N. 87 - Marzo 2015
(CXVIII)
IL DRONE CHE TRASPORTA LA GUERRA
SERBIA-ALBANIA: QUANDO IL CALCIO SI TRAmutA IN POLITICA
di Riccardo Poli
14
ottobre
2014:
la
partita
di
calcio
tra
la
nazionale
della
Serbia
e
quella
dell’Albania,
valida
per
le
qualificazioni
al
prossimo
campionato
europeo
di
calcio,
in
programma
in
Francia
nei
mesi
di
giugno
e di
luglio
2016,
si
interrompe
al
minuto
numero
’41.
Un
drone
passa
sopra
il
campo
da
gioco,
un
calciatore
decide
di
prendere
la
bandiera
che
questo
drone
trasportava,
verosimilmente
per
fermarlo
e
ricominciare
a
giocare,
ma
inizia
una
rissa
furibonda,
alimentata
da
numerose
invasioni
di
campo,
e
l’arbitro
non
può
fare
a
meno
di
sospendere
la
partita
e
(tentare
di)
mandare
le
squadre
in
anticipo
negli
spogliatoi.
Un
clima
surreale
in
uno
stadio,
quello
dell’
FK
Partizan,
che,
assieme
al
vicino
stadio
della
Stella
Rossa
(noto
anche
come
Marakana),
è
stato
spesso
infelice
teatro
di
serate
molto
poco
sportive,
contrassegnate
dalla
violenza,
che
pure
(assieme
alla
politica)
nulla
dovrebbe
avere
a
che
fare
con
il
calcio,
lo
sport
più
famoso
e
praticato
del
mondo.
Il
tutto
in
una
città
tristemente
segnata
da
famose
vicende
storiche
soprattutto
infauste,
ovvero
Belgrado.
Cosa
sia
successo
quella
sera
è
chiaro
a
pochi,
anzi
è
enigmatico
per
tutti.
Cerchiamo
quindi
di
fare
luce
su
un
avvenimento
che
da
sportivo
si è
trasformato
in
politico,
ma
che,
proprio
essendo
politico,
ha
le
sue
radici
nella
storia,
e
nella
storia
anche
una
possibile
risposta.
Qual
è
innanzitutto
il
casus
belli
che
ha
scatenato
la
rissa
e la
conseguente
interruzione
della
partita?
Una
bandiera,
la
bandiera
che
il
drone
passato
sopra
lo
stadio
trasportava,
ovvero
un
vessillo
rappresentante
la
cosiddetta
“grande
Albania”.
Questo
ci
costringe
a
fare
un
passo
indietro,
per
addentrarci
nella
storia
recente
dei
due
stati.
L’Albania
è
una
repubblica
parlamentare
resasi
indipendente
dall’Impero
Ottomano
nel
lontano
1912,
e
precisamente
il
28
novembre,
alla
vigilia
cioè
della
Prima
guerra
mondiale,
ma
quando
già
era
iniziato
un
avvenimento
storico
di
primaria
importanza
per
la
regione
geografica
che
oggi
viene
definita
Balcani.
Nel
1912
infatti
l’Impero
Ottomano
si
deve
scontrare,
nella
cosiddetta
“prima
guerra
balcanica”,
contro
una
coalizione,
la
Lega
Balcanica,
formata
da
Serbia,
Montenegro,
Bulgaria
e
Grecia,
pronte
a
cancellare,
una
volta
per
tutte,
il
potente
e
scomodo
rivale
attivo
dal
1299,
anno
della
nascita
con
Osman
I
(da
cui
la
dicitura
di
“ottomano”).
La
sconfitta
subìta
dal
ministro
della
guerra
Nazim
Pascià
costringe
gli
ottomani
a
firmare
nel
1913
il
Trattato
di
Londra,
che
prevede,
tra
le
altre
cose,
la
nascita
dell’Albania
come
stato
indipendente.
L’indipendenza
albanese
ha
però
radici
più
antiche.
Già
nel
1878
a
Prizren,
in
Kosovo,
venne
fondata
una
lega
albanese,
la
Lega
di
Prizren
o
Lega
per
la
difesa
dei
diritti
della
nazione
albanese,
che
tentò,
invano,
di
unificare
tutti
i
territori
albanesi
in
seno
all’impero
turco
(divisi
allora
in
quattro
province
o “vilayet”:
Kosovo,
Monastir,
Shkoder
o
Scutari
e
Janinan
o
Giannina)
per
creare
un
unico
grande
stato,
l’Albania
appunto.
Membro
della
Lega
era
anche
un
certo
Isa
Boletini
(tenetelo
a
mente,
tornerà).
A
complicare
la
situazione
è il
Congresso
di
Berlino,
sempre
del
1878,
fatto
per
rettificare
il
Trattato
di
Santo
Stefano
dello
stesso
anno,
che,
tra
le
altre
cose,
confermava
l’indipendenza
di
Montenegro
e
Serbia.
In
esso
inoltre
lo
stesso
Otto
von
Bismarck
asserì
che
la
nazione
albanese
non
esisteva,
per
cui
procedette
ad
assegnare
altri
territori
albanesi
alle
stesse
Serbia
e
Montenegro;
del
resto
il
cancelliere
tedesco
non
poteva
proprio
permettersi,
con
una
imminente
guerra
nell’aria,
che
la
Russia
si
espandesse
e
rafforzasse.
Boletini
e
compagni,
delusi
dalla
‘sentenza’,
decisero
di
proseguire
le
ostilità
contro
gli
ottomani,
e
nonostante
alcune
conquiste
fatte
nei
due-tre
anni
successivi,
nel
1881
la
Sublime
Porta
stroncò
definitivamente
l’esperienza
della
Lega,
ma
le
speranze
e
gli
obiettivi
albanesi
rimanevano
attuali.
Un
nuovo
tentativo
venne
fatto
nel
1908,
e
portò
a
una
minima
autonomia,
che
si
trattava
più
che
altro
di
una
promessa
ottomana
di
discutere
i
problemi
albanesi
‘a
quattr’occhi’.
Peccato
che,
quasi
in
contemporanea,
a
Istanbul
il
potere
era
stato
preso
dai
“Giovani
Turchi”,
intellettuali
e
ufficiali
membri
di
un
partito
politico
votato
alla
sostituzione
dell’Impero
con
una
più
efficace
e
moderna
monarchia,
realizzabile
soltanto
attraverso
il
consolidamento
politico,
che
significava
centralità
dell’etnia
turca.
Di
conseguenza
gli
impegni
presi
per
garantire
un
minimo
di
autonomia
all’Albania
vennero
disattesi,
e
vennero
varate
una
serie
di
riforme
atte
a
eliminare
le
minoranze.
Tali
riforme
trovarono
proprio
negli
albanesi
gli
oppositori
più
agguerriti.
Nel
1910
guidati
da
Isa
Boletini
gli
albanesi
insorsero,
ma
vennero
sconfitti
poco
dopo;
tuttavia
pesanti
scontri
tra
turchi
e
albanesi
proseguirono
soprattutto
nella
provincia
del
Kosovo.
Nello
scenario
già
di
per
sé
complicato
interviene
pure
l’Italia,
che
decide,
nel
1912,
di
dichiarare
guerra
all’Impero
per
il
controllo
di
Tripolitania
e
Cirenaica.
Nel
giro
di
un
anno
le
truppe
italiane
vincono,
dimostrando
la
stanchezza
degli
ottomani,
deboli
dopo
un
impero
che
dura
ormai
da
oltre
600
anni.
La
situazione
si
fa
allora
particolarmente
ghiotta
per
Serbia,
Montenegro,
Bulgaria
e
Grecia,
che,
come
detto,
intervengono
contro
la
Sublime
Porta
pronte
a
spartirsi
i
suoi
territori.
Nello
stesso
1912,
un
po’
l’anno
focale
della
nostra
analisi,
c’è
spazio
anche
per
una
nuova
rivolta
albanese,
questa
volta
‘fortunata’,
poiché
riesce
a
portare
all’autonomia
i
quattro
“vilayet”
albanesi.
L’”Albania
etnica”
è
finalmente
libera.
E
qui
torniamo
all’indipendenza
dell’Albania.
La
dichiarazione
formale,
lo
sappiamo,
è
del
28
novembre,
mentre
il 4
dicembre
1912
si
insedia
a
Valona
un
governo
provvisorio,
avente
come
primo
ministro
Ismail
Qemali
(ritornerà
anche
questo).
Costui
è
uno
degli
83
albanesi
che
hanno
sottoscritto
la
proclamazione
d’indipendenza
del
28
novembre.
Perché
tanta
fretta?
La
paura
più
grande
per
gli
albanesi
è
che,
una
volta
terminato
il
conflitto
balcanico
con
la
vittoria
della
Lega,
i
regni
appartenenti
alla
stessa,
ora
che
finalmente
le
ingerenze
dell’Impero
Ottomano
sono
finite,
decidano
di
spartirsi
equamente
i
territori
albanesi
rendendo
vane
le
ingenti
perdite
umane
accumulate
nel
trentennio
precedente.
Il
conflitto
si
conclude
l’anno
successivo,
il
30
maggio
1913,
con
la
stipula
del
Trattato
di
Londra.
L’esito
è
quello
temuto
da
Qemali
e
compagni:
le
potenze
europee
garanti
della
pace
accettano
sì
l’autoproclamazione
d’indipendenza
dell’Albania,
ma
decisero,
nella
delimitazione
dei
confini
del
nuovo
stato,
di
assegnare
diversi
territori
del
nord
(Kosovo
e
Monastir
comprese)
alla
Serbia,
e
gran
parte
dei
territori
meridionali
alla
Grecia.
Metà
della
popolazione
albanese
restò
fuori
dai
suoi
confini.
Nominarono
inoltre,
quale
sovrano
del
neonato
Principato
di
Albania,
che
il
21
febbraio
1914
sostituì
il
governo
provvisorio
di
Ismail
Qemali,
il
principe
tedesco
Guglielmo
di
Wied.
Come
spesso
è
accaduto
e
come
spesso
accadrà
nella
storia,
gli
europei
hanno
creato
un
castello
senza
le
fondamenta
adatte
a
sorreggerlo.
Nel
frattempo,
tra
il
giugno
e
l’agosto
del
1913,
era
scoppiata
la
“seconda
guerra
balcanica”,
una
guerra
‘lampo’
di
neanche
due
mesi,
che
chiude,
almeno
temporaneamente,
le
ostilità,
ma
non
placa
certo
gli
animi.
Se
col
Trattato
di
Londra
la
nascita
dell’Albania
era
stato
anche
un
modo
per
bloccare
la
Serbia
(e
quindi
la
Russia)
nella
sua
avanzata
al
Mediterraneo,
col
Trattato
di
Bucarest
del
10
agosto
1913
la
Serbia
si
vide
praticamente
raddoppiato
il
proprio
territorio,
e
l’Albania
stessa
perdeva
altri
territori
a
vantaggio
della
Macedonia.
Le
arbitrarie
assegnazioni
fatte
a
scapito
dell’Albania
sono
di
certo
un
momento
decisivo
per
tentare
di
capire
quali
sono
le
rivendicazioni
che
oggi
avanzano
coloro
che
reclamano
la
resurrezione
della
“grande
Albania”.
Da
sottolineare
soprattutto
come
la
provincia
del
Kosovo,
rimasta
fuori
dai
territori
del
neonato
stato
albanese
al
momento
dell’assegnazione
alla
Serbia,
pare
fosse
popolata
da
una
considerevole
maggioranza
albanese,
che
venne
decimata
attraverso
politiche
di
‘serbizzazione’
o
massacrata.
Dal
canto
suo
la
Serbia
considera
tuttora
il
Kosovo
come
una
sua
provincia
autonoma,
tanto
da
essersi
apertamente
dichiarata
contraria
all’autoproclamazione
d’indipendenza
del
Kosovo
dalla
stessa
Serbia,
ufficializzata
il
17
febbraio
2008
(al
momento
riconosciuta
non
ancora
dalla
totalità
degli
stati
appartenenti
all’ONU).
Indipendenza
che
arriva
dopo
9
anni
di
amministrazione
ONU,
resi
indispensabili
dopo
la
terribile
guerra
avanzata
da
Slobodan
Milosevic,
principale
fautore
della
rinascita
del
nazionalismo
serbo,
agli
albanesi
del
Kosovo
nello
stesso
1999.
La
pretesa
serba
di
vedersi
riconoscere
il
Kosovo
o di
voler
farlo
considerare
un
‘protettorato’
di
Belgrado
rientra
probabilmente
nel
mai
sopito
progetto
politico
di
stampo
nazionalista
di
“Grande
Serbia”
o “panserbismo”,
sviluppatosi
tra
il
19°
e
20°
secolo
e
incentrato
sull’obiettivo
di
unificare
gli
stati
meridionali
dei
Balcani
sotto
un’unica
grande
nazione
serba.
Progetto
realizzato
con
la
nascita,
nel
1929,
del
Regno
di
Jugoslavia
(tanto
che
il
termine
“panserbismo”
venne
inglobato
o
sostituito
dal
termine
“jugoslavismo”),
ma
voluto
fortemente
soprattutto
da
Josiph
Tito.
Questa
doverosa
digressione
ci
riporta
a
quel
14
ottobre
2014.
Prima
di
arrivare
al
minuto
’41
vi
sono
altri
elementi
che
fanno
capire
come
quella
sia,
soprattutto
per
i
serbi,
una
serata
importante.
Con
i
giocatori
ancora
negli
spogliatoi,
dalle
tribune
iniziano
a
sentirsi
cori
quali
“Kosovo
è
Serbia”
e
“uccidi
gli
albanesi
e si
vedono
striscioni
rappresentanti
tale
Vojislav
Seselj,
presidente
del
Partito
Radicale
Serbo
(già
sotto
processo
all’Aja
con
l’accusa
di
omicidio,
atti
inumani,
persecuzioni
per
motivi
politici,
razziali
e
religiosi,
sterminio
e
attacchi
contro
civili
nei
territori
di
Croazia
e
Bosnia-Erzegovina),
profeta
in
patria
grazie
alla
dichiarazione
“Il
concetto
della
Grande
Serbia
è lo
scopo
dell’esistenza
del
Partito
Radicale
Serbo”.
Altro
elemento:
sopra
la
tribuna
centrale,
ove
a
ogni
partita
e in
ogni
stadio
vengono
esposte
le
bandiere
delle
squadre
che
andranno
ad
affrontarsi,
il
vessillo
albanese
viene
rapidamente
coperto.
Con
le
squadre
finalmente(?)
in
campo,
nei
primi
17
minuti
esplodono
due
petardi,
mentre
al
minuto
’36
un
giocatore
albanese
non
riesce
neppure
a
battere
un
calcio
d’angolo,
addosso
gli
piove
di
tutto,
e
dagli
spalti
si
ode
con
insistenza
“uccidi
gli
albanesi,
non
deve
rimanerne
uno”.
Arriva
il
famigerato
minuto
‘41:
c’è
un
primo
tentativo
di
invadere
il
campo
da
parte
dei
‘tifosi’
serbi,
poi
un
petardo
esplode
vicino
alla
panchina
albanese,
quindi
un
drone
passa
sopra
il
campo
di
gioco,
trasportando
una
bandiera
a
sfondo
nero
con
due
scritte
e
due
figure;
un
calciatore
serbo
la
prende
e la
scioglie
dal
drone
suscitando
da
un
lato
gli
applausi
e i
cori
di
approvazione
da
parte
del
pubblico,
dall’altro
una
dura
reazione
dei
giocatori
albanesi
che
si
avvicinano
a
lui.
Scoppia
una
rissa
che
in
pochi
attimi
coinvolge
i 22
in
campo,
le
panchine
e
diverse
decine
di
tifosi
riversatisi
in
campo
per
picchiare
gli
albanesi
(tra
essi
c’è
anche
Ivan
Bogdanov,
ricordate?
Mise
a
ferro
e
fuoco
lo
stadio
Luigi
Ferraris
di
Genova
il
12
ottobre
2010,
durante
la
partita
tra
Italia
e
Serbia
valida
per
le
qualificazioni
al
campionato
europeo
di
Polonia
e
Ucraina
del
2012;
nel
2008
è
stato
uno
dei
protagonisti
dell’assalto
all’ambasciata
americana
a
Belgrado
per
opporsi
all’indipendenza
del
Kosovo).
I
calciatori
albanesi
storditi
si
avviano
rapidamente
verso
gli
spogliatoi,
sì
perché
l’arbitro
Martin
Atkinson
ha
interrotto
la
partita,
forse
un
po’
poco
tempestivamente
per
essere
un
gentiluomo
inglese
abituato,
come
i
suoi
connazionali,
a
rigore
e
rispetto.
L’incubo
per
i
calciatori
albanesi
finisce
lì,
la
partita
non
riprenderà
più.
Qualche
giorno
dopo
la
UEFA
stabilisce
le
sanzioni:
3
punti
di
penalizzazione
e 2
gare
a
porte
chiuse
per
la
Serbia,
3-0
a
tavolino
all’Albania
per
abbandono
di
partita.
Ma
come?
Devono
aver
pensato
in
quel
di
Tirana.
Per
solidarietà
contro
una
probabile
ingiustizia
sportiva
e
non
solo,
da
Pristina,
il
giorno
dopo
la
sentenza,
fanno
sapere
che
“si
tratta
di
una
decisione
scandalosa
e
politica”.
Politica,
quello
in
cui
il
calcio
si è
trasformato
quella
sera;
una
cosa
che
non
dovrebbe
accadere
a
uno
sport
che
è
senza
dubbio
il
‘linguaggio’
più
universale
del
mondo,
ancor
più
della
lingua
inglese
dell’arbitro
Atkinson,
e a
delle
persone
che
vivono
da
anni
momenti
difficili
scanditi
da
guerre
e
povertà.
Eppure
l’intento
del
drone
era
proprio
scatenare
quel
caos,
aggiungere
una
nuova
pagina
all’interminabile
capitolo
di
una
rivalità,
quella
tra
Serbia
e
Albania,
che
non
accenna
a
diminuire,
e
che
coinvolge
anche,
come
terza
parte,
il
Kosovo,
indipendente
da
soli
6
anni,
ma
costantemente
impegnato
a
difendere
i
propri
diritti
e i
propri
confini
come
fosse
una
potenza
consolidata.
La
cosa
terribile
è
che
queste
schermaglie
proseguono,
proprio
per
volontà
dei
diretti
interessati,
se è
vero
che
il
difensore
albanese
Lorik
Cana,
già
della
Lazio,
dice:
“quella
della
Grande
Albania
è la
bandiera
più
bella
del
mondo”.
Ma
cosa
rappresenta
e
come
è
fatta
questa
bandiera?
Volti
e
date
che
ci
sono
familiari,
dopo
aver
letto
la
premessa
storica
dell’Albania.
La
data
in
alto
al
centro
è il
28
novembre
1912,
anno
dell’indipendenza
albanese
dall’Impero
Ottomano;
la
figura
rossa
al
centro
rappresenta
la
“Grande
Albania”,
comprendente,
oltre
all’odierna
Albania,
anche
diversi
territori
di
Serbia,
Kosovo,
Montenegro,
Grecia
e
Macedonia;
il
volto
a
sinistra
è
quello
di
Ismail
Qemali,
primo
ministro
del
governo
provvisorio
albanese
post-indipendenza,
mentre
quello
a
destra
è
Isa
Boletini,
membro
della
Lega
di
Prizren
e
protagonista
della
fallita
rivolta
albanese
del
1910;
la
scritta
sotto
si
riferisce
invece
al
Kosovo,
inneggiando
al
carattere
autoctono
dei
suoi
cittadini,
ovvero
al
carattere
‘originario’
del
luogo
in
cui
vivono,
tuttora
non
riconosciuto
come
indipendente
dalla
Serbia,
che
lo
ritiene
ancora
parte
del
suo
territorio.
6
repubbliche,
5
nazioni,
4
lingue,
3
religioni,
2
alfabeti,
1
Tito.
La
famosa
filastrocca
sull’ex-Jugoslavia
è,
ora
che
manca
il
Colonnello,
più
reale
che
mai:
i
Balcani
continuano
a
mostrarsi
ai
nostri
occhi
come
una
pericolosa
polveriera.