimila opliti,
ricacciarono in mare i persiani, che
furono costretti a ritirarsi con la
coda fra le gambe. Per gli elleni si
trattò di un trionfo epico, per il
Gran Re di una cocente umiliazione.
Dario I non fece comunque in tempo a
organizzare un’ulteriore spedizione,
come aveva senza dubbio in mente,
perché spirò appena quattro anni
dopo, nel 486 a.C., passando il
testimone al figlio Serse. Se il
“primo tempo” si era concluso con
un’inattesa vittoria ellenica, la
riscossa persiana sembrava essere
inarrestabile. Il nuovo sovrano mise
in piedi un’armata molto più
numerosa di quella del padre, e
nella primavera dell’anno 480 a.C.
un esercito alla guida del solito
Mardonio attraversò l’Ellesponto
(attuale stretto dei Dardanelli) su
un ponte di barche, ricalcando il
percorso da lui stesso compiuto più
di un decennio prima. A guidare la
lega antipersiana erano ancora una
volta Atene, che finì per dirigere
di fatto le operazioni navali, e
Sparta, che invece aveva formalmente
il comando supremo delle operazioni
militari. Rinomati per essere i
guerrieri più temibili ed efficienti
dell’intero mondo ellenico, gli
spartani decisero di bloccare ai
persiani la via d’accesso alla
Grecia piazzando un baluardo
difensivo sul passo delle Termopili,
uno strettissimo passaggio fra il
Monte Eta e il Golfo Maliaco, che
dalla regione nordica della
Tessaglia apriva la strada verso la
Grecia Centrale. A sua difesa, oltre
a un contingente di 5.200 alleati
greci, parteciparono 700 tespiesi e
solo uno sparuto gruppo spartano,
forte di 300 uomini scelti della
guardia reale, comandati dal re
Leonida.
Come già avvenuto nel corso della
prima guerra persiana, quando non
poterono partecipare in tempo alla
battaglia di Maratona, gli altri
lacedemoni erano stati trattenuti in
città dagli efori, il consiglio
degli anziani che affiancava i due
re nel governo cittadino. Il motivo
del ritardo nell’invio dei rinforzi
era la celebrazione delle Carnee,
festività religiose che, secondo le
rigidissime usanze spartane,
prevedevano nove giorni di
sospensione delle attività belliche.
In prossimità del passo, Serse inviò
degli esploratori per informarsi
sull’entità e la disposizione delle
forze nemiche.
È sempre Erodoto a descrivere il
modo in cui il Gran Re cominciò a
conoscere quegli “strani” guerrieri
che poco dopo avrebbero messo in
seria difficoltà il suo esercito, e
lo fa imbastendo una scena dal
sapore cinematografico:
«L’esploratore si accostò alle
truppe e le osservò attentamente
[...] ed egli vedeva gli uomini
dedicarsi a esercizi fisici o
pettinarsi le chiome. Questo
spettacolo lo stupì e volle
informarsi sul loro numero. Appurò
ogni cosa con esattezza e se ne
tornò indietro indisturbato; perché
nessuno lo inseguiva ed era stato
accolto con molta indifferenza. Se
ne tornò e riferì a Serse tutto ciò
che aveva visto. Ma dal suo
racconto, Serse non seppe trarne
conclusione giusta: che cioè quegli
uomini si preparavano a morire e a
uccidere con tutte le loro forze; e
poiché il loro agire appariva
ridicolo, fece chiamare Demarato,
figlio di Aristone, che si trovava
nell’accampamento. E quando giunse
l’interrogò su questi particolari,
per intendere il significato della
condotta dei lacedemoni. E Demarato
[disse] “Ti avevo già parlato prima
di questi uomini, quando partivamo
per l’Ellade; e tu, nel sentire come
io prevedevo lo svolgersi degli
avvenimenti, mettesti in ridicolo le
mie parole. Perché di fronte a te, o
Re, la mia missione principale è il
culto della verità. E ascoltami
ancora una volta. Questi uomini sono
venuti a disputarti il passaggio e a
ciò si dispongono. Perché così
usano: quando stanno per correre un
rischio mortale si acconciano i
capelli. Anzi, ti avverto che, se tu
soggiogherai costoro o questi che
sono rimasti a Sparta, non vi sarà,
o Re, nessun altro popolo al mondo
che ti resista a mano armata; perché
tu adesso avanzi contro il più bel
regno e i più valorosi uomini dell’Ellade».
La presenza di Demarato, un ex re
spartano deposto qualche anno prima,
nell’accampamento di Serse, non deve
stupire più di tanto.
La corte del Gran Re fu spesso un
rifugio sicuro per molti membri
dell’élite greca caduti in
disgrazia, e nei decenni successivi
i sovrani persiani furono avvezzi a
reclutare mercenari o “consulenti
militari” di origine ellenica, che
venivano profumatamente pagati. Nel
corso della prima guerra persiana
Dario I aveva fatto lo stesso,
facendosi accompagnare da Ippia, un
ex tiranno di Atene che sperava di
riconquistare la città con l’aiuto
persiano. Erodoto non descrive
tuttavia Demarato come un traditore,
ma come un uomo che serbava ancora
grande rispetto nei confronti della
patria. Quando si trovava a Susa, la
capitale achemenide, era stato
proprio lui ad avvertire i suoi
compatrioti dell’imminente
spedizione persiana, inviando un
messaggio segreto a Sparta contenuto
in una tavoletta di legno coperta da
uno strato di cera, per evitare che
fosse letto dagli emissari persiani.
Ora, anche dopo aver ascoltato le
sue parole, Serse non riusciva
ancora a capire come quel manipolo
di scriteriati potesse sperare di
resistere al suo smisurato esercito.
Decise quindi di attendere
nuovamente quattro giorni, dando il
tempo ai nemici di ritirarsi. Lo
storico Plutarco aggiungerà in
seguito di come il sovrano
achemenide tentasse a quel punto di
dissuadere i lacedemoni dalla
resistenza, provando a trattare una
loro resa a condizioni più che
onorevoli e offrendogli addirittura
il dominio sull’intera Grecia.
Dopotutto, entrare nelle grazie del
Gran Re poteva essere conveniente e
molti popoli avevano già fatto tale
scelta unendosi all’impero. In
cambio, Serse chiedeva solo una
cosa: deporre le armi. La risposta
di Leonida arrivò secca, in due
semplici parole, che da allora e nei
secoli a venire furono utilizzate da
chiunque decidesse di lottare fino
all’ultimo per la libertà: «Molon
Labe», vieni a prenderle. In altre
parole, se il re persiano voleva le
loro armi, doveva prima combattere:
gli spartani le avrebbero deposte
solo da morti. Di fronte alla
fierezza di Leonida e dei suoi,
Serse si risolse a scatenare
l’offensiva. I primi a essere
scagliati contro le falangi greche
furono le truppe dei medi, che
vennero però falcidiate, ritirandosi
dopo aver subito perdite
pesantissime.
Pur inferiori per numero rispetto ai
loro avversari, gli opliti erano
infatti infinitamente superiori dal
punto di vista tattico. In più
combattevano in un terreno stretto a
loro favorevole e avevano una
motivazione ben maggiore dei sudditi
coscritti del Gran Re. Il secondo
giorno, Serse ordinò che ad
attaccare fosse la sua guardia
personale, i cosiddetti Immortali,
diecimila soldati d’élite della sua
armata. Anche loro però, con sua
grande sorpresa, furono respinti
dagli spartani. Durante gli assalti,
in preda a continui e incontrollati
scatti d’ira, il re balzò per tre
volte dal seggio da dove osservava
le operazioni: i suoi uomini erano
in grave difficoltà. Si era già al
terzo giorno di durissima lotta e
Serse non sapeva come uscire da
quell’empasse, quando gli si
presentò a colloquio Elfiate, figlio
di Euridemo. Costui «aspettandosi
dal re una ricompensa, gli svelò il
sentiero che conduceva alle
Termopili attraverso il monte, e fu
la rovina degli Elleni ivi di
guardia». In un passo successivo,
Erodoto menziona come alcuni
pensavano che i veri traditori
fossero invece Onete da Caristo e
Coridallo da Anticira, ma lui stesso
scrive di non credere affatto a
questa versione della storia,
identificando in Elfiate il
principale responsabile del
tradimento. Rimane tuttavia
possibile la presenza di complici,
anche se le informazioni al riguardo
sono troppo scarne per formulare
tesi storicamente attendibili.
Su chi sia stato esattamente Elfiate
non esiste certezza alcuna, ma
possiamo dire con assoluta sicurezza
che la sua figura storica è ben
diversa da quella dipinta dalla
celebre pellicola Trecento
(2007), adattamento cinematografico
della graphic novel di Frank Miller
ispirata all’epopea delle Termopili.
In essa, il traditore è ritratto
come uno spartano deforme e
mostruoso, che vuole dare il suo
contributo allo sforzo bellico dei
compatrioti ma, respinto da questi
ultimi per la sua incapacità di
combattere (e persino di sollevare
lo scudo), si vendica subdolamente
rivolgendosi al sovrano achemenide.
Lungi dall’essere un rinnegato
spartano, il vero Elfiate abitava
quasi sicuramente la Malìde, la
piccola regione che circondava le
Termopili, ed Erodoto conferma tale
tesi chiamandolo Elfiate di Trachis,
dal nome della principale cittadina
malia. La sua dimestichezza con la
zona lo rendeva in grado di
conoscere a menadito il territorio
su cui si stava svolgendo lo
scontro, disponendo di informazioni
inestimabili per le truppe di Serse,
e sulla base di questo indizio
alcuni hanno ipotizzato che fosse un
pastore, abituato a percorrere
sentieri tortuosi e poco battuti.
Più che mosso da vendetta o
risentimento, Elfiate deve aver
fatto un calcolo (estremamente
realistico) osservando la
sproporzione delle forze in campo.
Quanto potevano resistere ancora gli
elleni di fronte alla gigantesca
potenza persiana? Presto Atene,
Sparta e i loro alleati sarebbero
stati travolti, tanto valeva
schierarsi in tempo dalla parte dei
futuri vincitori e ricevere una
lauta ricompensa dal Gran Re, noto
in tutto il mondo antico per le sue
ricchezze. Un gran numero di città
aveva già fatto un simile
ragionamento non unendosi alla
coalizione anti-persiana e
scongiurando così la vendetta dell’achemenide.
Le parole di Elfiate, in effetti,
furono gradite a Serse, che nella
notte del terzo giorno di
combattimenti mandò un distaccamento
di uomini comandati da Idarne
attraverso il percorso indicato dal
traditore melio. A detta di Erodoto
il sentiero, sorvegliato da mille
soldati focesi, «era stato scoperto
dalla gente del luogo, i meliesi»,
molto tempo prima, tanto che si era
quasi persa memoria della sua
esistenza. I persiani di Idarne,
guidati da Elfiate, marciarono
quindi per tutta la notte e all’alba
si ritrovarono inaspettatamente di
fronte a degli opliti, sorpresi
anche loro di quell’incontro non
previsto con i nemici. Lo “sherpa”
di Trachis, da buon informatore,
rassicurò che i guerrieri di guardia
non erano i tanto temuti lacedemoni
ma altri greci, che furono oggetto
di un fitto lancio di frecce da
parte dei persiani. I focesi si
allontanarono occupando la cima del
monte, ma Idarne e i suoi li
evitarono, continuando nella loro
manovra per prendere i greci alle
spalle. Poco dopo, anche le restanti
truppe greche vennero a conoscenza
dell’aggiramento in corso e capirono
che erano ormai spacciate.
Per evitare che l’intero contingente
venisse sterminato, Leonida consentì
allora agli alleati di mettersi in
salvo: lui e gli spartani sarebbero
invece rimasti fino all’ultimo. Si
avverava così l’oracolo della Pizia,
che aveva tempo prima preconizzato
come il prezzo della salvezza di
Sparta sarebbe stata la morte di uno
dei suoi re. Accanto agli spartani
rimasero solo i tespiesi e i tebani,
decisi anche loro a resistere.
Sull’altro fronte, la morsa dei
persiani si stava per chiudere: su
consiglio di Elfiate, che aveva
calcolato alla perfezione la
tempistica della manovra, Serse
ordinò di avanzare quando il sole
era ormai alto in cielo e i suoi
uomini furono i primi a ingaggiare
lo scontro, che proruppe furibondo.
Il colpo di grazia arrivò quando
sopraggiunse anche il distaccamento
guidato da Idarne.
L’epilogo del nostro racconto è
storia nota: secondo Erodoto, dopo
aver consumato le lance, gli
spartani e i tespiesi «si
difendevano con le spade (quelli ai
quali ne erano ancora rimaste) e con
le mani e con i denti, finché da
ogni parte in giro i barbari li
seppellirono sotto una pioggia di
frecce, gli uni attaccandoli di
fronte e abbattendo la difesa del
muro [costruito a suo tempo per
arginarli, nda], gli altri
sopravvenendo alle spalle». Elfiate
pareva aver azzeccato i propri
calcoli, e secondo alcuni la sua
delazione fu determinante per il
massacro dei greci nella battaglia
delle Termopili, mentre altri
pensano che abbia solo accelerato
l’inevitabile sconfitta. L’esito
della guerra fu però opposto da
quello che il traditore di Trachis
aveva immaginato: nemmeno un mese
dopo, in un’epica battaglia sul mare
di fronte alle coste di Atene, a
Salamina, la marina ateniese
inflisse un’incredibile batosta alla
flotta persiana e l’anno seguente,
nel 479 a.C., gli elleni si rifecero
sulla terraferma segnando la
definitiva disfatta di Serse.
Elfiate non ricevette mai l’agognata
ricompensa da parte del Gran Re:
braccato dai lacedemoni fu costretto
a fuggire in Tessaglia. L’anfizionia
delfica aveva posto una taglia sulla
sua testa.
Erodoto non fornisce ulteriori
dettagli sulla sua latitanza,
informandoci solo che in un momento
imprecisato Elfiate si rifugiò ad
Anticira, una città della Focide,
dove fu ucciso da un suo
“concittadino” di Trachis, tale
Atenade, che secondo lo storico lo
ammazzò «per un motivo diverso da
quello per cui era ricercato,
ricevendo ugualmente la ricompensa».
Erodoto era sicuramente a conoscenza
del motivo di tale omicidio, tanto
da ripromettersi di spiegarlo «nelle
narrazioni seguenti». Purtroppo per
noi, il “padre della Storia” non
tenne fede alla sua promessa ed
Elfiate scompare di colpo nelle
nebbie del suo racconto. Ma così
come avvenne con Leonida e i suoi
eroici trecento, il nome del
traditore delle Termopili era
destinato a rimanere scolpito per
sempre nella memoria dei greci.