N. 17 - Maggio 2009
(XLVIII)
L’ECONOMIA ITALIANA
DEL DOPOGUERRA
EFFETTI E
DISTRUZIONI
di Cristiano Zepponi
“Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause
e non gli effetti”, argomentò Italo Calvino nel suo
Il Barone rampante
del 1957, dimentico forse del dopoguerra di un Paese
sconfitto sul campo, umiliato al tavolo delle trattative
e devastato dai combattimenti.
L’Italia del dopoguerra appariva invece come un
caleidoscopio di effetti: del ventennio mussoliniano,
dei combattimenti sul territorio nazionale, della
tragica spaccatura fra nord e sud.
Dei segni lasciati sull’economia italiana, ci
soffermiamo ora.
“Il sistema economico nazionale si configurava come poco
più di un ammasso informe, grandioso e agonizzante di
giacimenti minerari, di aree agricole, di impianti
industriali, di reti di trasporto, di comunicazione, di
distribuzione, creditizie, e di milioni di persone che
lo avevano animato […] ma anche di bisogni pressanti, di
attese confuse, di aspirazioni, di frustrazioni e di
progetti accattivanti”.
Le
distruzioni causate direttamente dalle operazioni
belliche, innanzi tutto, avevano colpito duramente
l’arretrata agricoltura nazionale: posto 100 il 1938,
l’indice della produzione agricola era precipitato a
67,3 nel 1945.
Basandoci sui dati di C. Daneo, nelle campagne erano
andati distrutti 41 milioni di metri cubi di abitazioni,
125 milioni di viti, 5 milioni di olivi, 4 milioni di
alberi da frutta, oltre ad opere di bonifica ed
irrigazione, attrezzature varie, boschi, prati, pascoli
e seminativi per un totale stimato, nel 1947, in 400
miliardi di lire correnti, pari a circa il 25% della
produzione lorda vendibile di quell’anno.
La
situazione del patrimonio industriale, invece, appariva
meno grave; sensibili danni si registrarono soprattutto
laddove il settore era meno consistente, nell’area
centromeridionale – dov’erano ubicati i maggiori
impianti siderurgici e chimici. Nell’insieme tuttavia,
anche grazie allo scarso sviluppo pre-bellico del
comparto industriale, polarizzato in una molteplicità di
centri semi-artigianali, le distruzioni toccavano appena
l’8% rispetto ai valori del 1938, con punte più elevate
nei settori metalmeccanico ed elettrico.
Nonostante questo, a causa di una generalizzata penuria
di materie prime e, in genere, di scorte (scarseggiavano
in modo particolare il carbone, il petrolio, la gomma,
il ferro ed altri metalli), l’indice della produzione
industriale era calato drasticamente: posto a 100 nel
1938, aveva raggiunto 29,1 nel 1945.
L’economia italiana, tuttavia, usciva dalla guerra
dissanguata sotto altri punti di vista.
La
rete dei trasporti e delle comunicazioni, in
particolare, era ridotta in condizioni catastrofiche,
anche a causa della scarsa manutenzione e del transito
dei mezzi militari di ambedue i belligeranti; quasi il
25% dei binari ferroviari ed il 10% dei ponti erano
fuori uso, come il 60% delle locomotive, il 70% delle
carrozze passeggeri e dei carri-merci, senza contare i
danni a stazioni ed impianti sussidiari.
Non andava meglio nel campo del trasporto urbano, dove
si registravano perdite nell’ordine del 20% dei mezzi.
Quasi scomparsi, invece, i servizi automobilistici
extra-urbani.
Distrutti, o comunque inservibili, risultarono più di
tre un milione di vani d’abitazione, 3000 grandi ponti o
viadotti, il 40% delle aule scolastiche, il 20% della
dotazione ospedaliera, il 50% delle banchine e dei moli,
11.000 edifici di culto.
La
marina mercantile, inoltre, aveva perduto l’80% circa
del proprio tonnellaggio – che nel 1941 aveva toccato i
3 milioni di stazza lorda -, e il traffico marittimo era
in effetti pressoché nullo.
Impossibili da quantificare, infine, erano le perdite
umane, con il loro capitale di capacità ed energie; ed
anche un tangibile peggioramento delle condizioni di
vita della popolazione civile – già tutt’altro che
eccelse prima della guerra - causato dall’affollamento
abitativo (da 1, 27 abitanti per vano nel 1938 a 1, 38
nel 1945, poi ulteriormente cresciuto a causa del
rimpatrio di prigionieri e coloni), dalle carenze
alimentari (la dieta pro-capite si era ridotta a 1747
calorie quotidiane, inferiore anche al minimo storico
postunitario dell’inverno 1897/98, di cui solo 220
d’origine animale)dall’aumento dei disoccupati (oltre 2
milioni, senza considerare i sottoccupati in
agricoltura), dal crollo dei salari reali e delle
pensioni, più che dimezzate.
Da
ciò, e dalla volatilizzazione del risparmio bancario e
postale, derivava l’aumento esponenziale dei crimini (i
furti, tra il 1938 ed il 1945, erano più che
raddoppiati; gli omicidi volontari passati da 2.828 a
6.027) e la “fioritura” del mercato nero.
Il
tutto, senza considerare che la divisione in due
tronconi del Paese, nel corso delle operazioni militari,
aveva parcellizzato e distorto il sistema economico; e
che proprio la coesistenza di due governi politicamente
deboli – quello della Repubblica sociale italiana al
Nord, e quello del Regno al Centro-sud - aveva generato
la stortura di due separati regimi monetari, a cui si
aggiungevano le am-lire, stampate dagli alleati per
finanziare i fabbisogni delle truppe e passate
rapidamente dal 9, 85% al 22,07% della circolazione
totale nel 1945.
Particolarmente
avvertito era il problema dell’inflazione, dovuta alla
sovrabbondante emissione di cartamoneta da parte degli
Alleati, al cambio lira-dollaro (fissato nel 1943 dalle
autorità militari a 100 lire per dollaro e a 400 lire
per sterlina, con una svalutazione di oltre cinque volte
rispetto al 1938, quando bastavano 19 lire per
acquistare un dollaro), all’allentamento dei vincoli
imposti al mercato nel periodo bellico ed alla
conseguente decollo della domanda rispetto ad un’offerta
ancora limitata, ma cresciuta esponenzialmente dal 1943
in poi: l’indice generale dei prezzi, raddoppiato tra il
1938 ed il 1943, si decuplicò fra il ‘43 ed il ‘44, ed
il processo si era ulteriormente accentuato (nonostante
un rallentamento nel ‘46) tra ‘45 e ‘47; stabilito a 100
il prezzo all’ingrosso nel 1938, era salito a 858 nel
1944, a 2.060 nel 1945, a 2.884 nel 1946, a 5.159 nel
1947.
Nenni, in proposito, scrisse che le sue principali
preoccupazioni erano costituita dal “carovita e la
rarefazione crescente dei generi di consumo popolare: un
uovo a Roma costa da ottanta a cento lire. Il burro a
Milano milleduecento lire. La carne si aggira sulle
ottocento lire al chilo. Nel Mezzogiorno si muore di
fame. Nel Settentrione si preparano agitazioni e
scioperi”.
Inoltre, vanno ricordate la fuga dei capitali –
illecitamente esportati o investiti in oro ed in
operazioni speculative – e la strozzatura della bilancia
dei pagamenti, causata dall’impossibilità di effettuare
rilevanti importazioni di materie prime senza riattivare
le esportazioni di prodotti finiti.
L’afflusso dei rifornimenti alimentari, la disponibilità
di materie prime ed il grado d’inflazione monetaria, in
ultima analisi, dipendevano quasi esclusivamente dagli
occupanti anglo-americani.
Nel 1947, comunque, l’Italia fu ammessa al Fondo
monetario internazionale ed alla Banca mondiale; magra
consolazione, in un degrado così esteso.
Riferimenti bibliografici:
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