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N. 78 - Giugno 2014 (CIX)

EDIPO: UOMO, RE, VITTIMa
LA TRAGEDIA SENZA TEMPO

di Giulia Elena Vigoni

 

Chi è Edipo? È questa una delle domande a cui molti psicologi, antropologi e sociologi hanno provato a rispondere ma tutti questi studi presi singolarmente risultano essere piuttosto superficiali; le varie prospettive prese in esame dovrebbero essere considerate da un punto di vista filosofico che tenga conto di tutti gli ambiti in cui questa tragedia si sviluppa.

 

La tragedia “Edipo re” (Oidípus týrannos) fu composta da Sofocle intorno al 420-430 a.C. e annovera tra i suoi antecedenti i poemi epici ormai perduti o frammentari del Ciclo tebano comprendente anche la “Tebaide”, gli “Epigoni”e l’ “Edipodia”.

 

Insieme ad Eschilo ed Euripide Sofocle si colloca tra i più grandi tragediografi greci del suo tempo, modello e fonte di ispirazione per molti autori nei secoli successivi sino ad oggi. Ne sono un esempio i francesi Corneille, Racine e Voltaire con “Œdipe” gli inglesi Dryden e Lee con “Oedipus” del 1679 mentre nel XX secolo spiccano gli adattamenti di G. Testori con “Edipus”e per la regia di Calenda “Edipo re”.

 

Nel 1972 Testori iniziò a comporre le tre opere teatrali “L’Ambleto”, “Macbetto” e “Edipus” (1974) costituenti la Trilogia degli Scarrozzanti. Esperimenti che tuttavia non riscossero grande successo in quanto atipici per il teatro del XX secolo. Una delle caratteristiche principali è sicuramente la lingua adottata, l’ “italiacano”, che mescola dialetto lombardo, parole straniere ed espressioni popolari che rendono questo linguaggio piuttosto rozzo e volgare ma allo stesso tempo anche struggente e coinvolgente.

 

“Edipus”, opera finale della trilogia, narra del ritorno di Edipo a Novate Milanese spinto dal consapevole desiderio di vendetta nei confronti dei genitori che lo hanno abbandonato ancora in fasce e generato pur sapendolo destinato all’infelicità. È questo ciò che lo distingue dagli studi psicanalitici di Freud in merito al “complesso di Edipo” che il filosofo viennese attribuiva, erroneamente secondo l’antropologo francese R. Girard e M. Anspach, al protagonista. L’Edipo di Testori è consapevole di questo desiderio di vendetta che concretizza non uccidendo il padre ma evirandolo. I temi su cui si incentra quest’opera sono infatti quello politico e quello sessuale e così facendo il protagonista priva il genitore di entrambi i suoi poteri sostituendosi totalmente a lui. La sua unione con Giocasta è vissuta da entrambi come un puro piacere fisico, quello che la donna non aveva mai provato con Laio, il marito.

 

Edipo è qui visto come una sorta di Dioniso che si oppone al regime dittatoriale di Laio, il tiranno, l’antagonista, il contraltare apollineo che punisce con tremenda violenza l’anarchia, l’omosessualità e la blasfemia, i tre reati capitali. Il protagonista è qui rappresentato come colui che libererà l’uomo dal suo stato di schiavitù, schiacciato dall’eccessivo rigorismo di Laio. Vi è in Testori un tentativo, tuttavia fallimentare, di conferire valore politico al teatro anche se il grande obiettivo fu quello di “prosaicizzarlo” rendendolo il più possibile alla portata di tutti attualizzando i temi di quella che è considerata la più grande tragedia del genere umano. Edipo, l’infelice, è in questa tragedia del XX secolo l’emblema di coloro che in quanto diversi per qualità fisiche o morali, ideali (qui il protagonista è un uomo dionisiaco, un anarchico) vengono emarginati dalla società, costretti a vivere infelici e in solitudine disprezzati da tutti. Sono questi gli Scarrozzanti di cui Edipo è il Capo.

 

Un altro capolavoro teatrale contemporaneo è quello diretto da A. Calenda ed interpretato da F. Branciaroli nel ruolo di Edipo, Giocasta e Tiresia. Quella che ne viene data è una lettura psicanalitica in stile freudiano che si nota già dalla prima scena in cui il protagonista viene colto su un lettino davanti ad uno psichiatra intento ad evocare i fantasmi del suo passato che lo hanno indotto inconsciamente ad uccidere il padre e ad unirsi con la madre.

 

Tre i mostri evocati che prendono vita sotto le sembianze dello stesso Branciaroli nei panni di Edipo in impermeabile nero e anfibi; Giocasta, la madre che lo ha generato e a cui si è unito, appare truccata pesantemente e in guêpiére; e infine il profeta cieco Tiresia, alter ego di Edipo come sottolinea l’antropologo Girard in “Edipo liberato”. Anche qui, in una scenografia moderna in cui le luci sono protagoniste, si ritrova quello che Freud lesse nella tragedia sofoclea ovvero un percorso psicanalitico alla ricerca della verità sull’assassinio di Laio o meglio, sulle cause inconsce che hanno indotto Edipo ad uccidere il padre e unirsi alla madre, suo primo oggetto di desiderio amoroso.

 

Ma come mai una tragedia composta oltre duemila anni fa ha ancora oggi un tale successo?

Jean Pierre Vernant, antropologo francese e storico della filosofia afferma che il fatto di riconoscersi in Edipo non è una spiegazione sufficiente, come sostiene invece Freud, a spiegare la fama senza tempo di tale opera. Molte sono state le tragedie e i lavori letterari che hanno colpito gli uomini per i temi affrontati e non sempre essi erano incesto e parricidio. Piuttosto il fatto che in Grecia iniziassero ad emergere riflessioni in merito al diritto e alla responsabilità dell’uomo nelle sue azioni è un evento non trascurabile: quanto di ciò che facciamo dipende da noi? È questo un argomento di dibattito in tutte le epoche successive strettamente collegato alla questione del libero arbitrio e all’etica umana.

 

Tracce del complesso di Edipo sono ricercate anche nella mitologia greca; Vernant prende in esame “La Teogonia” di Esiodo in cui Gea, Madre Terra, traendo la materia da se stessa plasmò Urano, il Cielo, suo primo figlio e marito dalla cui unione nacque Crono; Gea era però destinata a giacere sotto Urano e così anche i loro figli, costretti a vivere nell’oscurità. Irritata da ciò la dea ordinò a Crono di evirare il padre così che questo si sollevasse da sopra di lei e la luce potesse illuminare la Terra. Così accadde e dai testicoli sanguinanti di Urano nacquero i Giganti, le Ninfe e le Erinni dal sangue piovuto sulla terra e Venere da quello caduto nel mare. Qui non si può parlare di incesto nota Vernant in quanto Urano non è stato concepito sessualmente da Gea ma è stato plasmato da lei. Non è quindi figlio biologico e perciò la prole nata dal loro rapporto non può essere considerata incestuosa.

 

Ma un altro è l’episodio analizzato da Vernant e riconducibile a quanto scrive Freud in “Totem e Tabù” nel saggio dedicato ai “Tabù”.

Freud definisce la morale come insieme di leggi che vietano di fare ciò che è tabù ovvero ciò che l’uomo teme di compiere. Ma se l’uomo si vieta qualcosa significa non che lo teme ma che lo desidera pur sapendo che è inopportuno o amorale, scrive Girard.

 

Quando Dio creò gli uomini li generò tutti fratelli e tenne gelosamente per sé le donne (come Zeus fece con Atena consacrandola alla verginità perché dea della guerra). Questo gesto indusse gli uomini a ribellarsi al padre tiranno e quando scoprirono di poter incrementare la loro potenza grazie alla technè lo eliminarono, fondarono le prime comunità e si accorsero che se non si fossero imposti tramite una legge di non desiderare le donne appartenenti allo stesso “clan” sarebbero scoppiate guerre interne che li avrebbero portati ad uccidersi l’un l’altro rendendo impossibile il costituirsi di una società. Ecco allora che stabilirono di non sposare donne della stessa famiglia ma di cercarla altrove (visione esogamica di Girard) e di non uccidere membri dello stesso clan. Nascono il divieto di incesto e di omicidio alla base delle società.

 

Una visione fortemente riconducibile a quella freudiana che individua in questo atteggiamento il complesso di Edipo che affligge ogni uomo in età infantile spingendolo a desiderare la madre e ad odiare il padre sino a desiderare inconsciamente la sua eliminazione, ma anche collegata a quella girardiana che riscontra il desiderio amoroso verso la donna d’altri (non necessariamente la propria madre) e la rivalità verso il proprio padre così come qualsiasi altro uomo in ogni momento della nostra vita.

 

Girard in “Menzogna romantica e verità romanzesca” prende in esame alcuni autori tra cui Proust, Stendhal, Dostoevskij e i loro capolavori. L’antropologo francese nota come l’amore sia strettamente collegato alla rivalità, alla gelosia e infine alla violenza. Nei romanzi si nota come nessun uomo desideri la donna non bramata da altri; è sempre ciò che gli altri possiedono che ognuno di noi anela. È questo quello che Girard definisce desiderio mimetico. Il comportamento mimetico è uno dei pilastri degli studi girardiani insieme alla teoria del capro espiatorio esposta nell’omonimo testo e ne “La violenza e il sacro”, capolavoro antropologico e filosofico del 1972.

 

In quest’opera lo studioso francese originario di Avignone esamina i temi centrali dei suoi studi focalizzando l’attenzione sul capro espiatorio. “Edipo re” rappresenta la tragedia umana per eccellenza in cui è possibile delineare il profilo esatto della vittima espiatoria.

 

Citando un passo del “Jugement du roy de Navarre” di G. de Machaut, poeta e compositore vissuto nella Francia del XIV secolo, Girard analizza le reazioni che il popolo dell’epoca ebbe nei confronti di chi era stato ritenuto colpevole di aver causato la peste che dilaniò anche Parigi nella seconda metà del ‘300. Le accuse ricaddero sugli ebrei e tutti coloro ritenuti loro complici poichè “diversi” dalla maggior parte delle persone.

 

Ma cosa è “diverso” ? M. Delcourt autrice di “Oedipe ou la légende du conquérant” non solo tenta di individuare le cause di ognuno dei sei “episodi” in cui divide la tragedia sofoclea (esposizione del bambino, parricidio, vittoria sulla Sfinge, enigma, matrimonio con la principessa, incesto con la madre) tramite il metodo storico, ma cerca di spiegare anche chi sono i diversi e perché Edipo ne sia un palese esempio. Il protagonista altro non è che un Pharmakos, ovvero un individuo allevato esclusivamente per essere sacrificato agli dei nel momento in cui la città si fosse trovata in una crisi di qualsiasi genere. Questo rituale prevedeva che la vittima, il bambino esposto e ormai cresciuto, avrebbe dovuto essere trascinato per tutta la città così da assorbirne il male che la invadeva e una volta ridotto in fin di vita avrebbe dovuto essere condotto in una zona desertica lontana dal centro abitato dove poter morire insieme a tutta la negatività assorbita.

 

Come sottolinea anche Girard queste vittime espiatorie erano caratterizzate da segni vittimari presenti sin dalla nascita che li distinguevano come se fossero stati marchiati. Questi esseri “amorfi” potevano avere qualità fisiche o morali differenti dal normale, potevano essere mostri deformi o spiccare per intelligenza, virtù, grandezza; potevano essere creature zoomorfe o comunque contraddistinte da qualche aspetto che li rendeva anomali perché avevano qualcosa in più o in meno rispetto alla maggior parte degli uomini.

 

Anche Elena di Troia è una vittima espiatoria in quanto dotata di una bellezza tale da essere invidiata da dee e donne e desiderata da tutti gli uomini. Edipo è invece contraddistinto dalla tracotanza (Hybris), da una presunzione di essere “di più” rispetto agli altri perché ha sconfitto la Sfinge risolvendone l’enigma e quindi si reputa dotato di estrema astuzia e intelligenza. Non solo, egli crede di essere un eroe perché salvatore di Tebe che sino al suo arrivo era minacciata dalla presenza dell’ “orrida Cantatrice”. Con queste parole si rivolge a Tiresia nel primo episodio della tragedia (vv. 388-389/ 393-394) dopo le accuse rivoltegli dal profeta restio a parlare: “Come mai, quando qui c’era l’orrida cantatrice, non desti un responso che liberasse questi cittadini? (…) Quando giunsi io, Edipo, che non sapevo nulla, la feci smettere, indovinando con la mia intelligenza.”

 

Effettivamente i tebani vedono in Edipo dapprima una sorta di mediatore tra uomini e dei ma proprio questa divinizzazione iniziale ha un risvolto tragico nel momento in cui ha inizio l’indagine condotta dallo stesso protagonista volta a determinare l’assassino di Laio che altri non è che lo stesso re. Durante il dialogo con Tiresia, un “botta e risposta” molto efficace grazie alla tecnica della sticomitia, è il profeta cieco che riesce però ad ostacolare il sovrano di Tebe grazie alla sua abilità retorica.

 

Tiresia: (…) sei tu l’empio che contamina questa terra.

Edipo: Con quale impudenza ha lanciato questa parola! E come pensi di uscirne salvo?

Tiresia: Sono fuori accusa: vive in me la forza della verità.

Edipo: E da chi l’hai appresa? Non certo dalla tua arte.

Tiresia: Da te; tu mi spingesti a parlare mio malgrado.

Edipo: A dire che? Ripetilo, che io sappia di più.

Tiresia: Non hai capito già? O tenti di farmi parlare?

Edipo: Non tanto da dire che so; suvvia, spiegami di nuovo.

Tiresia: Dico che l’uccisore di quell’uomo, che vai cercando, sei tu.

(Ep.1, vv 350-360)

 

 Egli approfitta delle circostanze per individuare un regicida soddisfacendo la profezia dell’Oracolo riportata da Creonte nel prologo, che aveva previsto la fine della peste su Tebe solo nel momento in cui fosse stato trovato l’assassino di Laio.

 

Il primo episodio della tragedia si apre con l’entrata di Tiresia che mesto viene costretto a rivelare ciò che sa nonostante l’espressa volontà di tacere. Le parole che affiorano dalle labbra del vecchio cieco offendono il re lasciandolo esterrefatto: egli sarebbe regicida e, come apprenderà successivamente, colpevole di incesto con la madre.

 

In realtà, nota Girard, non esistono prove inconfutabili che avvalorino tali accuse. Sofocle scrive la tragedia sviluppandola su due livelli: il primo è quello disseminato da incoerenze quali, la più celebre, la confusione tra i molti briganti che uccisero Laio e gli accompagnatori (versione nota a tutti i tebani e raccontata da Creonte nel prologo) e il solo Edipo che uccise il vecchio e il suo seguito all’incrocio delle tre vie in Focide.

 

Il secondo livello è invece disseminato di indizi che non sfuggiranno allo spettatore attento e che Edipo avrebbe potuto sfruttare a proprio vantaggio per difendersi dalle calunnie di Tiresia. In realtà le accuse rivoltegli dall’indovino non sono altro che le due peggiori colpe di cui poteva macchiarsi un uomo nel mondo antico. Sono proprio i due tabù di cui parla Freud nella sua opera del 1913 quelli che si presume abbia trasgredito il protagonista. Ma il sovrano di Tebe in realtà non è colpevole; egli diventa una vittima espiatoria consenziente, persuasa della sua colpevolezza dalla società. Ai tebani non interessa trovare l’assassino di Laio per dare giustizia al re defunto; a loro interessa trovare qualcuno il cui esilio o la cui morte possa eliminare la peste da Tebe realizzando la profezia dell’Oracolo. Ciò che la società vuole senza saperlo è un capro espiatorio. È questo un altro aspetto che emerge dalla lettura dei saggi di “Totem e Tabù” di Freud. La religione è infatti un altro tema caldo affrontato dallo psicanalista viennese ma anche da Girard e dal sociologo Durkheim.

 

Dopo aver esaminato il timore dell’incesto nel primo saggio e i tabù nel secondo, Freud si occupa di magia e religione. Così come i bambini in tenera età credono di poter ottenere tutto ciò che vogliono prima semplicemente pensandolo, poi utilizzando strumenti quali le urla, i pianti e i capricci, anche la religione è convinta di poter realizzare tutto ciò a cui l’uomo pensa sacrificando vittime a Dio. Non è Dio che pretende un sacrificio ma è l’uomo che crede che con la morte di qualcuno l’ira delle divinità potrà essere placata espiando così i propri peccati. È quello che viene definito masochismo religioso e di cui il cristianesimo è un notevole esempio.

 

Gesù, figlio di Dio e uomo si sacrifica per salvare l’umanità dal peccato originale sapendo che solo con la morte si può essere salvati dalla stessa. Ecco allora che gli uomini condannano un individuo innocente che aveva tutte le carte in regola per essere considerato una vittima espiatoria nel tentativo di placare quel senso di colpa che affiora davanti a Dio quando comprendono di aver peccato di superbia davanti a Lui.

 

Da ciò si evince come per Freud la religione sia necessaria insieme ai suoi riti (rappresentazioni o ri-presentazioni di miti secondo Girard) in quanto collante della società che ad essa crede unanimemente. Il filosofo viennese afferma quindi che la morale, quell’insieme di leggi che l’uomo si impone di non trasgredire per non macchiarsi di colpe con i tanto temuti tabù, si fondi in parte sulla religione e quindi sul senso di colpa, in parte sulla concezione utilitaristica secondo cui l’uomo si imporrebbe il divieto di omicidio perché altrimenti estinguerebbe la possibilità di fondare una società.

 

Anche la posizione di Girard è favorevole alla presenza della religione nella società perché essa favorisce il legame tra gli uomini che nella collettività (quella che coinvolge tutti gli individui suscitando lo stato di “effervescenza” di cui parla Durkheim ) apprendono, si confrontano e relazionano con l’altro.

 

Ma “l’altro” è anche colui che nella visione antropologica di Girard rappresenta per ognuno di noi sia un modello che un ostacolo. Lo studioso di Avignone parla di mediazione interna ed esterna in merito al comportamento mimetico dell’uomo che lo distingue dall’animale solo per il grado di imitazione con cui ci approcciamo all’altro. “L’uomo è un animale mimetico” scrive Aristotele, egli impara imitando ma non solo ciò che è bene; spesso l’imitazione porta anche all’aggressività. Tenendo conto degli studi di Girard si evince che se la mediazione esterna non è pericolosa perché implica un desiderio mimetico verso una presenza fittizia, la mediazione interna si rivela invece deleteria. Essa mostra come gli uomini desiderino sempre ciò che l’altro possiede e non sia mai soddisfatto di ciò che invece ha.

 

Il soggetto desiderante vede nell’altro un modello da imitare e per questo lo ama, ma allo stesso tempo lo vede anche come un ostacolo che possiede qualcosa in più, che lo supera e che lo fa sentire inferiore. Questo genera sconforto e un acceso desiderio di rivalità che lo spinge a maturare un sentimento di odio nei confronti del modello che cerca di superare se stesso affinché l’altro non lo raggiunga. Si innesca un circolo vizioso in cui il desiderio del soggetto di ottenere quello chl’altro possiede si trasforma alla fine in un desiderio metafisico di superamento del rivale.

 

In questo senso Girard libera Edipo dal suo complesso perché il modello non è più solo il padre e il soggetto non è solo il bambino, ma chiunque a qualsiasi età può avere come modello qualcun altro.

 

Ne “Il capro espiatorio” Girard mostra come la rivalità tra individui sia in effetti alla base di ogni società. Questi studi, unitamente a “Menzogna romantica e verità romanzesca” rivelano che la grande farsa dell’umanità è proprio l’individualismo in quanto non esiste nessuno di diverso dall’altro poiché tutti noi siamo una massa di doppi. È questo ciò che l’antropologo francese chiama indifferenziazione e che si sviluppa in ogni momento di crisi a partire da quelle istituzionali: le differenze gerarchiche nella società vengono meno, il “demos” detiene il “kratos” e si ha un rovesciamento di ruoli in cui tutto è confuso.

 

Hobbes affermava che una società in cui non ci sono gerarchie sociali e politiche è destinata a collassare. Alla crisi istituzionale seguono quella culturale e quella sociale in quanto la mancanza di ruoli precisi al governo comporta un unanime desiderio di ottenere il potere e quindi rivalità tra uomini che fanno di tutto pur di mostrarsi superiori agli altri e di meritare di stare al governo. È la fine dei rapporti umani; ognuno vedrà l’altro come un modello e un ostacolo da imitare e superare credendosi migliore e per questo diverso.

 

Nel momento in cui il molteplice viene inghiottito dall’unità si perdono le differenze e tutto si uniforma. Ed è in queste situazioni che le minoranze etniche o individui con peculiarità insolite vengono additati come i responsabili di tutto ciò che di negativo accade alla società.

 

Ne “Il capro espiatorio” Girard sottolinea che i testi di persecuzione (che a differenza dei miti non sono caratterizzati dalla presenza del sacro, termine con accezione negativa in quanto implica sacrificio) andrebbero analizzati da un punto di vista storico con occhio critico e tenendo presente la maggior parte di informazioni reperibili da fonti attendibili.

 

In essi lo studioso individua quattro stereotipi di persecuzione ravvisabili nella indifferenziazione generalizzata, crimini indifferenziati, segni vittimari (ovvero quei marchi che individuano la vittima espiatoria sin dalla nascita e che possono essere qualità fisiche o morali in eccesso o in difetto rispetto alla regolarità della natura) e violenza.

 

In “Edipo re”questi aspetti sono presenti e si configurano con la peste che rende la società indifferenziata in quanto colpisce tutti indiscriminatamente tranne Edipo, la tracotanza del protagonista, il suo orgoglio, la sua superbia, la sua eccessiva fiducia in se stesso e nelle sue doti, il suo essere straniero, re sacro ma anche zoppo, sono tutti aspetti che rendono questa tragedia non solo un mito ma anche un testo di persecuzione in cui il re sacro è vittima della massa sin dall’inizio.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Edipo re, Sofocle, Mondadori

Edipo senza complesso, Jean Pierre Vernant, Mimesis

Edipo liberato, R. Girard, Transeuropa

Il capro espiatorio, R. Girard, Adelphi

La violenza e il sacro, R. Girard, Adelphi

Menzogna romantica e verità romanzesca, R. Girard, Bompiani

Totem e tabù, S. Freud, Feltrinelli

Introduzione alla psicoanalisi; lezione 21, S. Freud, Feltrinelli



 

 

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