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N. 69 - Settembre 2013 (C)

DUNGA
UN BRASILIANO ATIPICO

di Francesco Agostini

 

Carlos Caetando Bledorn Verri è stato un centrocampista brasiliano che opponeva alla classe e alla fantasia tipica dei sudamericani, grinta, carisma e una smodata ambizione.

 

A dispetto del suo appellativo tenero e infantile (Dunga, infatti, non è altro che il nome del personaggio di “Cucciolo” di Biancaneve e i sette nani), divenne famoso per la sua cattiveria in campo e per il difficile rapporto che instaurò con i suoi allenatori, verso i quali si lasciò spesso andare a vere e proprie liti furibonde.

 

Dopo l’inizio nell’International e un girovagare di squadre brasiliane, Dunga arrivò nel 1987 in Toscana e precisamente al Pisa, dove stupì tutti quanti per densità di gioco e regolarità di rendimento.

 

Il “Cucciolo” divenne il miglior straniero dell’anno e la rivelazione assoluta del campionato: a discapito della sua stazza piccola, Dunga riusciva a proteggere al meglio la difesa e a recuperare una quantità incredibile di palloni.

 

Proprio per questo venne subito notato dalla Fiorentina, che lo strappò l’anno seguente al Pisa e lo portò nella culla del Rinascimento per disputare un campionato ambizioso.

 

Nel 1988 dunque approdò a Firenze e il rapporto fu subito di amore e odio, più che con i tifosi (che lo adoravano per la sua grinta e cattiveria in campo) con la dirigenza e in particolar modo con il presidente Vittorio Cecchi Gori, a cui rimproverò di non essere pagato abbastanza viste le sue prestazioni in campo. Il campo, appunto.

 

Qui Dunga fu sempre uno dei migliori e proprio per questo la maglia della nazionale brasiliana arrivò con facilità, insieme alla fascia di capitano che tenne al braccio per moltissimi anni, fino al mondiale francese del 1998.

 

L’aspro diverbio con Cecchi Gori esplose nel 1992, quando il presidente prima lo mise fuori rosa per comportamento indisciplinato e poi lo cedette al Pescara di Giovanni Galeone che terminò il campionato ultimo in classifica, retrocedendo.

 

Dunga allora lasciò l’Italia per andare a giocare in Germania, nello Stoccarda, dove si preparò al meglio per disputare il mondiale del 1994: qui, in due anni, collezionò 57 presenze e 7 reti, un bottino piuttosto ricco per un centrocampista con spiccate doti difensive come lui.

 

A trentun anni, quindi, Dunga giocò il mondiale da capitano della nazionale che, contrariamente al solito Brasile tutto palleggio e fantasia, era più propenso alla sostanza e al gioco muscolare, lasciando la finalizzazione alla coppia d’oro del goal, Romario e Bebeto.

 

Anche se con un percorso non esaltante (il Brasile segnò raramente più di un goal e non fece mai intravedere un’idea di gioco), Dunga e i suoi arrivarono in finale, proprio di fronte a quell’Italia che tanto aveva bistrattato il capitano brasiliano negli ultimi anni fiorentini.

 

Arrivati ai rigori, giunse la vendetta perfetta: il capitano brasiliano segnò spiazzando Pagliuca e vide Roberto Baggio calciare alto nel cielo di Pasadena, consegnando ai verdeoro il Mondiale. Fu il coronamento ideale di una carriera di sacrificio e duro lavoro per l’onesto centrocampista che di brasiliano aveva ben poco.

 

Terminata l’avventura con lo Stoccarda, Dunga si recò in Giappone e precisamente allo Jùbilo Iwata, per racimolare i tanti yen che gli venivano offerti per dare lustro a un campionato poco noto come quello nipponico.

 

Se la carriera professionistica ad alti livelli del Cucciolo si poté dire conclusa con l’addio allo Stoccarda, questo non si poté dire di quella con la nazionale, con la quale disputò il mondiale del 1998 ancora una volta da titolare e capitano.

 

Il Brasile del 1998 fu tutta un’altra storia rispetto a quello del 1994: nelle sue fila ebbe campioni del calibro di Ronaldo in attacco, all’epoca ancora integro fisicamente.

 

Dunga, a trentacinque anni, trascinò i sudamericani in finale dove questa volta però si arresero contro i padroni di casa della Francia, perdendo tre a zero.

 

Vincere due mondiali di seguito sarebbe stato il massimo per una nazione intera e per uno ambizioso come Dunga: proprio lui, il cucciolo dalla faccia dura e dal cuore d’acciaio, sarebbe entrato di diritto nella leggenda della storia calcistica brasiliana alzando la coppa al cielo per ben due volte di fila.



 

 

 

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