N. 37 - Gennaio 2011
(LXVIII)
I Drusi del Libano
Il mistero di una setta millenaria
di Lawrence M.F. Sudbury
Se
esiste
un
Paese
che
può
essere
considerato
paradigma
di
tutto
il
Medio
Oriente,
specchio
della
sua
varietà
etnica,
storica
e
politica,
della
sua
bellezza
e
potenziale
ricchezza
ma
anche
delle
sue
infinite
contraddizioni,
questo
Paese
è
certamente
il
Libano,
con
il
suo
fragile
e
spesso
rotto
(in
modo
eclatante,
ad
esempio,
in
occasione
dei
quindici
lunghissimi
della
guerra
civile
tra
1975
e
1990)
equilibrio
tra
Cristiani
Maroniti
e
Musulmani
Sciiti,
con
la
sua
permeabilità
alle
ingerenze,
anche
militari,
siriane
e
israeliane,
con
il
suo
essere
a
lungo
centro
degli
affari
internazionali
che
le
era
valso
il
titolo
di
"Svizzera
del
Medio
Oriente"
e la
povertà
di
enormi
fette
della
popolazione
contrapposta
al
potere
dei
suoi
clan
plutocratici.
Le
vicende
libanesi,
anche
recenti,
sono
piuttosto
note
fin
dai
tempi
del
conflitto
tra
Amal
e
Falange
e,
più
recentemente,
con
l'invasione
israeliana
in
funzione
repressiva
contro
i
missili
hezbollah
costantemente
puntati
(e
spesso
lanciati)
sul
nord
della
Galilea.
Quello
che
pochi
conoscono
(e
quei
pochi
soprattutto
in
relazione
alle
già
menzionate
vicende
del
sanguinoso
passato
prossimo)
è
che,
nel
cuore
del
Libano,
esiste
forse
una
delle
più
interessanti
anomalie
storico-politiche
(ma
anche
etnico-religiose)
di
tutta
l'area
levantina:
l'esistenza
di
una
sorta
di
feudo
settario
druso
sui
monti
dello
Chouf.
Situata
a
sud-est
di
Beirut,
la
regione
dello
Chouf
comprende
una
stretta
fascia
costiera
che
include
la
città
cristiana
di
Damour
e le
valli
e le
montagne
del
versante
occidentale
del
Jabal
Barouk,
il
massiccio
del
Monte
Libano
che
dà
il
nome
a
tutto
il
Paese,
a
pochi
chilometri
da
quella
Valle
della
Beka'a
che
è
centro
dell'agricoltura
di
sussistenza
di
migliaia
di
contadini
di
ogni
religione
e
della
produzione
mondiale
della
cannabis
(con
conseguenti
proventi).
La
bellezza
incontaminata
di
queste
zone
montagnose
hanno
fatto
sì
che
in
passato
alcuni
emiri
del
Libano
fissassero
qui
la
propria
residenza
come
testimonia
il
magnifico
palazzo
di
Beiteddine,
voluto
durante
la
prima
metà
del
XIX
secolo
da
Bachir
Chehab
II a
una
manciata
di
chilometri
da
uno
dei
luoghi
più
intensamente
mistici
della
costa
orientale
mediterranea,
il
celeberrimo
Deir
al
Qamar
(il
Monastero
della
Luna).
Eppure,
nonostante
queste
bellezze
artistiche,
il
centro
più
importante
della
regione
è
Moukhtara,
una
cittadina
quasi
insignificante
e
non
diversa
da
decine
di
altri
villaggi
che
punteggiano
il
Governatorato
del
Monte
Libano,
se
non
fosse
che
qui
ha
sede,
in
una
sorta
di
castello,
la
famiglia
Joumblatt,
oggi
guidata
da
Walid
Joumblatt,
quella
che
potremmo
definire
l'ultimo
potere
feudale
del
Medio
Oriente.
La
storia
degli
Joumblatt
si
perde
nelle
nebbie
del
tempo:
di
origine
curda,
già
influenti
governatori
di
Aleppo
nel
XVI
secolo,
essi
si
stabilirono
a
Moukhtara
nel
1630,
sviluppando,
nel
tempo,
una
leadership
sull'area
che
perdura
invariata
fino
ad
oggi.
Probabilmente
la
figura
più
importante
della
storia
recente
della
famiglia
fu
Kemal,
padre
di
Walid,
politico
di
spicco
del
Libano
post-coloniale,
sempre
fortemente
critico
di
ogni
politica
di
sudditanza
culturale
ed
economica
all'occidente
dei
governi
maroniti
e
fondatore
del
Fronte
Socialista
Popolare,
un
partito
nazionalista
di
sinistra
la
cui
leadership
venne
assunta,
alla
morte
del
padre
nel
1977
(assassinato,
come
praticamente
tutti
i
suoi
antenati
negli
ultimi
cento
anni,
nella
lotta
tra
fazioni
che
da
secoli
insanguina
il
Paese),
appunto
da
Walid.
Quest'ultimo,
fino
a
quel
momento
noto
più
per
le
sue
vicende
da "golden
boy"
del
jet-set
internazionale,
seppe
guidare
con
fermezza
e
determinazione
l'F.S.P.
negli
anni
della
guerra
civile,
guadagnandosi
dalla
BBC
il
titolo
di
"più
brillante
politico
mediorientale"
e
riuscendo
a
dare,
in
anni
non
certo
facili,
un
certo
grado
di
prosperità
al
distretto
da
lui
praticamente,
per
quanto
non
ufficialmente,
governato
dal
suo
fortino
sui
monti.
Ma
il
potere
degli
Joumblatt,
ferme
restando
le
capacità
strategiche
di
gran
parte
dei
membri
di
una
delle
genie
politiche
più
longeve
del
Medio
Oriente,
non
risiede
tanto
né
nella
loro
accortezza
amministrativa
né
negli
ideali
socialisticheggianti
che
da
decenni
portano
avanti,
quanto
nell'essere,
in
un
sistema
culturale
in
cui
il
confine
tra
politica
e
religione
è
così
vago
da
risultare
a
tratti
inesistente,
leader
indiscussi
di
una
delle
comunità
religiose
più
chiuse
e,
per
molti
versi,
misteriose
tra
le
tante
che
difficoltosamente
coesistono
del
Paese
dei
cedri
e
nell'area
mediorientale,
della
drusa.
Chi
sono
dunque,
questi
Drusi
che,
pur
senza
una
nazione
propria,
sono
riusciti
a
crearsi,
non
solo
in
Libano,
enclave
chiaramente
definite
e
posizioni
di
potere
consolidate
ovunque
siano
presenti
(con
la
sola
parziale
eccezione,
forse,
di
Israele)?
I
Drusi,
noti
anche
come
i
"Figli
della
Grazia",
sono
i
membri
di
un
sorta
di
setta
segreta
religiosa
le
cui
origini
possono
essere
rintracciate
in
Egitto,
un
migliaio
di
anni
fa,
come
movimento
interno
all'Ismailitismo,
con
fondamentali
influenze
dalla
filosofia
greca
e
dallo
gnosticismo.
Il
fondatore
di
quella
che,
praticamente
da
subito,
è
divenuta
una
religione
a sé
stante
fu
Ahmad
ibn
Alī
ibn
Hamza',
un
mistico
e
studioso
persiano
giunto
in
Egitto
nel
1014
e
intenzionato,
con
un
gruppo
di
studiosi
e
leader
provenienti
da
tutto
il
mondo
islamico,
a
formare
un
nuovo
movimento
unitario
che
sincretizzasse
tutte
le
correnti
dell'Islam.
Nel
1017,
Hamza
rivelò
ufficialmente
i
fondamenti
della
nuova
la
fede
"drusa"
(curiosamente
il
nome
deriva
da
un
altro
predicatore,
Anushtakīn
ad-Darazī,
che,
in
seguito,
per
le
sue
idee
radicali
sul
fatto
che
Dio
potesse
incarnarsi
in
un
essere
umano,
venne
considerato
eretico
ed
espulso
dal
movimento)
e
cominciò
a
predicare
la
sua
dottrina,
incoraggiato
dal
califfo
fatimide
al-Hakim,
che
aveva
appena
emesso
un
decreto
per
promuovere
la
libertà
religiosa
nel
suo
regno.
Immediatamente
Al-Hakim
divenne
una
figura
centrale
nella
fede
drusa
(assurgendo,
per
una
parte
minoritaria
dei
discepoli
di
Hamza,
ad
uno
status
divino),
ma
venne
ben
presto
assassinato,
forse
su
ordine
della
sorella
Sitt
al-Mulk
(molti
Drusi
ritengono
che
non
morì
realmente
ma
entrò
in
quello
che
verrà
chiamato
"Occultazione",
così
come
più
tardi
avvenne
ad
Hamza
e ad
altri
tre
grandi
leader
del
movimento
unitario),
lasciando
il
califfato
al
figlio
minorenne,
Ali
az-Zahir.
I
Drusi
riconobbero
az-Zahir
come
il
Califfo,
ma
non
come
Imam
della
loro
comunità,
prerogativa
questa
concessa
da
Hamza
a
Bahā'a
ad-Din
as-Samuki
,
oggi
visto
come
il
primo
vero
capo
politico
e
spirituale
della
setta.
Il
mancato
riconoscimento
del
figlio
come
leader
unico
scatenò
sul
neonato
movimento
unitarista
le
ire
di
Sitt
al-Mulk
(probabilmente
anche
male
informata
sulle
intenzioni
di
as-Samuki
da
alcuni
dissidenti
rispetto
alla
linea
teologica
di
quest'ultimo),
la
quale
diede
inizio,
nel
1021,
ad
una
persecuzione
continuata
nei
sette
anni
successivi
da
az-Zahir,
divenuto
nel
frattempo
maggiorenne.
I
maggiori
massacri
di
aderenti
al
movimento,
che
si
era
diffuso
a
macchia
d'olio,
si
ebbero
ad
Antiochia
(dove
oltre
5.000
capi
drusi
furono
trucidati),
Aleppo
e
Alessandria
e
costarono
la
vita
a
decine
di
migliaia
di
convertiti.
Come
risultato,
i
fedeli
cominciarono
a
nascondersi,
concentrandosi
in
Libano
e
Siria
meridionale,
e a
celare
i
fondamenti
teologici
del
loro
credo,
che
poté
ricominciare
ad
esprimersi
liberamente
solo
nel
1038,
due
anni
dopo
la
morte
di
al-Zahir.
Probabilmente
queste
enormi
difficoltà
iniziali
influenzarono
fortemente
l'aspetto
"iniziatico"
del
pensiero
druso,
tanto
che,
pur
in
una
situazione
relativamente
più
favorevole,
nel
1043
as-Samuki
dichiarò
che
la
setta
non
avrebbe
più
accettato
nuovi
convertiti
(ancora
oggi
non
è
possibile
"diventare
drusi"
e si
è
riconosciuti
come
appartenenti
alla
comunità
solo
per
nascita)
e
proibì
qualsiasi
forma
di
proselitismo.
Fu
durante
il
periodo
di
dominazione
dei
crociati
in
Siria
(1099-1291)
che
i
Drusi
assunsero
importanza
nella
storia
della
regione
delle
montagne
dello
Chouf:
come
forti
guerrieri
al
servizio
dei
governanti
musulmani
di
Damasco
contro
le
truppe
crociate,
i
Drusi
ricevettero
il
compito
di
sorvegliare
che
"i
Franchi"
che
avevano
occupato
il
porto
di
Beirut
non
si
estendessero
nell'entroterra
e la
perizia
con
cui
eseguirono
tale
missione
permise
loro,
in
seguito,
di
porre
la
loro
notevole
esperienza
militare
a
disposizione
dei
sovrani
mamelucchi
d'Egitto
(1250-1516)
per
aiutarli
a
porre
fine
a
ciò
che
rimaneva
del
dominio
crociato
sulla
Siria
costiera
e,
in
seguito,
a
salvaguardare
la
costa
siriana
contro
eventuali
nuove
invasioni.
Nel
primo
periodo
dell'era
crociata,
il
potere
feudale
druso
era
nelle
mani
di
due
famiglie,
i
Tanukhs
e
Arslans.
In
particolare,
i
primi
erano
divenuti
signori
incontrastati
delle
zone
del
Monte
Libano
ma,
verso
la
metà
del
XII
secolo,
vennero
sostituiti
dalla
famiglia
Ma'an
che,
dal
suo
quartier
generale
nel
villaggio
montuoso
di
Baaqlin,
arrivò
a
dominare
la
pianura
marittima
tra
Beirut
e
Sidone,
venendo
investita
di
autorità
feudale
dal
sultano
Nur-al-Din.
Con
tutta
probabilità
quello
fu
il
momento
di
massimo
apogeo
dei
Drusi
nel
medioevo:
nel
1305,
però,
lo
studioso
sunnita
hanbalita
Ibn
Taymiyyah
emise,
con
il
beneplacito
dei
fatimidi
che
desideravano
tacitare
ogni
movimento
"eretico"
siriano,
una
fatwa
con
relativa
chiamata
alla
jihad
contro
tutti
i
non-sunniti
e i
Drusi,
così
come
gli
Sciiti,
gli
Alawiti,
gli
Ismailiti
e i
Duodecimani,
divennero
oggetto
di
una
nuova
persecuzione
che,
dopo
la
pesantissima
sconfitta
nella
battaglia
di
Keserwan,
li
obbligò
a
mostrare
un
ossequio
formale
per
l'ortodossia
sunnita
e a
ritirarsi
in
isolamento
sulle
montagne,
che,
per
altro,
rimasero
sotto
il
loro
controllo.
Con
l'avvento
dei
Turchi
ottomani
e la
conquista
della
Siria
da
parte
del
sultano
Selim
I
nel
1516,
inizialmente
la
situazione
rimase
invariate
e
una
serie
di
ribellioni
druse
vennero
represse
con
scontri
sanguinosi,
culminati
nella
terribile
battaglia
di
al-Ayn
Ṣawfar
nel
1585.
Queste
misure
militari
non
riuscirono,
però
a
ridurre
i
Drusi
alla
sottomissione
e
ciò
indusse
il
governo
ottomano
ad
accettare
un
accordo
secondo
il
quale
un
emiro
druso
doveva
ricevere
una
"iltizam"
(concessione
fiscale)
sui
vari
"nahiyes"
(distretti)
dello
Chouf:
in
questo
modo
i
Ma'an
vennero
riconosciuti
come
i
signori
feudali
del
sud
del
Libano
e i
villaggi
drusi
si
diffusero
e
prosperarono
in
tutta
la
regione,
al
punto
che,
sotto
l'emiro
Fakhr-ed-din
II,
a
inizi
'600,
il
dominio
druso
era
aumentato
fino
comprendere
quasi
tutta
la
Siria
e
che
egli
si
spinse
addirittura,
nel
1608,
a
firmare
un
trattato
commerciale
con
il
duca
Ferdinando
I di
Toscana
contenente
clausole
militari
segrete.
Ovviamente
tutto
questo
potere
dava
fastidio
al
sultano
Murad
IV
che,
nel
1614,
inviò
un
contingente
contro
Fakhr,
il
quale,
dopo
un
periodo
di
esilio
a
Firenze
e a
Napoli,
tornò
in
Libano
nel
1618,
riuscendo
ad
ottenere
vittorie
tali
da
rendere
il
suo
principato
praticamente
indipendente,
aprendo
il
Libano
alle
influenze
occidentali
e
sviluppando
un
governo
largamente
tollerante.
Nel
1632,
però,
il
compito
di
"normalizzare"
la
situazione
venne
affidato
all'emiro
turco
di
Damasco
Koujak
che,
nel
giro
di
tre
anni,
porto
Fakhr
ad
assoggettarsi
a
Istanbul,
dove
fu
ucciso,
ponendo
fine
all'unico
esperimento
d'
autonomia
libanese
fino
al
1920.
Alla
fine
del
XVII
secolo
(1697)
gli
Shihab
subentrarono
ai
Ma'an
nella
leadership
feudale
dei
Drusi
del
Libano
meridionale,
pur
professando
prima
l'Islam
sunnita
(sebbene
i
membri
della
famiglia
avessero
sempre
dimostrato
simpatia
per
la
fede
dei
loro
sudditi)
e,
dai
tempi
Amir
Bashir
Shihab
II
(1788-1840)
che,
dopo
Fakhr-al-Din,
fu
il
signore
feudale
più
potente
mai
avuto
dal
Libano,
il
Cristianesimo.
Quando,
quasi
a
metà
del
XIX
secolo,
Ibrahim
Pascià,
figlio
del
viceré
d'Egitto,
Muhammad
Ali
Pasha,
commise
l'errore
di
cercare
di
disarmare
i
Cristiani
e i
Drusi
libanesi,
furono
proprio
gli
Shihab
a
guidare
la
resistenza
congiunta
dei
due
gruppi
religiosi
che,
però,
dopo
anni
di
convivenza
pacifica,
cominciarono
ad
avere,
a
partire
dal
1840,
scontri
sempre
più
frequenti,
che
culminarono
nella
guerra
civile
del
1860.
I
problemi
non
erano
tanto
dovuti
alla
sudditanza
delle
popolazioni
druse
a
una
famiglia
cristiana,
quanto
all'intervento
di
fattori
esterni,
soprattutto
dati
dall'alleanza
dei
Drusi
con
la
Gran
Bretagna
e
dal
conseguente
permesso
concesso
dai
capi-villaggio
a
missionari
protestanti
di
stanziarsi
nelle
zone
del
Monte
Libano,
che
creava
tensioni
tra
loro
e i
Cattolici
maroniti,
sostenuti
dai
francesi.
La
guerra
civile,
che
culminò
con
i
massacri
del
1859-1860
e la
sconfitta
dei
Cristiani
per
mano
drusa
non
fu,
quindi,
una
guerra
di
religione,
ma
essendo
costata
la
vita
a
oltre
10.000
Maroniti,
diede
il
pretesto
alla
Francia
per
intervenire
nell'area
con
un
corpo
di
spedizione
a
difesa
dei
Cattolici
e
ciò,
nonostante
l'intervento
della
Gran
Bretagna
che
non
desiderava
lo
smembramento
dell'Impero
Ottomano
e
che
limitò
l'azione
dei
francesi,
portò
il
Libano,
sotto
la
supremazia
cristiana,
ad
ottenere
una
larga
autonomia
che
perdurò
fino
alla
Prima
Guerra
Mondiale
e
che
confinò
il
potere
drusi
alle
montagne
da
cui
originariamente
provenivano.
Dopo
questo
periodo,
in
tutto
il
mondo
arabo
i
Drusi,
pur
ottenendo
ovunque
il
riconoscimento
ufficiale
di
"comunità
religiosa
separata"
con
un
proprio
sistema
legale
legato
alla
morale
cultuale,
lottarono
per
l'indipendenza
dei
vari
Paesi
in
cui
erano
presenti
e
ovunque
trovarono
la
collocazione
più
consona
alle
proprie
idee
religiose
in
partiti
di
sinistra,
come
dimostrato
anche
dalla
posizione
politica
che
si è
detto
essere
stata
assunta
dalla
famiglia
Joumblatt,
leader
del
"popolo
dell'unitarismo"
dello
Chouf
dai
tempi
della
guerra
contro
i
Cristiani,
in
occasione
della
guerra
civile.
Ma
quali
sono,
dunque,
queste
idee?
In
realtà,
rispondere
a
questa
domanda
è
tutt'altro
che
facile,
stante
non
solo
la
natura
strettamente
"intra-comunitaria"
del
loro
credo
(tanto
che
persino
il
contrarre
matrimonio
con
non-Drusi
è
fortemente
sconsigliato
per
gli
appartenenti
alla
setta),
ma
anche
e
soprattutto
per
l'usanza
della
cosiddetta
"taqiya",
la
pratica,
ripresa
dall'Islam
sciita,
di
occultare
o
dissimulare
le
proprie
convinzioni
religiose
se
necessario,
e
per
la
natura
esoterica
della
fede,
molti
insegnamenti
della
quale
sono
tenuti
segreti
persino
agli
stessi
aderenti
di
grado
più
basso.
Così,
capita
che
i
Drusi,
in
aree
diverse,
possano
avere
opinioni
teologiche
e
stili
di
vita
radicalmente
differenti
tra
loro,
tanto
che
alcuni
sostengono
di
essere
musulmani
mentre
altri
negano
decisamente
di
rientrare
nell'Islam,
cosa
perfettamente
comprensibile
se
si
tiene
conto
che
il
credo
druso
rispetta
di
base
tutti
i
principi
islamici
ma
tende
ad
essere
fortemente
separatista
rispetto
agli
altri
gruppi
musulmani
e a
discostarsi
dalle
principali
correnti
islamiche
su
una
serie
di
punti
fondamentali.
Insomma,
ciò
che
si
può
conoscere
dall'esterno
non
è
molto
ed
è,
per
lo
più,
frutto
di
informazioni
trapelate
e di
congetture
fatte,
nei
secoli,
dagli
studiosi
delle
religioni.
Su
queste
basi,
le
certezze
maggiori
riguardano
la
visione
dottrinale
di
Dio,
del
quale
si
sottolinea
fortemente
e
senza
compromessi
la
rigida
unità,
l'essere
al
di
sopra
di
qualsiasi
attributo
umano
e
l'essere
allo
stesso
tempo
immanente
e
trascendente.
Questi
aspetti
risultano
tutti
interdipendenti:
nel
desiderio
di
mantenere
la
totale
unità
monoteistica,
i
Drusi
spogliano
Dio
di
qualsiasi
attributo
che
possa
portare
al
peccato
estremo
del
politeismo
("shirk"),
cosicché
Egli
non
abbia
attributi
distinti
dalla
sua
essenza
(Dio
non
ha
saggezza,
potenza
o
giustizia
ma è
saggio,
giusto
e
potente)
e
risulti
essere
"l'intera
esistenza"
piuttosto
che
una
"esistenza
superiore",
che
lo
renderebbe
in
qualche
modo
limitato,
quando,
in
realtà,
nella
sua
infinita
illimitatezza
senza
"come",
"quando"
e
"dove"
Egli
risulta
incomprensibile
agli
occhi
umani.
Traspaiono,
in
questo
dogma,
chiare
le
influenze
del
Sufismo
e,
infatti,
proprio
come
nel
Sufismo,
centrale
è il
concetto
di "tajalli",
cioè
della
possibilità
di
teofania,
che
spesso
è
stata
confusa
con
una
idea
di
"incarnazione
del
Divino"
che,
invece,
risulta
estranea
alla
teologia
drusa.
In
realtà,
infatti,
il "tajali"
è
una
sorta
di
esperienza
della
luce
di
Dio
vissuta
da
alcuni
mistici
che
hanno
raggiunto
un
elevato
livello
di
purezza
nel
loro
cammino
spirituale.
Ciò
s'inserisce
in
una
percezione
di
Dio
come
essenza
che
manifesta
la
Sua
luce
nel
mondo
materiale
che
diviene
Suo
riflesso,
ma
tale
riflesso
non
è
Dio
e
tutti
gli
scritti
dottrinali,
in
particolare
il
fondamentale
"Kitab
Al
Hikma"
(Epistole
della
Sapienza)
sottolineano
continuamente
tale
differenza,
viso
che
la
concezione
di
"incarnazione"
di
Dio,
spesso
fraintesa
da
commentatori
esterni,
risulterebbe
assolutamente
contraria
al
monoteismo.
Il "tajalli",
per
altro,
è
una
fase
fondamentale
nell'ascesi
del
mistico
druso:
esso
si
verifica
quando
l'umanità
del
fedele
è
annientata
a
tal
punto
che
gli
attributi
divini
e la
luce
di
Dio
vengano
vissuti
dalla
persona
come
propri.
E'
proprio
il
cammino
d'ascesi
ad
essere
il
nucleo
fondamentale
della
fede
drusa
in
cui
iniziazione
e
misticismo
esoterico
hanno
una
importanza
enorme.
I
Drusi
credono
che
molti
insegnamenti
dati
da
Profeti,
leader
religiosi,
e
libri
sacri
abbiano
significati
esoterici
nascosti,
comprensibili
solo
a
coloro
che,
per
intelletto
e
grado
di
conoscenza,
possano
afferrarli.
Di
conseguenza,
molti
insegnamenti
vengono
visti
come
semplici
simboli
e
allegorie
naturali,
interpretabili
in
modo
differente
a
seconda
dei
tre
"livelli
di
lettura"
possibili:
l'ovvio
o
essoterico
(zahir),
accessibile
a
chiunque
sia
in
grado
di
leggere
o
ascoltare;
il
nascosto
o
esoterico
(Batin),
accessibile
a
coloro
che
sono
disposti
a
cercare
e
imparare
attraverso
l'esegesi;
il
"nascosto
del
nascosto",
comprensibile
solo
attraverso
un
processo
anagogico
e
inaccessibile
per
tutti,
se
non
per
pochi
individui
illuminati
in
grado
di
capire
davvero
la
natura
dell'universo.
A
differenza
di
altri
movimenti
islamici
esoterici,
i
Drusi,
comunque,
non
ritengono
che
il
passaggio
ad
un
livello
superiore
cancelli
il
significato
precedentemente
acquisito:
i
vari
livelli
si
completano
a
vicenda
in
un
unicum
di
verità
Ciò
spiega
la "ratio"
in
base
alla
quale
il
popolo
druso
si
divide
in
due
gruppi
distinti.
Alla
gran
maggioranza
laica
(circa
l'80%
della
popolazione),
chiamata
"al-Juhhāl"
("gli
ignoranti")
non
è
consentito
l'accesso
alla
letteratura
mistica,
non
è
permesso
di
partecipare
agli
incontri
religiosi
di
stampo
esoterico
e
non
viene
imposto
l'obbligo
di
seguire
alcun
precetto
ascetico.
Il
secondo
gruppo,
iniziatico,
che
comprende
sia
gli
uomini
e le
donne
(circa
il
20%
della
popolazione),
è
chiamato
"al-Uqqāl",
("iniziati
informati"),
è
riconoscibile
perché
indossa
abiti
realizzati
in
conformità
con
la
tradizione
coranica:
le
donne
possono
scegliere
di
portare
"al-Mandil",
un
velo
bianco
indossato
sulla
testa
per
coprire
i
capelli
e
avvolto
intorno
alla
bocca,
camicie
nere
e
gonne
lunghe
che
coprono
le
gambe
fino
alle
caviglie;
gli
uomini
si
fanno
crescere
i
baffi,
hanno
vestiti
scuri
di
taglio
tradizionale
turco-levantino
("shirwal")
e
turbanti
bianchi
che
variano
a
seconda
della
gerarchia
iniziatica.
Gli
"al-Uqqāl"
hanno
gli
stessi
diritti
degli
"al-Juhhāl",
ma
la
differenza
tra
i
due
gruppi
va
intesa
come
una
sorta
di
"gerarchia
di
rispetto"
sulla
base
dei
servizi
resi,
in
senso
spirituale,
alla
comunità.
Circa
il
5%
degli
"al-Uqqāl",
poi,
diventa
"Ajawīd",
cioè
entra
a
far
parte
dei
leader
religiosi
riconosciuti
di
tutto
il
popolo
druso.
Gli
"Ajawīd"
non
vanno
confusi
con
gli
"Shaykh
al-Aql",
i
notabili
politici
(come
visto,
la
differenza
tra
leadership
politica
e
leadership
religiosa
ha
una
radice
storica
nel
periodo
iniziale
della
fede)
che
hanno
una
posizione
ufficiale
in
Siria,
Libano
e
Israele
e
vengono
eletti
dalle
comunità
locali
per
servire
come
capi
del
consiglio
religioso
druso
e
giudici
dei
tribunali
religiosi:
a
differenza
dei
leader
spirituali,
l'autorità
di
un "Shaykh
al-Aql"
è
locale,
anche
se
non
è
infrequente
che
gli
"Ajawīd"
vengano
eletti
per
assumere
queste
posizioni.
Per
tutti
il
"gradi",
comunque,
vale
l'obbligo
di
seguire
i
sette
precetti
(di
origine
chiaramente
ismailita)
che
sono
considerati
il
nucleo
della
fede
e
che
sono
percepiti
come
l'essenza
dei
pilastri
dell'Islam:
veridicità
nella
parola;
protezione
e di
mutuo
soccorso
ai
fratelli
nella
fede;
rinuncia
a
tutte
le
forme
di
culto
eretiche
e
alle
false
credenze;
ripudio
del
diavolo
("Iblis")
e
tutte
le
forze
del
male;
confessione
dell'unità
divina;
acquiescenza
all'azione
di
Dio,
qualunque
essa
sia;
assoluta
sottomissione
e la
rassegnazione
alla
volontà
di
Dio
sia
in
segreto
che
in
pubblico.
Nella
pratica,
dunque,
possiamo
parlare
della
religione
drusa
come
di
una
sorta
di
Islamismo
fortemente
influenzato
da
una
visione
neo-platonica
di
come
Dio
interagisca
con
il
mondo
attraverso
emanazioni,
in
questo
molto
simili
ad
alcune
sette
gnostiche
ed
esoteriche.
Sebbene
di
base
la
religiosità
e il
culto
vengano
visti
come
elementi
che
riguardano
solo
il
singolo
(i
Drusi
non
sono
obbligati
ad
osservare
la
maggior
parte
dei
rituali
religiosi)
e
che,
dunque,
non
possano
essere
in
alcun
modo
imposti,
la
religione
forma
un
impianto
fondamentale
nell'azione
sociale
di
ciascuno
sia
sul
versante
pratico
(con
il
rifiuto
di
tabacco,
alcool,
consumo
di
carne
di
maiale
e,
contrariamente
alla
maggior
parte
delle
sette
islamiche,
poligamia)
che
su
quello
morale
(con
principi
che
si
concentrano
su
onestà,
lealtà,
pietà
filiale,
altruismo,
sacrificio
patriottico
e
monoteismo
e
che,
a
differenza
dell'Islam
classico,
portano
a
diversi
gradi
di
reincarnazione):
solo
questo
può
spiegare
il
senso
di
unità
che
esiste
tra
i
Drusi
sparsi
in
tutto
il
mondo
e
l'esistenza
ci
enclave
così
coese
da
riuscire
a
formare,
all'atto
pratico,
veri
e
propri
stati
a sé
stanti,
con
una
propria
politica
interna
ed
una
propria
leadership
riconosciuta
da
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