N. 63 - Marzo 2013
(XCIV)
L’economia italiana degli anni ‘70
la fine dell’età dell’oro
di Roberto Rota
All’inizio
degli
anni
Settanta
termina,
inaspettatamente,
quella
che
Eric
J.
Hobsbawm
aveva
definito
l’Età
dell’oro,
cominciata
alla
fine
della
Seconda
guerra
mondiale
con
un
inedito
“compromesso
tra
politica
ed
economia”,
durante
la
quale
grazie
al
meccanismo
di
cambi
fissi
stabilito
a
Bretton
Woods
erano
i
governi
e
quindi
la
politica
a
regolare
l’economia
mondiale.
La
sovrapproduzione
di
merci,
l’abbondanza
di
capitali,
la
corsa
agli
armamenti
e il
basso
costo
del
lavoro
e
delle
materie
prime
erano
la
spina
dorsale
del
sistema.
Tale
sviluppo
permise
in
Europa
la
nascita
del
Welfare
State,
che
attraverso
politiche
di
assistenza
sociale,
attraverso
l’assicurazione
di
garanzie
previdenziali
e
pensionistiche
e
relazioni
industriali
neo-corporative,
puntava
all’obbiettivo
della
massima
occupazione.
Tale
sistema
basato
sulla
capacità
degli
stati
di
influire
sull’economia
cominciò
a
entrare
in
crisi,
paradossalmente,
proprio
a
causa
dello
sviluppo
dell’economia
stessa,
la
quale
subiva
un
processo
di
transnazionalizzazione
grazie
allo
sviluppo
delle
multinazionali,
della
divisione
internazionale
del
lavoro
e
della
nascita
dei
paradisi
fiscali,
rifugi
dall’alta
tassazione
sui
redditi.
Gli
stati
perdono,
quindi,
il
controllo
sull’imposizione
fiscale
e
non
sono
più
in
grado
di
tutelare
i
lavoratori.
Si
vengono
a
creare,
nel
mercato
internazionale,
flussi
di
capitali
(come,
per
esempio
gli
eurodollari)
non
controllati
dagli
stati
che
rendono
instabile
il
sistema,
in
quanto
si
muovono
verso
rapidi
e
imprevedibili
profitti.
Il
sistema
si
incrina
sotto
i
colpi
delle
rivolte
studentesche
e
sociali
post
‘68,
lo
stato
assistenziale
non
è
più
in
grado
di
garantire
le
sue
tutele
né
tantomeno
di
sostenere
le
spese
assistenziali.
Si
giunge
così
alla
fine
simbolica
dell’Età
dell’oro
con
l’annuncio,
da
parte
del
presidente
americano
Richard
Nixon,
dell’inconvertibilità
del
dollaro
in
oro
decretando
di
fatto
la
morte
del
sistema
aureo
e la
nascita
del
sistema
fluttuante,
era
il
15
agosto
1971.
La
crisi,
in
verità,
cominciò
a
essere
percepita
nella
vita
quotidiana
solo
nel
1973
quando
la
crisi
petrolifera,
scoppiata
dopo
la
sconfitta
nella
Guerra
del
Kippur
dei
paesi
arabi,
portò
a
uno
straordinario
aumento
del
prezzo
del
petrolio,
la
qual
cosa
influì
sull’aumento
dei
costi
di
produzione
con
relativa
inflazione
e
recessione.
L’Italia,
sempre
soggetta
alle
influenze
internazionali,
subisce
profondi
rivolgimenti
tra
il
1969
e il
1970.
Il
1969
è
segnato
da
aspri
conflitti
sindacali,
resi
drammatici
dalle
tensioni
sociali
e
dagli
attentati
terroristici.
Nel
dicembre
1969
una
bomba
viene
fatta
esplodere
nella
sede
della
Banca
Nazionale
dell’Agricoltura
a
Milano,
nuovo
e
non
ultimo
atto
della
“strategia
della
tensione”.
La
strage
di
piazza
Fontana
aveva
come
obbiettivo
quello
di
eccitare
un
clima
d’opinione
antisindacale
da
parte
dei
servizi
segreti
dello
stato.
Le
nuove
rivendicazioni
sindacali
si
concentravano
su
aspetti
normativi
(riduzione
ritmi
di
lavoro,
riduzione
della
mobilità,
del
lavoro
a
cottimo,
richieste
di
investimenti…)
consci
del
fatto
che
i
semplici
aumenti
salariali
sarebbero
stati
facilmente
neutralizzati
dall’inflazione.
Le
lotte
dei
lavoratori,
guidati
dai
vertici
sindacali
impegnati
a
non
perdere
il
controllo
della
base,
portarono
a
risultati
straordinari
come
l’abolizione
delle
gabbie
salariali
e lo
Statuto
dei
Lavoratori
(legge
n.
300
del
20
maggio
1970).
L’altra
faccia
della
medaglia
è
che
l’innalzamento
dei
salari
porta
a un
aumento
del
costo
del
lavoro
e
quindi
a
una
diminuzione
degli
investimenti
e
della
produzione,
ma
ciò
è
dovuto
a
ragioni
più
profonde
in
particolare
alle
mancate
innovazioni,
durante
gli
anni
Sessanta,
di
un
sistema
economico
arretrato
che
trovava
il
suo
equilibrio
sulla
possibilità
di
contare
su
un
basso
costo
del
lavoro.
L’aumento
del
prezzo
del
petrolio,
dell’energia
e
delle
materie
prime
e la
fine
dei
cambi
fissi
di
Bretton
Woods
misero
a
dura
prova
la
stabilità
economica
del
Paese
e ne
rilevarono
le
fragilità,
in
particolare
la
diminuzione
della
produzione
automobilistica
e
del
relativo
indotto
crearono
una
crisi
generalizzata
la
quale
dimostrava
che
l’industria
italiana
era
eccessivamente
legata
a
tale
settore.
Le
misure
restrittive
per
far
fronte
alla
crisi
energetica
ebbero
un’enorme
impatto
sull’opinione
pubblica,
mentre
approfittando
del
regime
di
cambi
flessibili,
nel
tentativo
di
aumentare
le
esportazioni
e
limitare
le
importazioni,
la
lira
venne
svalutata
più
volte
mentre
si
imposero
politiche
di
restrizione
creditizia
che
ebbero
il
deleterio
effetto
di
far
crollare
gli
investimenti
e
quindi
la
produttività
e
l’occupazione:
é la
cosiddetta
“stagflazione”.
Le
dinamiche
di
stagnazione-inflazione-svalutazione
colpirono
soprattutto
i
salari
a
difesa
dei
quali
nuovi
provvedimenti
furono
adottati
come
la
“scala
mobile”
(ufficialmente
“indennità
di
contingenza”)
volto
a
indicizzare
automaticamente
i
salari
alla
svalutazione
e
all’aumento
del
costo
della
vita;
solo
che
tale
processo
portava,
a
sua
volta,
verso
nuovi
processi
inflativi,
resi
ancora
maggiori
dall’uscita
dal
serpente
monetario
europeo.
Infatti
gli
aumenti
salariali
portano,
da
una
parte,
al
rialzo
dei
prezzi
e
dall’altra
all’aumento
della
domanda
dei
beni
e
servizi
ma
poiché
l’offerta
era
insufficiente
tale
squilibrio
comporta
ulteriori
pressioni
inflazionistiche
e un
crescente
squilibrio
nei
conti
con
l’estero.
La
situazione
era
aggravata
dall’azione
“piratesca”
di
una
“borghesia
di
stato”
connivente
con
il
sistema
politico
in
un
sistema
di
reciproci
favori.
Eugenio
Scalfari
parlerà
di
“razza
padrona”;
il
tutto
in
un
rinnovato
clima
corporativo
dove
le
associazioni
di
categoria
ormai
si
erano
trasformate
in
partiti
elettorali
pronti
a
far
pressioni
sul
Parlamento
per
ottenere
leggi
inefficaci
e a
vantaggio
di
pochi.
Il
nostro
Paese
presenta,
all’inizio
degli
anni
‘70,
i
più
alti
livelli
di
inflazione
tra
i
principali
paesi
europei
(con
punte
superiori
al
20%)
i
più
alti
livelli
di
disavanzo
pubblico
e
disoccupazione.
La
“politica
del
cambio”
fu
l’atipico
strumento
della
politica
industriale
italiana,
la
quale,
piuttosto
che
puntare
su
un
profondo
ammodernamento,
cercava
di
aumentare
semplicemente
le
esportazioni
attraverso
la
svalutazione
della
moneta
nazionale.
“Come
al
solito,
la
maggior
parte
dei
politici,
degli
economisti
e
degli
imprenditori
non
ha
saputo
riconoscere
dentro
la
congiuntura
i
cambiamenti
permanenti.
La
linea
politica
della
maggior
parte
dei
governi
e
degli
stati
durante
gli
anni
‘70
di
basò
sul
presupposto
che
le
difficoltà
economiche
fossero
solo
temporanee.
In
un
anno
o
due
si
sarebbe
ritornati
alla
prosperità
e
alla
crescita
degli
anni
precedenti.
Non
c’era
alcuna
necessità
di
modificare
le
politiche
che
si
erano
rivelate
così
efficaci
per
una
generazione.
La
storia
degli
anni
‘70
fu
essenzialmente
la
storia
di
governi
che
guadagnavano
tempo
[…]”
(E.
J.
Hobsbawm,
Il
secolo
breve,
1914-1991,
Biblioteca
Universale
Rizzoli,
Milano
2007,
p.
477).