N. 117 - Settembre 2017
(CXLVIII)
gli spazi carcerari e la funzione riabilitativa della detenzione
storia e attualità
di Silvia Pennisi
La progettazione dell’edilizia carceraria, nonostante le numerose implicazioni sociali, politiche ed economiche, risulta in Italia poco trattata oltre che sostenuta unicamente da modelli edilizi che poco risultano coerenti con alcuni aspetti della normativa.
Secondo
il
dettato
costituzionale
«le
pene
non
possono
consistere
in
trattamenti
contrari
al
senso
di
umanità
e
devono
tendere
alla
rieducazione
del
condannato»,
e la
Riforma
dell’Ordinamento
penitenziario
(L.
354/1975)
in
vigore
da
più
di
quarant’anni
definiva
la nuova
funzione
del
carcere
che
«da
istituzione
di
mera
custodia
e di
isolamento
(…)
diviene
istituzione
che
deve
favorire
la
risocializzazione
del
detenuto».
Attualmente
ben
pochi
edifici
rispondono
appieno
alla
loro
reale
dichiarata
funzione
riabilitativa,
risulta
infatti
estremamente
difficile
conciliare
le
esigenze
della
detenzione
con
una
organizzazione
degli
spazi
che
rispetti
caratteristiche
legate
alla
qualità
necessaria
a
svolgere
appieno
tale
funzione.
Gli
interventi
più
recenti
di
ristrutturazione
degli
edifici
esistenti
hanno
ottemperato
alle
prescrizioni
minime
normative
ma
non
hanno
prestato
sempre
attenzione
al
miglioramento
degli
aspetti
psico-fisici
dei
detenuti,
dei
sorveglianti
e
dei
familiari.
Il
risultato
è
una
cultura
della
progettazione\ristrutturazione
dell’edificio
carcere
lontana
dalla
ricerca
di
valori
architettonici
come
avviene
per
qualunque
edificio
pubblico.
Sono
ben
noti
e in
parte
risolti
gli
aspetti
legati
al
sovraffollamento
e
alle
condizioni
di
vita
all’interno
delle
carceri
grazie
a
una
campagna
di
diffusione
di
tali
informazioni
e
conseguente
aumento
della
sensibilizzazione
su
tali
argomenti,
ma
rimangono
ancora
poco
esplorati
tutti
gli
aspetti
legati
alla
spazialità,
aerosità
degli
ambienti,
luminosità,
acustica
e
comfort
in
generale
che
potrebbero
favorire
il
fine
stesso
della
detenzione:
la
riabilitazione.
Al
contrario,
si
parla
spesso
di
ambiente
che
porta
a
una
“regressione”,
un
non-luogo
in
cui
alla
pena
della
privazione
della
libertà
se
ne
aggiungono
altre
legate
alla
sfera
fisica,
psicologica
e
affettiva.
Cenni
sull’evoluzione
degli
spazi
della
pena
Il
concetto
di
detenzione
come
pena
è di
recente
acquisizione.
Storicamente
infatti
le
pene
avevano
la
funzione
di
esempio
per
coloro
che
si
accingessero
a
compiere
i
medesimi
reati,
dunque
per
lo
più
pene
corporali,
allontanamento
del
reo
oppure
pena
di
morte.
Inizialmente,
nel
Medioevo,
l’architettura
giudiziaria
e
quella
carceraria
coincidevano:
gli
edifici
ospitavano
al
piano
terra,
più
buio
e
con
poche
aperture
verso
l’esterno,
i
condannati
o in
attesa
di
giudizio,
mentre
al
piano
superiore,
in
ampi
e
luminosi
ambienti,
si
svolgevano
le
attività
dei
giudici.
Poi,
dal
1500,
all’attività
giudiziaria
venne
destinato
un
edificio
in
maniera
esclusiva,
con
caratteristiche
architettoniche
e
simboliche
che
dovevano
segnalare
alla
città
la
sua
funzione
e
l’importanza
di
ciò
che
vi
avveniva
all’interno.
L’edificio
per
i
prigionieri,
seppure
vicino,
era
distinto,
questo
segnò
l’inizio
del
percorso
che
portò
alla
detenzione
come
pena.
Alla
fine
del
XVIII
secolo,
grazie
all’opera
dei
pensatori
e
dei
filosofi
illuministi,
il
concetto
di
pena
mutò
abbandonando
le
sanzioni
corporali
e
sostituendo
queste
con
la
pena
detentiva.
L’opera
certamente
più
importante
è
quella
di
Cesare
Beccaria
Dei
delitti
e
delle
pene,
dove
vengono
attaccate
e
criticate
le
atrocità
del
sistema
giudiziario
dell’epoca.
Inevitabilmente,
la
mutazione
della
concezione
della
pena
ha
comportato
la
realizzazione
di
strutture
atte
al
trattamento
dei
criminali.
In
questo
periodo
si
accentuò
la
tendenza
al
distacco
simbolico
e
fisico
tra
sedi
di
giustizia
e
luoghi
della
pena,
che
segnò
l’inizio
e lo
sviluppo
di
una
vera
e
propria
edilizia
penitenziaria
con
modelli
tipologici
più
funzionali
rispetto
al
passato,
con
la
conseguenza
però
che
il
luogo
fisico
della
detenzione
venne
destinato
a
una
progressiva
segregazione
ed
estraniazione
dal
contesto
civile
urbano.
Spesso
si
trattava
di
edifici
costruiti
per
altri
scopi
ed
adattati
a
carcere,
conventi
in
particolare,
che
con
la
loro
struttura
sembravano
presentare
già
caratteristiche
idonee.
Nel
1700,
con
l’Illuminismo,
il
carcere
assunse
una
sua
funzione
più
specifica,
non
fu
più
solo
un
contenitore
ma
si
iniziarono
a
studiare
metodi
e
architetture
che
lo
rendessero
strumento
di
punizione.
Soprattutto
nel
1800,
molti
studiosi
si
dedicarono
alla
“scienza
delle
prigioni”,
approfondendo
in
particolare
due
aspetti:
quello
disciplinare
e
quello
architettonico.
Il
primo
comportò
la
consapevolezza
della
necessità
di
isolamento
del
recluso
e
della
sua
istruzione
e
preparazione
al
lavoro.
Il
secondo
si
sviluppò
con
numerosi
schemi
di
edifici
atti
a
conciliare
le
esigenze
di
controllo
con
quelle
disciplinari.
I
modelli
che
si
studiarono
furono
diversi,
alcuni
ebbero
un
futuro,
altri
rimasero
pure
teorie.
Tra
questi
ultimi
il
modello
panottico
di
Bentham,
che
prevedeva
una
disposizione
attorno
a un
cerchio
delle
celle
in
modo
da
poter
essere
osservate
da
un
solo
punto
ma
che
non
venne
mai
seguito
nella
pratica.
.
Il panopticon
di
Bentham
Il
modello
filadelfiano
che
prevedeva
lo
sviluppo
di
bracci
attorno
a un
corpo
centrale
circolare,
in
cui
venivano
divisi
i
detenuti
per
classi,
improntato
sul
principio
dell’isolamento
assoluto
diurno
e
notturno.
Il
modello
auburniano
che
prevedeva
l’isolamento
notturno
e il
lavoro
diurno,
dunque
si
trovavano
ampi
spazi
comuni
per
il
lavoro
e
piccole
celle
disposte
su
bracci
e
prive
di
luce
diretta.
Queste
strutture,
per
la
prima
volta
denominati
penitenziari,
ospitavano
in
genere
persone
in
attesa
di
giudizio
o
debitori
e
non
vi
rimanevano
per
più
di
due
anni.
In
Italia,
con
l’avvenuta
Unità,
servì
rivedere
il
codice
penale.
Inoltre,
l’aumento
dei
crimini
e
dei
criminali
rese
necessaria
una
rivalutazione
degli
spazi
carcerari.
Le
pene
si
distinguevano
in:
pene
criminali
(lavori
forzati,
reclusione,
relegazione,
interdizione
dai
pubblici
uffici),
pene
correzionali
(carcere,
custodia,
confino,
esilio,
sospensione
dai
pubblici
uffici,
multe),
pene
accessorie
(interdizione
o
sospensione
da
una
carica,
o
professione
o
arte,
sorveglianza
speciale
di
P.S.
e
ammonizione).
Ai
tre
tipi
di
reato
corrispondevano
diverse
pene
detentive:
reclusione
e
relegazione
nelle
Case
di
forza;
carcere
nelle
Case
di
correzione;
custodia
nelle
Case
di
custodia
e
arresti
nelle
Carceri
mandamentali.
Si
aprirono
una
serie
di
dibattiti
sulle
tipologie
di
detenzione
e
sulla
relativa
distribuzione
delle
carceri.
La
riforma
penitenziaria
del
1889
ebbe
il
merito
di
porsi
il
problema
della
disponibilità
delle
strutture.
.
Il
carcere
di
Philadelphia
e
quello
di Pentonville
A
tal
fine
si
reperivano
i
proventi
necessari
per
l’edilizia
penitenziaria
dalle
lavorazioni
delle
carceri,
dalla
vendita
di
alcuni
immobili
e da
economie
realizzate
dall’amministrazione
carceraria
che,
all’epoca,
gestiva
direttamente
la
sua
edilizia.
Successivamente,
nel
1932,
venne
varata
una
seconda
riforma
penitenziaria
che
non
prevedeva
uno
specifico
programma
di
finanziamento
per
l’edilizia.
Essa,
pertanto,
iniziò
a
dipendere
dai
programmi
e
dai
fondi
dei
Lavori
Pubblici
i
quali
si
rivelarono
insufficienti
ad
affrontare
i
complessi
problemi
dei
manufatti
penitenziari.
Tutto
ciò
condusse
a un
graduale
decadimento
del
modello
architettonico
e
della
qualità
dei
materiali
impiegati
e
delle
tecnologie
al
fine
di
risparmiare.
Nel
secondo
dopoguerra
la
situazione
delle
carceri
italiane
era
disastrosa,
con
strutture
fatiscenti
e
condizioni
di
vita
all’interno
inaccettabili.
Un
grande
contributo
all’evoluzione
dell’architettura
carceraria
fu
dato
dall’architetto
Lenci
che,
altre
ad
avere
lavorato
presso
l’ufficio
tecnico
della
Direzione
generale
degli
istituti
di
prevenzione
e
pena,
ebbe
modo
di
maturare
le
sue
idee
nell’ambito
dei
numerosi
sopralluoghi
nella
realtà
degli
edifici
carcerari.
Ma
questi
anni
di
interesse
e
progettualità,
portata
avanti
anche
dall’architetto
Ridolfi,
ebbe
termine
con
la
riforma
del
1975,
l’emergenza
causò
la
deviazione
degli
interessi
verso
considerazioni
puramente
funzionali
ed
economiche,
rivolte
ad
un’ottimizzazione
degli
spazi
ed
anche
dei
progetti,
attraverso
la
realizzazione
di
un
progetto
tipo
per
le
nuove
realizzazioni.
Situazione
attuale
Da
allora
ad
oggi
ci
sono
stati
pochissimi
esempi
di
ricerca
sull’architettura
carceraria,
soltanto
il
tentativo
di
realizzare
un’edilizia
carceraria
economica
e
funzionale,
rivolta
alla
riduzione
del
personale
attraverso
l’implementazione
dei
metodi
di
controllo.
Dal
punto
di
vista
normativo,
riguardo
i
luoghi
di
detenzione,
il
legislatore
ha
disposto
che
la
finalità
della
risocializzazione
debba
essere
perseguita
avvalendosi
principalmente
dell’istruzione,
del
lavoro,
della
religione,
delle
attività
culturali,
ricreative
e
sportive
e
agevolando
opportuni
contatti
con
il
mondo
esterno
e i
rapporti
con
la
famiglia
(art.
15
legge
354
del
1975).
Questi
rappresentano
i
principali
strumenti
che
per
essere
messi
in
atto
necessitano
anche
di
spazi
adeguati,
talora
potenzialmente
esistenti
all’interno
delle
strutture,
ma
non
efficacemente
utilizzati,
distribuiti
o
progettati.
Si
parla
quindi
di
necessità
di
studio
riguardo
sia
gli
spazi
comuni
che
le
celle
di
detenzione:
«La
libertà
personale
è
una
condizione
fondamentale
e la
sua
privazione
può
avere
un
impatto
diretto
e
negativo
sul
godimento
di
numerosi
altri
diritti:
dal
diritto
al
rispetto
della
vita
privata
e
familiare,
alla
libertà
di
movimento,
e
così
via.
Per
cui,
le
forti
istanze
di
umanizzazione
della
pena,
avvertite
a
diversi
livelli,
impongono
di
interrogarsi,
in
particolare,
sulla
dimensione
spaziale
e
culturale
della
camera
detentiva
e
sulla
necessità
che
questa
possa
essere
quanto
più
rispettosa
della
dignità
umana
di
chi
in
esse
vi
trascorra
lungo
tempo»
(Dignità
della
persona
e
carcere
secondo
la
Costituzione
italiana:
la
questione
degli
spazi
minimi
, a
cura
del
Vice
Commissario
Valentina
Giordano
in
La
dignità
della
persona
in
carcere
-
Dispense
ISSP
n.4,
settembre
2013).
Negli
ultimi
anni,
grazie
all’intervento
della
Convenzione
Europea
per
la
salvaguardia
dei
diritti
dell’uomo
e
delle
libertà
fondamentali
(CEDU)
e
l’attività
giurisdizionale
della
Corte
di
Strasburgo
sono
sempre
più
ampi
la
riflessione
e i
dibattiti
riguardo
la
dignità
e
responsabilità
in
carcere,
quindi
la
tutela
della
persona.
Il
concetto
di
“spazio
della
pena”
è
ampio
e
coinvolge
anche
lo
spazio
fisico,
che
influenza
innegabilmente
la
vivibilità
della
detenzione,
che
deve
mirare
non
tanto
alla
costrizione
quanto
al
rafforzamento
delle
responsabilità
delle
persone
detenute.
Le
problematiche
più
comunemente
riscontrate
nelle
strutture
esistenti,
legate
esclusivamente
alla
qualità
degli
spazi,
sono
relative
soprattutto
alla
funzionalità
e
privacy
delle
celle
di
detenzione,
all’adeguatezza
degli
spazi
di
socialità
e
spazi
dei
colloqui.
Naturalmente
le
riflessioni
a
riguardo
necessitano
di
un
approccio
trasversale
e
competenze
in
materie
diverse,
non
esauribili
in
poche
righe.
Le
celle,
sebbene
il
problema
del
sovraffollamento
sia
stato
affrontato,
rimangono
luoghi
in
cui
due
o
cinque
persone
convivono
per
alcune
ore
della
giornata,
il
percepire
alcuni
spazi
come
esclusivamente
propri,
con
personalizzazioni
o
suddivisioni,
garantirebbe
quella
privacy
che
attualmente
ai
detenuti
pare
un
miraggio.
Gli
spazi
di
socialità
sono
all’aperto
e
al
chiuso;
i
primi,
per
questioni
soprattutto
legate
alla
sicurezza,
sono
spogli
cortili
dove
le
attività
risultano
inevitabilmente
ripetitive
e
alienanti,
mentre
gli
spazi
al
chiuso
sono
sovente
stanze
semivuote
poco
accoglienti.
A
ciò
si
aggiunga
che
secondo
il
nuovo
regime
di
detenzione,
è
possibile
trascorrere
molto
tempo
al
di
fuori
della
cella;
ciò
in
sé
sarebbe
una
nota
positiva,
se
gli
spazi
come
i
corridoi
costituissero
un
posto
adeguato
dove
svolgere
qualche
attività
costruttiva,
e
non
un
semplice
luogo
vuoto
e
privo
di
identità
dove
muoversi
per
ore
senza
uno
scopo
preciso.
Anche
gli
spazi
destinati
ai
colloqui,
nonostante
il
miglioramento
ottenuto
mediante
l’eliminazione
delle
barriere
tra
detenuti
e
familiari,
rimangono
spesso
dei
non
luoghi,
dove
risulta
impossibile
stabilire,
soprattutto
se
in
presenza
di
bambini,
un
sano
e
naturale
legame
familiare.
Considerato
che
l’affettività,
la
socialità
e
l’attività
quotidiana
rappresentano
dei
pilastri
imprescindibili
per
un
processo
di
riabilitazione
alla
società
dei
detenuti,
si
intuisce
come
la
qualità
degli
spazi
possa
intervenire
in
maniera
consistente
in
un
dibattito
rivolto
alla
reale
funzione
della
detenzione.
Prospettive
Alcuni
studi
sono
stati
portati
avanti
da
professionisti
ed
associazioni
che
da
anni
perorano
la
causa
dello
studio
degli
spazi
di
detenzione
(l’architetto
C.
Burdese,
la
Fondazione
Michelucci,
ad
esempio),
e
l’Amministrazione
Penitenziaria
risulta
più
attenta
a
tali
elementi
ma
ancora
è
troppo
poco.
Gli
studi
sul
comfort
e
sulla
qualità
degli
spazi
insegnano
che
basterebbero
interventi
poco
invasivi
per
migliorare
alcuni
aspetti
tra
quelli
citati,
che
sono
fondamentali
per
un
mantenimento
dell’equilibrio
psicofisico
dei
detenuti
e
per
avviare
quel
processo
di
riabilitazione
e
reinserimento
in
società
che
rappresenta
il
reale
scopo
della
detenzione.
Gli
spazi
della
socialità
all’aperto
e al
chiuso
ed i
corridoi
possono
essere
resi
meno
opprimenti
con
soluzioni
minime,
già
realizzate
con
successo
in
edifici
stranieri
e
pochissimi
italiani,
legate
alla
colorazione
o
all’attrezzatura
delle
pareti,
alla
possibilità
di
praticare
attività
fisica
autonomamente.
Gli
spazi
dei
colloqui
necessiterebbero
di
più
privacy,
compatibilmente
con
il
necessario
controllo,
per
creare
soprattutto
con
i
bambini,
un
momento
di
scambio
gratificante
e
costruttivo.
La
complessità
di
tali
miglioramenti,
al
di
là
delle
motivazioni
di
carattere
economico-pratico,
risiede
nel
conciliarli
con
esigenze
di
sicurezza,
ma
esempi
brillantemente
realizzati
potrebbero
servire
da
spunto,
venendo
poi
adattati
ai
casi
in
esame.
Piccole
ma
sostanziali
modifiche
sugli
ambienti,
eseguite
in
modo
da
coinvolgere
i
detenuti
stessi
sia
nelle
idee
progettuali
che
soprattutto
nella
realizzazione,
assumerebbero
un
significato
molto
importante
verso
un
reinserimento
in
società.
Forse
contribuirebbero,
insieme
ad
altre
misure
rivolte
ad
acquisire
fiducia
nelle
istituzioni,
a un
processo
di
riadattamento
che
attualmente
non
avviene
affatto,
vista
la
percentuale
di
recidive
dopo
una
detenzione.
Gli
edifici
penitenziari
esistenti
necessitano
di
adattamenti
all’evoluzione
delle
teorie
e
dei
dibattiti
sulla
funzione
della
detenzione,
spesso
si
tratta
di
edifici
storici
e
dunque
ancor
più
complessi
dal
punto
di
vista
materico
da
sottoporre
ad
adattamenti,
ma
piccoli
passi
verso
un’ottica
rivolta
a
molti
aspetti
relativi
alla
qualità
degli
spazi
del
quotidiano
dei
detenuti,
che
possono
influire
sulla
loro
riabilitazione
e
dunque
sull’efficacia
della
pena,
risultano
oggi
indispensabili
per
considerare
la
nostra
società
una
società
civile.
Riferimenti
bibliografici:
Foucault
M.,
Sorvegliare
e
punire.
Nascita
della
prigione,
Einaudi
Editore
S.p.a.,Torino,
1976.
E.
Gallo,
V.
Ruggiero
(1983),
Il
carcere
in
Europa-
trattamento
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risocializzazione,
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annientamento,
modelli
pedagogici
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architettonici
nella
‘galera
europea,
Bertani
editore,
Verona.
L.
Scarcella,
D.
Di
Croce
(2001),
Gli
spazi
della
pena
nei
modelli
architettonici,
in
Rassegna
penitenziaria
e
criminologica,
fascicolo
1/3.
Edilizia
Penitenziaria,
Estratto
dalla
relazione
annuale
dell’Unità
tecnica
Finanza
di
Progetto
30
gennaio
2002.
Gabellini
F.,
(2009),
La
città
dell’attesa.
Un
carcere
trattamentale
per
la
società
contemporanea,
Facoltà
di
Architettura,
Corso
di
Laurea
in
Architettura,
a.a.2009-10.
La
dignità
della
persona
in
carcere
-
Dispense
ISSP
n.4
(settembre
2013),
Ministero
della
giustizia,
Dipartimento
dell’amministrazone
penitenziaria,
a
cura
di
D.
Notarfrancesco
, V.
Giordano.