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N. 77 - Maggio 2014 (CVIII)

EDITTI ED ECCIDI
Teodosio I e il massacro di Tessalonica

di Andrea Zito

 

La vicenda millenaria di Bisanzio (330-1453) viene spesso recepita, specie a una lettura storica superficiale, come quella di un impero rigido, poco dinamico, chiuso nella sua lussuosa e trascendentale immobilità.

 

Per molti secoli lo stesso termine “bizantino” è stato spesso utilizzato come sinonimo di complesso, inutilmente arzigogolato, concettualmente pesante e vanamente pedante. E Bisanzio era quasi sempre associata a una realtà splendida ma ferma, ingioiellata e polverosa, ben lontana dal pragmatismo e dalla dinamicità degli antichi fasti di Roma.

 

Niente di più fuorviante. Si tratta in realtà di una lunga e complessa parabola storica, densa di intrighi di corte, strategie di conquista del potere, guerre e deboli alleanze, corruzioni, tradimenti e colpi di scena, fioriture culturali, importanti emanazioni di atti, gesti di tolleranza e sanguinose repressioni.

 

Una di queste, tra le più aspre che la storia antica ricordi, avvenne durante il regno di Teodosio I, uomo intransigente che assommò in sé tutti i caratteri tipici dell’assolutismo imperiale. Ma facciamo un passo indietro.

 

Flavio Teodosio (347–395), valoroso uomo d’armi dell’aristocrazia spagnola, dopo essere stato associato come augusto da Graziano (359-383), imperatore d’Occidente, ascese al trono col nome di Teodosio I nel 379. Può essere considerato l’ultimo imperatore che riuscì a riunificare, anche se per un periodo di tempo limitatissimo, l’Impero romano d’Oriente e Occidente (395).

 

Dal punto di vista militare, i crucci maggiori di Teodosio riguardarono senza dubbio i Territori Occidentali, dovendo fronteggiare e sconfiggere più volte usurpatori come Magno Massimo (335-388), che era stato acclamato augusto dagli eserciti di Britannia invadendo l’Italia (387), ed Eugenio (345-394), arbitrariamente proclamato successore di Valentiniano II (371-392), augusto d’Occidente che era stato assassinato dal suo magister militum Arbogaste.

 

In Oriente, la situazione era relativamente tranquilla, anche se basata su una fragile tregua coi Visigoti, sanguinaria popolazione barbarica a cui era stato concesso di stanziarsi nei territori nord-orientali della Tracia e di essere esentati dal pagamento di ogni tributo in cambio della foederatio, cioè l’alleanza e la co-difesa dell’Impero in caso di ingerenze esterne, nonché la rinuncia a qualsiasi ipotesi di rivolta o di invasione.

 

La storia di Bisanzio ha dimostrato che il valore e la robustezza di questi accordi risultarono labili e temporanei nella quasi totalità.

 

Senza dubbio, l’ambito in cui Teodosio tracciò un solco maggiore fu quello relativo alla sua politica religiosa. L’imperatore fu uno dei maggiori esempi di come la cosa religiosa potesse influenzare irreversibilmente il governo di uno Stato.

 

Anzi, si può tranquillamente affermare che in lui, come anche in altri suoi successori (pensiamo a Giustiniano, 150 anni dopo), l’uno e l’altro aspetto furono facce diverse di uno stesso dado: quello della gestione assolutistica del potere.

 

Molto più del suo predecessore Costantino I, che regnò dal 324 al 337, Teodosio fu di fede cristiana profondissima, ai limiti dell’integralismo. Molti infatti dubitano dell’autenticità della fede di Costantino (che, ricordiamo, arrivò ad essere battezzato solo in punto di morte), al quale però deve essere riconosciuta la grandiosità intellettiva di aver promulgato a Milano, nel 313, il famoso Editto di Tolleranza, con cui per la prima volta dopo secoli di persecuzioni ai Cristiani veniva loro riconosciuta libertà di culto.

 

Ma non solo: la ratio dell’Editto è ben descritta nel preambolo, laddove si precisa che si è giunti a un tale accordo “affinché sia consentito ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità”.

 

Non solo il cristianesimo quindi, ma qualunque altro culto religioso, compreso il tradizionale paganesimo, veniva tollerato, tutelato e consentito. Insomma, un atto di eccezionale modernità, degno del più illuminato sovrano del secolo XVIII.

 

Ma si trattò di una tolleranza quasi anacronistica, una breve parentesi di magnanimità, se si pensa che bastarono appena 67 anni per piombare nel fanatismo religioso. In quei 67 anni, da una aperta tolleranza verso un culto giovane, quello cristiano, si passò ad una totale intolleranza verso tutti gli altri culti diversi da esso.

 

Da un Editto di Tolleranza si passò infatti ad un “Editto di Intolleranza”: stiamo parlando dell’Editto di Tessalonica, del 380, con cui Teodosio I impose il Cristianesimo come religione di Stato, vietando aspramente qualsiasi altra manifestazione cultuale.

 

Il provvedimento, fin dalle prime righe del preambolo, suona come un autentico diktat: “Vogliamo che tutte le nazioni che sono sotto nostro dominio, grazie alla nostra clemenza, rimangano fedeli a questa religione, che è stata trasmessa da Dio a Pietro apostolo, e che egli ha trasmesso personalmente ai Romani”, mentre tutti coloro che non si attengono a ciò, e che quindi non possono essere riconosciuti come Cristiani Cattolici, vengono considerati “dementes vesanosque”, ossia “pazzi e stolti”, infami in quanto eretici e quindi condannati sia alla vendetta divina che alle pene terrene, alla cui comminazione l’Imperatore è autorizzato direttamente da Dio.

 

Il credo niceno, così come enunciato dal Concilio di Nicea (325), è l’unico ad essere riconosciuto: il Figlio è stato generato e non creato da Vergine (dogma della verginità di Maria), il Padre e il Figlio sono fatti della stessa sostanza (dogma della consustanzialità); viene considerata ingannevole la dottrina di Ario, secondo la quale il Figlio non ha la stessa natura divina del Padre.

 

Essa, come tutti gli altri credi e culti cristiani e non, sono tacciati di eresia e quindi proibiti. Il carattere radicalmente intransigente di Teodosio diverrà brutalmente palese appena un decennio dopo, quando manifesterà tutto il suo furore repressivo in occasione di una rivolta popolare. E stavolta, senza badar troppo alle diatribe religiose, visto che la scintilla, in questo caso, fu innescata da questioni tutt’altro che dogmatiche.

 

A narrarcene per primo è lo storico cristiano Sozomeno (400-450), vissuto e attivo a Costantinopoli nella prima metà del V secolo, autore di una interessante Historia Ecclesiastica divisa in due parti, che descrive la storia del Cristianesimo e delle vicende ad esso legate tra la nascita di Gesù e l’anno 425. Non può dirsi testimone oculare dei fatti in questione: la sua testimonianza infatti è di circa 50 anni posteriore all’evento, ma di certo è tra gli autori cronologicamente più vicini ad esso.

 

Nel libro VII, capitolo 25, l’autore racconta di come Buterico, magister militum goto di istanza nell’Illirico, nell’aprile del 390 avesse fatto arrestare a Tessalonica un valente auriga, conosciutissimo e assai stimato in città, colpevole di aver tentato di sedurre un giovane coppiere (la pederastia era stata fortemente criminalizzata dalla legislazione teodosiana, in quanto immorale residuato pagano).

 

In quei giorni si sarebbe dovuta correre un’importante gara di bighe nello stadio cittadino, ed essendo l’auriga il campione in carica, il popolo ne chiese a Buterico il permesso a parteciparvi. Al suo rifiuto, la folla insorse: Buterico fu linciato assieme alla sua guardia e ad altri magistrati ivi presenti.

 

Terribile fu l’ira di Teodosio quando venne a sapere dell’episodio. Ce ne parla un altro storico, contemporaneo a Sozomeno: Teodoreto di Cirro (393–457). Anche lui autore di una Historia Ecclesiastica, nel cui libro V, capitolo 17, racconta che la rabbia dell’imperatore raggiunse vertici incontrollabili, e subito si impadronì di lui una spietata sete di vendetta.

 

Le spade furono prontamente sguainate, e senza alcun processo né sentenza, si fece giustizia sommaria, senza distinguere tra innocenti e colpevoli. Furono richiamate in città intere unità militari, e fu preparata una rappresaglia di proporzioni stragistiche.

 

Con l’inganno, qualche giorno dopo Teodosio indisse una gara di bighe in quello stesso stadio, ma non appena fu riempito dalla folla, furono serrati gli accessi e i soldati fecero strage di tutti i presenti. E, secondo lo storico, in poche ore perirono almeno 7000 cittadini, senza alcuna possibilità di difendersi: furono abbattuti “come spighe di grano al tempo della mietitura”. Un’immagine che verrà richiamata, un centinaio di anni dopo, anche da Flavio Cassiodoro (485-580), nella sua Historia Ecclesiastica Tripartita (libro IX, capitolo 30).

 

Le conseguenze di un gesto così efferato non si fecero attendere, specie nell’ambiente ecclesiastico. L’eco dei fatti di Tessalonica giunse fino a Milano, dove risiedeva il vescovo Ambrogio (339-397), un’autorità religiosa profondamente influente sull’operato imperiale.

 

Questi non tardò a inviare a Teodosio una missiva (Epistula LI) in cui si definiva il fatto “grave” e “atrocissimo”, perpetrato in maniera selvaggia nonostante la fede cristiana dell’Imperatore. Con parole ferme e decise, Ambrogio chiedeva ad esso una “pubblica penitenza”, o l’esclusione dai sacri riti e la scomunica perpetua in caso contrario. Grande era l’ascendente ambrosiano su Teodosio, ma solo dopo mesi di penitenza, nella notte di Natale di quello stesso anno (390), l’imperatore fu perdonato e riammesso nel seno della Chiesa.

 

La leggenda narra, a tal proposito, che Teodosio, giunto a Milano per incontrare direttamente Ambrogio, venne da quest’ultimo bloccato in pubblico all’ingresso della cattedrale: la casa di Dio non poteva accogliere un uomo che si proclamava cristiano ma che aveva le mani macchiate del sangue di 7000 vittime inermi. Un episodio tra l’altro immortalato da diversi artisti, tra cui i pittori fiamminghi Rubens e Van Dyck (prima metà del 1600).

 

È quasi certo, secondo gli storici moderni, che quest’episodio non si sia mai verificato, essendosi preferito dirimere la questione privatamente, senza pubbliche umiliazioni. Specie considerando il carattere intransigente di Teodosio, il quale subito dopo i fatti di Tessalonica e la minacciata scomunica da parte di Ambrogio, emanò alcuni provvedimenti attuativi del suo Editto, noti come Decreti Teodosiani (391-392): con essi veniva legittimata la distruzione dei templi pagani; inasprite le pene contro i cristiani “ripaganizzati” (ossia riconvertiti al paganesimo), gli adoratori di statue e gli aruspici, per i quali era addirittura prevista la condanna a morte; legittimata senza discussione la repressione di qualsiasi tentativo di sedizione da parte dei pagani e di tutti coloro che dissentivano dai precetti normativi in questione.

 

In Teodosio, quindi, possono dirsi inscindibili la questione religiosa e quella politica: l’una strumento (o pretesto) per dar ragione dell’altra, e per imporre il proprio potere in forma assolutistica. Una lezione cara anche ad altri suoi successori.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Giorgio Ravegnani, Introduzione alla storia bizantina, Il Mulino 2008

Sozomeno, Historia ecclesiastica (440 – 443), Libro VII cap.25

Teodoreto di Cirro, Historia ecclesiastica (444 – 449), Libro V cap.17

Flavio Cassiodoro, Historia ecclesiastica tripartita (VI sec.), Libro IX cap.30

Ambrogio di Milano, Epistula LI (390)

Teodosio I, Editto di Tessalonica, Preambolo (380)

Costantino I, Editto di Milano, Preambolo (313)



 

 

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