N. 78 - Giugno 2014
(CIX)
EDIPO: UOMO, RE, VITTIMa
LA TRAGEDIA SENZA TEMPO
di Giulia Elena Vigoni
Chi
è
Edipo?
È
questa
una
delle
domande
a
cui
molti
psicologi,
antropologi
e
sociologi
hanno
provato
a
rispondere
ma
tutti
questi
studi
presi
singolarmente
risultano
essere
piuttosto
superficiali;
le
varie
prospettive
prese
in
esame
dovrebbero
essere
considerate
da
un
punto
di
vista
filosofico
che
tenga
conto
di
tutti
gli
ambiti
in
cui
questa
tragedia
si
sviluppa.
La
tragedia
“Edipo
re”
(Oidípus
týrannos)
fu
composta
da
Sofocle
intorno
al
420-430
a.C.
e
annovera
tra
i
suoi
antecedenti
i
poemi
epici
ormai
perduti
o
frammentari
del
Ciclo
tebano
comprendente
anche
la
“Tebaide”,
gli
“Epigoni”e
l’ “Edipodia”.
Insieme
ad
Eschilo
ed
Euripide
Sofocle
si
colloca
tra
i
più
grandi
tragediografi
greci
del
suo
tempo,
modello
e
fonte
di
ispirazione
per
molti
autori
nei
secoli
successivi
sino
ad
oggi.
Ne
sono
un
esempio
i
francesi
Corneille,
Racine
e
Voltaire
con
“Œdipe”
gli
inglesi
Dryden
e
Lee
con
“Oedipus”
del
1679
mentre
nel
XX
secolo
spiccano
gli
adattamenti
di
G.
Testori
con
“Edipus”e
per
la
regia
di
Calenda
“Edipo
re”.
Nel
1972
Testori
iniziò
a
comporre
le
tre
opere
teatrali
“L’Ambleto”,
“Macbetto”
e
“Edipus”
(1974)
costituenti
la
Trilogia
degli
Scarrozzanti.
Esperimenti
che
tuttavia
non
riscossero
grande
successo
in
quanto
atipici
per
il
teatro
del
XX
secolo.
Una
delle
caratteristiche
principali
è
sicuramente
la
lingua
adottata,
l’ “italiacano”,
che
mescola
dialetto
lombardo,
parole
straniere
ed
espressioni
popolari
che
rendono
questo
linguaggio
piuttosto
rozzo
e
volgare
ma
allo
stesso
tempo
anche
struggente
e
coinvolgente.
“Edipus”,
opera
finale
della
trilogia,
narra
del
ritorno
di
Edipo
a
Novate
Milanese
spinto
dal
consapevole
desiderio
di
vendetta
nei
confronti
dei
genitori
che
lo
hanno
abbandonato
ancora
in
fasce
e
generato
pur
sapendolo
destinato
all’infelicità.
È
questo
ciò
che
lo
distingue
dagli
studi
psicanalitici
di
Freud
in
merito
al
“complesso
di
Edipo”
che
il
filosofo
viennese
attribuiva,
erroneamente
secondo
l’antropologo
francese
R.
Girard
e M.
Anspach,
al
protagonista.
L’Edipo
di
Testori
è
consapevole
di
questo
desiderio
di
vendetta
che
concretizza
non
uccidendo
il
padre
ma
evirandolo.
I
temi
su
cui
si
incentra
quest’opera
sono
infatti
quello
politico
e
quello
sessuale
e
così
facendo
il
protagonista
priva
il
genitore
di
entrambi
i
suoi
poteri
sostituendosi
totalmente
a
lui.
La
sua
unione
con
Giocasta
è
vissuta
da
entrambi
come
un
puro
piacere
fisico,
quello
che
la
donna
non
aveva
mai
provato
con
Laio,
il
marito.
Edipo
è
qui
visto
come
una
sorta
di
Dioniso
che
si
oppone
al
regime
dittatoriale
di
Laio,
il
tiranno,
l’antagonista,
il
contraltare
apollineo
che
punisce
con
tremenda
violenza
l’anarchia,
l’omosessualità
e la
blasfemia,
i
tre
reati
capitali.
Il
protagonista
è
qui
rappresentato
come
colui
che
libererà
l’uomo
dal
suo
stato
di
schiavitù,
schiacciato
dall’eccessivo
rigorismo
di
Laio.
Vi è
in
Testori
un
tentativo,
tuttavia
fallimentare,
di
conferire
valore
politico
al
teatro
anche
se
il
grande
obiettivo
fu
quello
di
“prosaicizzarlo”
rendendolo
il
più
possibile
alla
portata
di
tutti
attualizzando
i
temi
di
quella
che
è
considerata
la
più
grande
tragedia
del
genere
umano.
Edipo,
l’infelice,
è in
questa
tragedia
del
XX
secolo
l’emblema
di
coloro
che
in
quanto
diversi
per
qualità
fisiche
o
morali,
ideali
(qui
il
protagonista
è un
uomo
dionisiaco,
un
anarchico)
vengono
emarginati
dalla
società,
costretti
a
vivere
infelici
e in
solitudine
disprezzati
da
tutti.
Sono
questi
gli
Scarrozzanti
di
cui
Edipo
è il
Capo.
Un
altro
capolavoro
teatrale
contemporaneo
è
quello
diretto
da
A.
Calenda
ed
interpretato
da
F.
Branciaroli
nel
ruolo
di
Edipo,
Giocasta
e
Tiresia.
Quella
che
ne
viene
data
è
una
lettura
psicanalitica
in
stile
freudiano
che
si
nota
già
dalla
prima
scena
in
cui
il
protagonista
viene
colto
su
un
lettino
davanti
ad
uno
psichiatra
intento
ad
evocare
i
fantasmi
del
suo
passato
che
lo
hanno
indotto
inconsciamente
ad
uccidere
il
padre
e ad
unirsi
con
la
madre.
Tre
i
mostri
evocati
che
prendono
vita
sotto
le
sembianze
dello
stesso
Branciaroli
nei
panni
di
Edipo
in
impermeabile
nero
e
anfibi;
Giocasta,
la
madre
che
lo
ha
generato
e a
cui
si è
unito,
appare
truccata
pesantemente
e in
guêpiére;
e
infine
il
profeta
cieco
Tiresia,
alter
ego
di
Edipo
come
sottolinea
l’antropologo
Girard
in
“Edipo
liberato”.
Anche
qui,
in
una
scenografia
moderna
in
cui
le
luci
sono
protagoniste,
si
ritrova
quello
che
Freud
lesse
nella
tragedia
sofoclea
ovvero
un
percorso
psicanalitico
alla
ricerca
della
verità
sull’assassinio
di
Laio
o
meglio,
sulle
cause
inconsce
che
hanno
indotto
Edipo
ad
uccidere
il
padre
e
unirsi
alla
madre,
suo
primo
oggetto
di
desiderio
amoroso.
Ma
come
mai
una
tragedia
composta
oltre
duemila
anni
fa
ha
ancora
oggi
un
tale
successo?
Jean
Pierre
Vernant,
antropologo
francese
e
storico
della
filosofia
afferma
che
il
fatto
di
riconoscersi
in
Edipo
non
è
una
spiegazione
sufficiente,
come
sostiene
invece
Freud,
a
spiegare
la
fama
senza
tempo
di
tale
opera.
Molte
sono
state
le
tragedie
e i
lavori
letterari
che
hanno
colpito
gli
uomini
per
i
temi
affrontati
e
non
sempre
essi
erano
incesto
e
parricidio.
Piuttosto
il
fatto
che
in
Grecia
iniziassero
ad
emergere
riflessioni
in
merito
al
diritto
e
alla
responsabilità
dell’uomo
nelle
sue
azioni
è un
evento
non
trascurabile:
quanto
di
ciò
che
facciamo
dipende
da
noi?
È
questo
un
argomento
di
dibattito
in
tutte
le
epoche
successive
strettamente
collegato
alla
questione
del
libero
arbitrio
e
all’etica
umana.
Tracce
del
complesso
di
Edipo
sono
ricercate
anche
nella
mitologia
greca;
Vernant
prende
in
esame
“La
Teogonia”
di
Esiodo
in
cui
Gea,
Madre
Terra,
traendo
la
materia
da
se
stessa
plasmò
Urano,
il
Cielo,
suo
primo
figlio
e
marito
dalla
cui
unione
nacque
Crono;
Gea
era
però
destinata
a
giacere
sotto
Urano
e
così
anche
i
loro
figli,
costretti
a
vivere
nell’oscurità.
Irritata
da
ciò
la
dea
ordinò
a
Crono
di
evirare
il
padre
così
che
questo
si
sollevasse
da
sopra
di
lei
e la
luce
potesse
illuminare
la
Terra.
Così
accadde
e
dai
testicoli
sanguinanti
di
Urano
nacquero
i
Giganti,
le
Ninfe
e le
Erinni
dal
sangue
piovuto
sulla
terra
e
Venere
da
quello
caduto
nel
mare.
Qui
non
si
può
parlare
di
incesto
nota
Vernant
in
quanto
Urano
non
è
stato
concepito
sessualmente
da
Gea
ma è
stato
plasmato
da
lei.
Non
è
quindi
figlio
biologico
e
perciò
la
prole
nata
dal
loro
rapporto
non
può
essere
considerata
incestuosa.
Ma
un
altro
è
l’episodio
analizzato
da
Vernant
e
riconducibile
a
quanto
scrive
Freud
in “Totem
e
Tabù”
nel
saggio
dedicato
ai
“Tabù”.
Freud
definisce
la
morale
come
insieme
di
leggi
che
vietano
di
fare
ciò
che
è
tabù
ovvero
ciò
che
l’uomo
teme
di
compiere.
Ma
se
l’uomo
si
vieta
qualcosa
significa
non
che
lo
teme
ma
che
lo
desidera
pur
sapendo
che
è
inopportuno
o
amorale,
scrive
Girard.
Quando
Dio
creò
gli
uomini
li
generò
tutti
fratelli
e
tenne
gelosamente
per
sé
le
donne
(come
Zeus
fece
con
Atena
consacrandola
alla
verginità
perché
dea
della
guerra).
Questo
gesto
indusse
gli
uomini
a
ribellarsi
al
padre
tiranno
e
quando
scoprirono
di
poter
incrementare
la
loro
potenza
grazie
alla
technè
lo
eliminarono,
fondarono
le
prime
comunità
e si
accorsero
che
se
non
si
fossero
imposti
tramite
una
legge
di
non
desiderare
le
donne
appartenenti
allo
stesso
“clan”
sarebbero
scoppiate
guerre
interne
che
li
avrebbero
portati
ad
uccidersi
l’un
l’altro
rendendo
impossibile
il
costituirsi
di
una
società.
Ecco
allora
che
stabilirono
di
non
sposare
donne
della
stessa
famiglia
ma
di
cercarla
altrove
(visione
esogamica
di
Girard)
e di
non
uccidere
membri
dello
stesso
clan.
Nascono
il
divieto
di
incesto
e di
omicidio
alla
base
delle
società.
Una
visione
fortemente
riconducibile
a
quella
freudiana
che
individua
in
questo
atteggiamento
il
complesso
di
Edipo
che
affligge
ogni
uomo
in
età
infantile
spingendolo
a
desiderare
la
madre
e ad
odiare
il
padre
sino
a
desiderare
inconsciamente
la
sua
eliminazione,
ma
anche
collegata
a
quella
girardiana
che
riscontra
il
desiderio
amoroso
verso
la
donna
d’altri
(non
necessariamente
la
propria
madre)
e la
rivalità
verso
il
proprio
padre
così
come
qualsiasi
altro
uomo
in
ogni
momento
della
nostra
vita.
Girard
in
“Menzogna
romantica
e
verità
romanzesca”
prende
in
esame
alcuni
autori
tra
cui
Proust,
Stendhal,
Dostoevskij
e i
loro
capolavori.
L’antropologo
francese
nota
come
l’amore
sia
strettamente
collegato
alla
rivalità,
alla
gelosia
e
infine
alla
violenza.
Nei
romanzi
si
nota
come
nessun
uomo
desideri
la
donna
non
bramata
da
altri;
è
sempre
ciò
che
gli
altri
possiedono
che
ognuno
di
noi
anela.
È
questo
quello
che
Girard
definisce
desiderio
mimetico.
Il
comportamento
mimetico
è
uno
dei
pilastri
degli
studi
girardiani
insieme
alla
teoria
del
capro
espiatorio
esposta
nell’omonimo
testo
e ne
“La
violenza
e il
sacro”,
capolavoro
antropologico
e
filosofico
del
1972.
In
quest’opera
lo
studioso
francese
originario
di
Avignone
esamina
i
temi
centrali
dei
suoi
studi
focalizzando
l’attenzione
sul
capro
espiatorio.
“Edipo
re”
rappresenta
la
tragedia
umana
per
eccellenza
in
cui
è
possibile
delineare
il
profilo
esatto
della
vittima
espiatoria.
Citando
un
passo
del
“Jugement
du
roy
de
Navarre”
di
G.
de
Machaut,
poeta
e
compositore
vissuto
nella
Francia
del
XIV
secolo,
Girard
analizza
le
reazioni
che
il
popolo
dell’epoca
ebbe
nei
confronti
di
chi
era
stato
ritenuto
colpevole
di
aver
causato
la
peste
che
dilaniò
anche
Parigi
nella
seconda
metà
del
‘300.
Le
accuse
ricaddero
sugli
ebrei
e
tutti
coloro
ritenuti
loro
complici
poichè
“diversi”
dalla
maggior
parte
delle
persone.
Ma
cosa
è
“diverso”
? M.
Delcourt
autrice
di
“Oedipe
ou
la
légende
du
conquérant”
non
solo
tenta
di
individuare
le
cause
di
ognuno
dei
sei
“episodi”
in
cui
divide
la
tragedia
sofoclea
(esposizione
del
bambino,
parricidio,
vittoria
sulla
Sfinge,
enigma,
matrimonio
con
la
principessa,
incesto
con
la
madre)
tramite
il
metodo
storico,
ma
cerca
di
spiegare
anche
chi
sono
i
diversi
e
perché
Edipo
ne
sia
un
palese
esempio.
Il
protagonista
altro
non
è
che
un
Pharmakos,
ovvero
un
individuo
allevato
esclusivamente
per
essere
sacrificato
agli
dei
nel
momento
in
cui
la
città
si
fosse
trovata
in
una
crisi
di
qualsiasi
genere.
Questo
rituale
prevedeva
che
la
vittima,
il
bambino
esposto
e
ormai
cresciuto,
avrebbe
dovuto
essere
trascinato
per
tutta
la
città
così
da
assorbirne
il
male
che
la
invadeva
e
una
volta
ridotto
in
fin
di
vita
avrebbe
dovuto
essere
condotto
in
una
zona
desertica
lontana
dal
centro
abitato
dove
poter
morire
insieme
a
tutta
la
negatività
assorbita.
Come
sottolinea
anche
Girard
queste
vittime
espiatorie
erano
caratterizzate
da
segni
vittimari
presenti
sin
dalla
nascita
che
li
distinguevano
come
se
fossero
stati
marchiati.
Questi
esseri
“amorfi”
potevano
avere
qualità
fisiche
o
morali
differenti
dal
normale,
potevano
essere
mostri
deformi
o
spiccare
per
intelligenza,
virtù,
grandezza;
potevano
essere
creature
zoomorfe
o
comunque
contraddistinte
da
qualche
aspetto
che
li
rendeva
anomali
perché
avevano
qualcosa
in
più
o in
meno
rispetto
alla
maggior
parte
degli
uomini.
Anche
Elena
di
Troia
è
una
vittima
espiatoria
in
quanto
dotata
di
una
bellezza
tale
da
essere
invidiata
da
dee
e
donne
e
desiderata
da
tutti
gli
uomini.
Edipo
è
invece
contraddistinto
dalla
tracotanza
(Hybris),
da
una
presunzione
di
essere
“di
più”
rispetto
agli
altri
perché
ha
sconfitto
la
Sfinge
risolvendone
l’enigma
e
quindi
si
reputa
dotato
di
estrema
astuzia
e
intelligenza.
Non
solo,
egli
crede
di
essere
un
eroe
perché
salvatore
di
Tebe
che
sino
al
suo
arrivo
era
minacciata
dalla
presenza
dell’
“orrida
Cantatrice”.
Con
queste
parole
si
rivolge
a
Tiresia
nel
primo
episodio
della
tragedia
(vv.
388-389/
393-394)
dopo
le
accuse
rivoltegli
dal
profeta
restio
a
parlare:
“Come
mai,
quando
qui
c’era
l’orrida
cantatrice,
non
desti
un
responso
che
liberasse
questi
cittadini?
(…)
Quando
giunsi
io,
Edipo,
che
non
sapevo
nulla,
la
feci
smettere,
indovinando
con
la
mia
intelligenza.”
Effettivamente
i
tebani
vedono
in
Edipo
dapprima
una
sorta
di
mediatore
tra
uomini
e
dei
ma
proprio
questa
divinizzazione
iniziale
ha
un
risvolto
tragico
nel
momento
in
cui
ha
inizio
l’indagine
condotta
dallo
stesso
protagonista
volta
a
determinare
l’assassino
di
Laio
che
altri
non
è
che
lo
stesso
re.
Durante
il
dialogo
con
Tiresia,
un
“botta
e
risposta”
molto
efficace
grazie
alla
tecnica
della
sticomitia,
è il
profeta
cieco
che
riesce
però
ad
ostacolare
il
sovrano
di
Tebe
grazie
alla
sua
abilità
retorica.
Tiresia:
(…)
sei
tu
l’empio
che
contamina
questa
terra.
Edipo:
Con
quale
impudenza
ha
lanciato
questa
parola!
E
come
pensi
di
uscirne
salvo?
Tiresia:
Sono
fuori
accusa:
vive
in
me
la
forza
della
verità.
Edipo:
E da
chi
l’hai
appresa?
Non
certo
dalla
tua
arte.
Tiresia:
Da
te;
tu
mi
spingesti
a
parlare
mio
malgrado.
Edipo:
A
dire
che?
Ripetilo,
che
io
sappia
di
più.
Tiresia:
Non
hai
capito
già?
O
tenti
di
farmi
parlare?
Edipo:
Non
tanto
da
dire
che
so;
suvvia,
spiegami
di
nuovo.
Tiresia:
Dico
che
l’uccisore
di
quell’uomo,
che
vai
cercando,
sei
tu.
(Ep.1,
vv
350-360)
Egli
approfitta
delle
circostanze
per
individuare
un
regicida
soddisfacendo
la
profezia
dell’Oracolo
riportata
da
Creonte
nel
prologo,
che
aveva
previsto
la
fine
della
peste
su
Tebe
solo
nel
momento
in
cui
fosse
stato
trovato
l’assassino
di
Laio.
Il
primo
episodio
della
tragedia
si
apre
con
l’entrata
di
Tiresia
che
mesto
viene
costretto
a
rivelare
ciò
che
sa
nonostante
l’espressa
volontà
di
tacere.
Le
parole
che
affiorano
dalle
labbra
del
vecchio
cieco
offendono
il
re
lasciandolo
esterrefatto:
egli
sarebbe
regicida
e,
come
apprenderà
successivamente,
colpevole
di
incesto
con
la
madre.
In
realtà,
nota
Girard,
non
esistono
prove
inconfutabili
che
avvalorino
tali
accuse.
Sofocle
scrive
la
tragedia
sviluppandola
su
due
livelli:
il
primo
è
quello
disseminato
da
incoerenze
quali,
la
più
celebre,
la
confusione
tra
i
molti
briganti
che
uccisero
Laio
e
gli
accompagnatori
(versione
nota
a
tutti
i
tebani
e
raccontata
da
Creonte
nel
prologo)
e il
solo
Edipo
che
uccise
il
vecchio
e il
suo
seguito
all’incrocio
delle
tre
vie
in
Focide.
Il
secondo
livello
è
invece
disseminato
di
indizi
che
non
sfuggiranno
allo
spettatore
attento
e
che
Edipo
avrebbe
potuto
sfruttare
a
proprio
vantaggio
per
difendersi
dalle
calunnie
di
Tiresia.
In
realtà
le
accuse
rivoltegli
dall’indovino
non
sono
altro
che
le
due
peggiori
colpe
di
cui
poteva
macchiarsi
un
uomo
nel
mondo
antico.
Sono
proprio
i
due
tabù
di
cui
parla
Freud
nella
sua
opera
del
1913
quelli
che
si
presume
abbia
trasgredito
il
protagonista.
Ma
il
sovrano
di
Tebe
in
realtà
non
è
colpevole;
egli
diventa
una
vittima
espiatoria
consenziente,
persuasa
della
sua
colpevolezza
dalla
società.
Ai
tebani
non
interessa
trovare
l’assassino
di
Laio
per
dare
giustizia
al
re
defunto;
a
loro
interessa
trovare
qualcuno
il
cui
esilio
o la
cui
morte
possa
eliminare
la
peste
da
Tebe
realizzando
la
profezia
dell’Oracolo.
Ciò
che
la
società
vuole
senza
saperlo
è un
capro
espiatorio.
È
questo
un
altro
aspetto
che
emerge
dalla
lettura
dei
saggi
di “Totem
e
Tabù”
di
Freud.
La
religione
è
infatti
un
altro
tema
caldo
affrontato
dallo
psicanalista
viennese
ma
anche
da
Girard
e
dal
sociologo
Durkheim.
Dopo
aver
esaminato
il
timore
dell’incesto
nel
primo
saggio
e i
tabù
nel
secondo,
Freud
si
occupa
di
magia
e
religione.
Così
come
i
bambini
in
tenera
età
credono
di
poter
ottenere
tutto
ciò
che
vogliono
prima
semplicemente
pensandolo,
poi
utilizzando
strumenti
quali
le
urla,
i
pianti
e i
capricci,
anche
la
religione
è
convinta
di
poter
realizzare
tutto
ciò
a
cui
l’uomo
pensa
sacrificando
vittime
a
Dio.
Non
è
Dio
che
pretende
un
sacrificio
ma è
l’uomo
che
crede
che
con
la
morte
di
qualcuno
l’ira
delle
divinità
potrà
essere
placata
espiando
così
i
propri
peccati.
È
quello
che
viene
definito
masochismo
religioso
e di
cui
il
cristianesimo
è un
notevole
esempio.
Gesù,
figlio
di
Dio
e
uomo
si
sacrifica
per
salvare
l’umanità
dal
peccato
originale
sapendo
che
solo
con
la
morte
si
può
essere
salvati
dalla
stessa.
Ecco
allora
che
gli
uomini
condannano
un
individuo
innocente
che
aveva
tutte
le
carte
in
regola
per
essere
considerato
una
vittima
espiatoria
nel
tentativo
di
placare
quel
senso
di
colpa
che
affiora
davanti
a
Dio
quando
comprendono
di
aver
peccato
di
superbia
davanti
a
Lui.
Da
ciò
si
evince
come
per
Freud
la
religione
sia
necessaria
insieme
ai
suoi
riti
(rappresentazioni
o
ri-presentazioni
di
miti
secondo
Girard)
in
quanto
collante
della
società
che
ad
essa
crede
unanimemente.
Il
filosofo
viennese
afferma
quindi
che
la
morale,
quell’insieme
di
leggi
che
l’uomo
si
impone
di
non
trasgredire
per
non
macchiarsi
di
colpe
con
i
tanto
temuti
tabù,
si
fondi
in
parte
sulla
religione
e
quindi
sul
senso
di
colpa,
in
parte
sulla
concezione
utilitaristica
secondo
cui
l’uomo
si
imporrebbe
il
divieto
di
omicidio
perché
altrimenti
estinguerebbe
la
possibilità
di
fondare
una
società.
Anche
la
posizione
di
Girard
è
favorevole
alla
presenza
della
religione
nella
società
perché
essa
favorisce
il
legame
tra
gli
uomini
che
nella
collettività
(quella
che
coinvolge
tutti
gli
individui
suscitando
lo
stato
di
“effervescenza”
di
cui
parla
Durkheim
)
apprendono,
si
confrontano
e
relazionano
con
l’altro.
Ma
“l’altro”
è
anche
colui
che
nella
visione
antropologica
di
Girard
rappresenta
per
ognuno
di
noi
sia
un
modello
che
un
ostacolo.
Lo
studioso
di
Avignone
parla
di
mediazione
interna
ed
esterna
in
merito
al
comportamento
mimetico
dell’uomo
che
lo
distingue
dall’animale
solo
per
il
grado
di
imitazione
con
cui
ci
approcciamo
all’altro.
“L’uomo
è un
animale
mimetico”
scrive
Aristotele,
egli
impara
imitando
ma
non
solo
ciò
che
è
bene;
spesso
l’imitazione
porta
anche
all’aggressività.
Tenendo
conto
degli
studi
di
Girard
si
evince
che
se
la
mediazione
esterna
non
è
pericolosa
perché
implica
un
desiderio
mimetico
verso
una
presenza
fittizia,
la
mediazione
interna
si
rivela
invece
deleteria.
Essa
mostra
come
gli
uomini
desiderino
sempre
ciò
che
l’altro
possiede
e
non
sia
mai
soddisfatto
di
ciò
che
invece
ha.
Il
soggetto
desiderante
vede
nell’altro
un
modello
da
imitare
e
per
questo
lo
ama,
ma
allo
stesso
tempo
lo
vede
anche
come
un
ostacolo
che
possiede
qualcosa
in
più,
che
lo
supera
e
che
lo
fa
sentire
inferiore.
Questo
genera
sconforto
e un
acceso
desiderio
di
rivalità
che
lo
spinge
a
maturare
un
sentimento
di
odio
nei
confronti
del
modello
che
cerca
di
superare
se
stesso
affinché
l’altro
non
lo
raggiunga.
Si
innesca
un
circolo
vizioso
in
cui
il
desiderio
del
soggetto
di
ottenere
quello
chl’altro
possiede
si
trasforma
alla
fine
in
un
desiderio
metafisico
di
superamento
del
rivale.
In
questo
senso
Girard
libera
Edipo
dal
suo
complesso
perché
il
modello
non
è
più
solo
il
padre
e il
soggetto
non
è
solo
il
bambino,
ma
chiunque
a
qualsiasi
età
può
avere
come
modello
qualcun
altro.
Ne
“Il
capro
espiatorio”
Girard
mostra
come
la
rivalità
tra
individui
sia
in
effetti
alla
base
di
ogni
società.
Questi
studi,
unitamente
a
“Menzogna
romantica
e
verità
romanzesca”
rivelano
che
la
grande
farsa
dell’umanità
è
proprio
l’individualismo
in
quanto
non
esiste
nessuno
di
diverso
dall’altro
poiché
tutti
noi
siamo
una
massa
di
doppi.
È
questo
ciò
che
l’antropologo
francese
chiama
indifferenziazione
e
che
si
sviluppa
in
ogni
momento
di
crisi
a
partire
da
quelle
istituzionali:
le
differenze
gerarchiche
nella
società
vengono
meno,
il
“demos”
detiene
il
“kratos”
e si
ha
un
rovesciamento
di
ruoli
in
cui
tutto
è
confuso.
Hobbes
affermava
che
una
società
in
cui
non
ci
sono
gerarchie
sociali
e
politiche
è
destinata
a
collassare.
Alla
crisi
istituzionale
seguono
quella
culturale
e
quella
sociale
in
quanto
la
mancanza
di
ruoli
precisi
al
governo
comporta
un
unanime
desiderio
di
ottenere
il
potere
e
quindi
rivalità
tra
uomini
che
fanno
di
tutto
pur
di
mostrarsi
superiori
agli
altri
e di
meritare
di
stare
al
governo.
È la
fine
dei
rapporti
umani;
ognuno
vedrà
l’altro
come
un
modello
e un
ostacolo
da
imitare
e
superare
credendosi
migliore
e
per
questo
diverso.
Nel
momento
in
cui
il
molteplice
viene
inghiottito
dall’unità
si
perdono
le
differenze
e
tutto
si
uniforma.
Ed è
in
queste
situazioni
che
le
minoranze
etniche
o
individui
con
peculiarità
insolite
vengono
additati
come
i
responsabili
di
tutto
ciò
che
di
negativo
accade
alla
società.
Ne
“Il
capro
espiatorio”
Girard
sottolinea
che
i
testi
di
persecuzione
(che
a
differenza
dei
miti
non
sono
caratterizzati
dalla
presenza
del
sacro,
termine
con
accezione
negativa
in
quanto
implica
sacrificio)
andrebbero
analizzati
da
un
punto
di
vista
storico
con
occhio
critico
e
tenendo
presente
la
maggior
parte
di
informazioni
reperibili
da
fonti
attendibili.
In
essi
lo
studioso
individua
quattro
stereotipi
di
persecuzione
ravvisabili
nella
indifferenziazione
generalizzata,
crimini
indifferenziati,
segni
vittimari
(ovvero
quei
marchi
che
individuano
la
vittima
espiatoria
sin
dalla
nascita
e
che
possono
essere
qualità
fisiche
o
morali
in
eccesso
o in
difetto
rispetto
alla
regolarità
della
natura)
e
violenza.
In
“Edipo
re”questi
aspetti
sono
presenti
e si
configurano
con
la
peste
che
rende
la
società
indifferenziata
in
quanto
colpisce
tutti
indiscriminatamente
tranne
Edipo,
la
tracotanza
del
protagonista,
il
suo
orgoglio,
la
sua
superbia,
la
sua
eccessiva
fiducia
in
se
stesso
e
nelle
sue
doti,
il
suo
essere
straniero,
re
sacro
ma
anche
zoppo,
sono
tutti
aspetti
che
rendono
questa
tragedia
non
solo
un
mito
ma
anche
un
testo
di
persecuzione
in
cui
il
re
sacro
è
vittima
della
massa
sin
dall’inizio.
Riferimenti
bibliografici:
Edipo
re,
Sofocle,
Mondadori
Edipo
senza
complesso,
Jean
Pierre
Vernant,
Mimesis
Edipo
liberato,
R.
Girard,
Transeuropa
Il
capro
espiatorio,
R.
Girard,
Adelphi
La
violenza
e il
sacro,
R.
Girard,
Adelphi
Menzogna
romantica
e
verità
romanzesca,
R.
Girard,
Bompiani
Totem
e
tabù,
S.
Freud,
Feltrinelli
Introduzione
alla
psicoanalisi;
lezione
21,
S.
Freud,
Feltrinelli