QUALE “eccezionalismo”?
Analisi del paradigma-guida DELla
politica estera AMERICANA
di Emanuele Molisso
L’espressione “eccezionalismo
americano” fu utilizzata per la
prima volta nel 1835, dal visconte
Alexis de Tocqueville, nella sua
opera Democracy in America.
Un termine che indica un
nazionalismo, quello statunitense,
caratterizzato dalla visione secondo
cui gli Stati Uniti sono l’unica
nazione a sottrarsi alle leggi della
Storia, a cui tutti gli altri paesi
invece devono sottostare. Ne deriva
che l’eccezionalismo americano sia
mosso da una vocazione messianica
che conferisce agli Stati Uniti,
un’ambizione universalistica, con
cui gli Stati Uniti si sono da
sempre autorappresentati, come la
nazione che aveva il compito di
plasmare, intervenire e trasformare
l’ordine internazionale secondo i
propri principi, valori e interessi.
L’autorappresentazione
eccezionalista ha scandito la storia
dell’azione internazionale degli
Stati Uniti con l’eccezionalismo
americano che ha rappresentato uno
dei paradigmi fondamentali della
politica estera statunitense.
Non è un caso che il perseguire
questo compito di nazione prescelta
da Dio, è stato il vettore lungo cui
è avvenuto lo sviluppo dell’egemonia
globale statunitense. Tutto ciò, a
partire dal 1945, ovvero dal dopo
seconda guerra mondiale quando gli
Stati Uniti hanno iniziato a
costruire una rete di alleanze molto
ampia con cui riuscirono, attraverso
diverse forme di potere
(multilaterali, cooperative,
consensuali) a proiettare su scala
mondiale, un modello di egemonia
senza precedenti per diffusione e
profondità. Tanto che si è iniziato
a parlare e si parla di imperialismo
americano nonostante il dibattito
storiografico sia molto acceso – con
la presenza di due fronti, quello
imperialista che parla di impero
americano come un impero globale
contro il fronte antimperialista –
negli stessi Stati Uniti, che
rifiutano la visione di un’America
imperialista visto che andrebbe
contro i principi promulgati dalla
stessa Costituzione americana.
Il mio focus non è centrato
alla questione dell’imperialismo
americano, questa breve
presentazione mi è servita per
introdurre il tema principale che
voglio trattare ovvero i cambiamenti
che il paradigma dell’eccezionalismo
americano per la politica estera
statunitense, ha subito nelle ultime
quattro presidenze americane. Per
arrivare a ciò, bisogna dire, che l’eccezionalismo
americano nel dopo Guerra Fredda, è
stato unito al concetto di
modernization ovvero termine
utilizzato per indicare una
ricostruzione della società moderna
secondo il modello statunitense.
Questo concetto doveva essere
applicato su scala globale e quindi
gli Stati Uniti, sempre sul modello
messianico, si auto-assegnavano
l’obbligo di promuovere ed esportare
il proprio modello di sviluppo
tecnologico, economico, culturale e
scientifico che permise di
immaginare un nuovo ordine mondiale
con Washington al centro di esso, da
cui espandere il modello americano
di un capitalismo
liberal-democratico su scala
globale, con il campo militare che
doveva essere assegnato alla NATO,
la quale doveva salvaguardare le
relazioni internazionali e allo
stesso tempo, creare una rete di
stati-alleati al di sotto del
primato statunitense. Proprio questo
consolidamento della posizione
preminente ed eccezionale degli
Stati Uniti permise di creare un
ordine internazionale di marca
statunitense. All’alba del XXI
secolo, gli Stati Uniti d’America
sono arrivati in questa posizione e
con questi paradigmi tra cui, quello
dell’eccezionalismo americano è
rimasto il predominante.
Quest’ultimo, a partire dagli
attacchi terroristici al World
Trade Center di New York, l’11
settembre 2001, ha iniziato a essere
interessato da un’oscillazione.
Un’oscillazione tra la dottrina
politica dell’unilateralismo e tra
la dottrina politica del
multilateralismo. Quest’oscillazione
deve essere considerata anche come
il punto di rottura dei paradigmi
tradizionali dell’eccezionalismo
americano del dopo Guerra Fredda. Il
punto di rottura è avvenuto con la
presidenza di George Walker Bush.
Per l’esattezza, nei mesi precedenti
alle elezioni presidenziali del
2000, che lo vedranno uscire
vincitore.
In quei mesi, l’ala conservatrice
del paese promosse una visione
nettamente votata
all’unilateralismo. Una visione che
rigettava la politica di
cooperazione multilateralista che
invece era stata promossa
dall’amministrazione Clinton. Il
rifiuto nasceva dalla volontà di non
voler schiacciare la libertà
d’azione e la potenza statunitense
con gli Stati Uniti che dovevano
liberarsi di qualsiasi vincolo che
avrebbe impedito di sfruttare al
massimo il loro primato. L’eccezionalismo
americano subì i primi cambiamenti
visto che ci fu un inasprimento dei
suoi principi con una richiesta di
una politica estera statunitense,
volta a un coinvolgimento estero
selettivo con la priorità che doveva
essere riservata soltanto
all’estensione del primato egemonico
americano.
Questa visione venne trasferita
nella dottrina presidenziale di
Bush, il quale sposò la visione del
neoconservatorismo del nation
building (dopo l’11 settembre)
ovvero la teoria dell’esportazione
della democrazia in tutto il mondo,
con l’utilizzo della forza, lì dove
fosse stato necessario per costruire
governi democratici e liberi. Ne
derivava quindi, un rifiuto del
multilateralismo, visto che gli
Stati Uniti dovevano agire soltanto
per raggiungere i propri obiettivi e
quindi soddisfare solamente i propri
interessi.
Bush Jr iniziò a rifiutare ogni tipo
di trattato multilaterale e questo
creò un paradosso. Il paradosso di
una società, quella americana, che
ormai aveva fatto propri i paradigmi
di pluralismo e internazionalismo e
ormai il paese aveva, già da tempo,
impostato una politica estera,
quella economica, quella militare
come delle politiche globali e
quindi interconnesse con il resto
del mondo.
Il paradosso dove stava? L’eccezionalismo
americano si mostrava realizzabile,
visto il contesto globale, soltanto
entro una cornice di una politica
multilateralista. Il
multilateralismo, quindi, tornava a
essere l’approccio da scegliere per
la politica estera americana. Un
approccio che è stato il vettore
lungo cui è stata concepita la
dottrina di Barack Hussein Obama.
Egli vinse le elezioni presidenziali
del 2008, e dal 2009, e fu il primo
afroamericano a ricoprire la carica
di presidente degli Stati Uniti
d’America.
L’eccezionalismo americano durante
la sua presidenza subì dei nuovi
cambiamenti che in realtà piuttosto
che rappresentare un ritorno al
passato, si sono rivelati una
continuazione della linea dettata
dal suo predecessore Bush Jr. Obama
decise di abbandonare e di rifiutare
la strategia del deep engagement
di Bush Jr, preferendo un
selective engagement. Gli Stati
Uniti dovevano iniziare a
differenziare tra teatri
strategicamente vitali, ove si
doveva agire in modo diretto e
concreto, e teatri secondari e di
minor importanza, ove invece
bisognava ricostruire i rapporti con
gli alleati locali, i quali dovevano
farsi carico di responsabilità e dei
costi delle varie operazioni; un
approccio che Obama definì burder
sharing.
Obama creò una gerarchia
d’importanza con ai gradini più alti
le regioni e i territori che
risultavano vitali per gli interessi
americani, mentre i gradini più
bassi, erano riservati alla gestione
multilaterale cosicché gli Stati
Uniti non dovevano più essere
coinvolti direttamente, ma potevano
limitarsi soltanto a fornire aiuti
materiali e umani, ma sempre a costi
contenuti, agli alleati nelle
regioni coinvolte.
Quindi Obama credeva che gli Stati
Uniti non fossero più eccezionali?
La risposta non deve essere negativa
perché Obama credeva ancora negli
Stati Uniti, come la nazione più
ricca e potente del mondo, una
nazione eccezionale e superiore che
aveva la capacità di ricoprire un
ruolo attivo di leadership
all’interno dell’ordine globale. Per
la dottrina Obama, l’eccezionalismo
americano doveva essere coniugato a
un rinnovato internazionalismo che
avrebbe permesso agli Stati Uniti di
esportare il proprio modello fondato
su valori democratici e su ideali
universali, non più attraverso la
guerra ma attraverso la forza
dell’esempio: un modello da soft
power diplomacy. Quindi,
nonostante una dichiarata volontà
multilateralista, l’eccezionalismo
americano promosso da Obama si è
rivelato esattamente lo stesso del
suo predecessore Bush Jr.
Dopo la presidenza Obama,
l’oscillazione dell’eccezionalismo
americano tra multilateralismo e
unilateralismo è continuata durante
la presidenza del tycoon
Donald John Trump, eletto presidente
degli Stati Uniti d’America durante
le elezioni presidenziali del 2015.
Trump è stato fortemente influenzato
dalla corrente del
nazional-populismo jacksoniano.
Quest’ultimo è stato il settimo
presidente della storia degli Stati
Uniti d’America e gettò le basi per
quello che è noto come
eccezionalismo americano jacksoniano.
Un eccezionalismo incentrato sul
perseguimento di un interesse
nazionale ben definito, con un
interesse ristretto e da riservare
esclusivamente all’economia e alla
sicurezza nazionale; entrambe
considerate interessi nazionali
primari che automaticamente
portavano alla rinuncia della
dimensione morale dell’azione
politica in campo internazionale.
Per questo tipo di eccezionalismo,
la sovranità deve essere preservata
e non esiste nessun avversario con
cui gli Stati Uniti non possono
negoziare nessun accordo ma
l’obiettivo primario deve sempre
essere la difesa del primato
economico e militare che garantisce
una posizione di vantaggio in tutte
le trattative. Conseguenzialmente,
da questa visione, nacque il rifiuto
di voler continuare a sostenere le
economie dei paesi alleati e la
conseguente scelta di salvaguardare
l’economia statunitense con
politiche di attivo sostegno al
lavoro degli americani, con la
scelta di misure protezionistiche.
Ne deriva che il progetto di
nation building sia
completamente rifiutato con gli
Stati Uniti che dovevano soltanto
fornire un esempio da seguire e
inoltre fornire risorse in modo
limitato nei casi di gravi emergenze
e di conseguenza, gli Stati Uniti
non dovevano assolutamente avere
voce in capitolo sulle scelte di
governo delle altre nazioni del
mondo. Tutte queste caratteristiche
sono state riprese da Trump per la
sua dottrina e per la sua visione
dell’eccezionalismo americano. Basti
pensare agli slogan dell’America
First e del Make America
Great Again, veri cavalli di
battaglia del tycoon, il
quale ha sposato la corrente
jacksoniana proprio perché egli era
un ampio detrattore della
globalizzazione e delle politiche
estere volte
all’internazionalismo,colpevoli di
gravare sulle spalle dei cittadini
americani.
Quello di Trump doveva essere un
eccezionalismo americano che non
doveva essere più basato sull’idea
che gli Stati Uniti fossero il
modello da seguire e importare nelle
altre società ma soprattutto gli
Stati Uniti dovevano riprendersi
tutto quello che avevano ceduto al
mondo, con l’obiettivo principale
che doveva essere quello di
ristabilire e risanare la politica
economica interna americana.
Per la dottrina Trump, piuttosto che
di unilateralismo, si è iniziato a
parlare di isolazionismo visto che
il tycoon iniziò a sparare a
zero sulla Nato, sull’Unione
Europea, su tutti gli alleati
storici degli Stati Uniti d’America
e inoltre promosse e firmò l’uscita
del suo paese dal TTP che ha causato
una guerra dei dazi contro la Cina,
che perdura ancora oggi. Una visione
che, come per la svolta
unilateralista di Bush Jr, si è
ritorta contro lo stesso Trump per
il medesimo motivo: un mondo ormai
globalizzato e interconnesso non può
essere caratterizzato dall’abbandono
del suo perno centrale.
L’abbandono di questa visione vicina
all’isolazionismo è avvenuto con le
ultime elezioni presidenziali
statunitensi del novembre 2020, da
cui è uscito vincitore Joseph
Robinette Biden Jr. Quest’ultimo ha
ripreso i dettami e i fondamenti
della dottrina multilateralista per
il suo eccezionalismo americano, ma
con una novità fondamentale: una
dichiarata volontà di un impegno
statunitense limitato e non sempre
garantito.
Nei suoi primi due anni di
presidenza, Biden ha presentato un
nuovo paradigma dell’eccezionalismo
americano, quasi come se fosse una
sintesi tra quello obamiano e quello
trumpiano. Un eccezionalismo che
mira a ricostruire le alleanze
internazionali, ma allo stesso tempo
gli Stati Uniti d’America dichiarano
di non voler più garantire quella
presenza e quell’azione, cardini
onnipresenti dal dopo Guerra Fredda,
in quelle questioni che non sono
fondamentali e vitali per gli
interessi americani. Una strategia
da “egemone ma non troppo”.
Quest’ultima la si è vista con il
ritiro delle truppe dall’Afghanistan
che ha lasciato l’opinione pubblica
internazionale senza parole visto
che è stato un ritiro repentino e
che non ha visto nessun tipo di
piano di sicurezza per la regione,
lasciata in mano ai talebani. Al
momento, nel mese di maggio 2023,
con ancora un anno e mezzo di
presidenza davanti a Biden, gli
Stati Uniti e l’eccezionalismo
americano, dopo l’uscita dalle
ondate di Covid, hanno dovuto e
stanno affrontando questioni
delicatissime come la guerra in
Ucraina e quindi lo scontro con la
Russia e la crescente ostilità con
la Cina, con la questione del
controllo dell’isola di Taiwan che
sembra pronta a esplodere da un
momento all’altro.
Nessuno ha la capacità di prevedere
il futuro nella sua intera certezza,
soprattutto in quadro geopolitico
che muta velocemente ogni settimana.
Quindi è difficile a oggi, capire
quale sarà il futuro per l’eccezionalismo
americano e quali saranno le sfide
che dovrà affrontare, ma l’obiettivo
più importante nel futuro, sarà
quello di comprendere quali
paradigmi verranno assegnati all’eccezionalismo
americano e se continuerà ancora
quell’oscillazione tra
multilateralismo e unilateralismo.
Basterà rimanere sintonizzati su
tutto quello che accadrà nei
prossimi anni.
Riferimenti bibliografici:
Del Pero, Mario, Libertà e
Impero. Gli Stati Uniti e il mondo
1776-2016, terza edizione,
Edizioni Laterza, Milano 2017.
Lafeber, Walter, The Bush
Doctrine in Diplomatic
History, vol. 26, n. 4, 2002.
Laruffa, Matteo, L’America di
Biden. La democrazia americana del
dopo Trump. Rubettino Editore,
Soveria Mannelli, 2021.
Ramrattan,Lall, Szenberg, Michael,
American Exceptionalism: an
appraisal-politicaleconomic,
qualitatived and quantitative in
The American Economist, vol.,
62, n. 2, 2017.