N. 106 - Ottobre 2016
(CXXXVII)
la
dottrina
dell'ethos
arte
tra
umano
e
non
umano
di
Paolo
Fundarò
La
dottrina
dell’ethos,
nel
mondo
greco,
è
promotrice
di
un
equilibrio
collettivo
che
trae
i
suoi
valori
da
riflessioni
filosofiche
non
tanto
di
carattere
estetico
ma
piuttosto
in
funzione
di
qualità
etiche
e
sociali.
Un
raffinato
filologo
come
Silvio
Ferri
così
commenta
il
profondo
intreccio
formatosi
nel
pensiero
greco
tra
arte
e
capacità
di
plasmare
l’animo
umano
dai
tempi
di
Damone
di
Atene:
“dopo
il
480
a.C.,
in
Grecia
le
scuole
filosofiche,
richiamando
l’attenzione
dei
cittadini
sull’uomo,
che
diventa
il
centro
e la
misura
di
tutte
le
cose,
hanno
profondamente
cambiato
e
umanizzato
le
menti
del
pubblico
e
degli
artisti,
e
anche
l’arte
diventa
"umana";
perciò
Aristotele
potrà
dire
di
Polignoto
che
egli
fu
il
primo
pittore
di
caratteri
e
che
i
giovani
debbono
studiare
le
opere
sue
e di
quanti
altri
-
pittori
o
scultori
–
hanno
lasciato
documenti
artistici
di
alto
valore
etico”
(Poet.,
6
[1450 a]; Polit., VIII,
5,
7).
È la
dottrina
dell’ethos.
Concetto
scaturito
dalla
visione
greca
delle
musica
e le
arti
in
genere.
Era
convinzione
comune
che
ogni
harmonia
(scala
musicale)
provocasse
inevitabilmente
un
ethos
(pl.
ethe),
cioè
un
particolare
effetto
capace
di
influire
sulla
psiche
e il
corpo.
L’harmonia
dorica,
legata
alla
lyra,
considerata
la
più
grave
e
virile,
determinava
nell’animo
compostezza
e
determinazione;
l’harmonia
frigia,
inseparabile
dal
dionisiaco
e
sfrenato
aulos
(strumento
ad
ancia
doppia
equivalente
ad
un
oboe)
avrebbe
suscitato
un
ethos
entusiastico
ed
emozioni
incontrollate
(enthusiasmòs
etimologicamente
vale
per
“essere
pieni
del
dio”
o
anche
“perdersi
nel
dio”).
Il
perfezionamento
tecnico
di
questi
strumenti
attirò
verso
la
fine
del
V
secolo
a.C.
le
critiche
dei
conservatori
che
vedevano
nella
pratica
virtuosistica
un
conflitto
con
l’aspetto
etico-psicologico
che
la
musica
doveva
svolgere.
La
teoria
dell’ethos
pervadeva
totalmente
la
visione
greca
della
musica.
Il
termine
mugik,
banalmente
tradotto
con
musica,
implicava
uno
stretto
legame
tra
poesia,
musica
e
danza.
Secondo
Aristide Quintiliano
( II
o IV
sec.
d.C.
), è
la
più
efficace
tra
le
arti
per
l’educazione
del
carattere.
Pittura
e
scultura,
raffigurando
una
visione
statica,
producono
invece
effetti
limitati.
La
poesia,
priva
di
melodia,
agisce
sull’udito,
ma
non
può
suscitare
il
pathos
necessario
ad
educare
l’animo
umano.
L’unione
di
poesia,
melodia
e
danza
(musiké)
agendo
su
tutti
i
sensi
in
modo
dinamico
promuove
il
più
alto
grado
di
mimesi.
.
Menade
danzante.
Affresco
pompeiano.
I
sec
d.C.
La
musica
secondo
Aristotele,
parte
integrante
dell’elemento
teatrale,
agisce
come
terapia
medica
(iatréa)
o
purificazione/purgazione
(kátharsis),
e
può
produrre
finanche
sollievo
o
piacere.
Ma
in
senso
lato
le
arti
tutte
influenzano
carattere
e
natura.
La
creazione
di
immagini,
la
danza,
il
teatro,
i
nómoi
(il
cui
significato
corrisponde
a
melodie
ma
anche
leggi);
hanno
i
fondamenti
teorici
nei
trattati
di
filosofia
greca:
l’ethos
è in
grado
di
attivare
un
processo
formativo
ideale
del
cittadino.
Se
Platone
bandiva
tutte
le
arti
mimetiche
dallo
Stato
ideale
nella
Repubblica,
in
quanto
pallide
imitazione
del
mondo
iperuranio
delle
idee,
impedendo
la
perfetta
contemplazione
del
vero
e
del
bene
turbando
l’elemento
razionale,
concedeva
però
la
presenza
della
musica
nel
modo
dorico
e
frigio
allo
scopo
esclusivo
di
infondere
virtù
e
integrità
educativa.
Il
rigido
schema
di
Platone
prevedeva
di
preservare
il
complesso
delle
arti,
e le
melodie
tradizionali
che
per
natura
offrono
verità
e
rettitudine,
senza
nessuna
mutazione
o
variazione
per
evitare
il
rischio
di
sovvertire
leggi
(i
nómoi
appunto)
e
istituzioni.
Il
modello
a
cui
Platone
si
ispira
è
quello
dell’Egitto
custode
di
un
canone
artistico
e
musicale
immutato
nei
millenni,
la
cui
origine
si
fa
risalire
direttamente
alla
dea
Iside.
Infatti,
dichiara
Platone,
solo
un
nume
può
tutelare
e
garantire
l’incorruttibilità
dei
modelli
educativi
artistici
e
musicali
(Leggi
657).
Questa
posizione
platonica
sulle
arti
è
stata
definita
catarsi
allopatica.
Aristotele,
d’altro
canto,
non
crede
all’inadeguata
imitazione
delle
arti
concernente
la
realtà
sensibile.
Considera
la
mimesi
strumento
di
conoscenza
e
coscienza
umana.
Poiché
Platone
individuava
due
modi
di
mimesi
(imitazione
icastica,
cioè
riproduzione
ideale
del
modello,
ed
imitazione
fantastica,
cioè
riproduzione
del
modello
cosi
come
appare),
Aristotele
aggiunge
una
terza
possibilità,
l’imitazione
della
realtà
come
dovrebbe
essere
(Poetica
XXV.
1460b).
Inoltre,
Aristotele
supera
l’idea
che
dinamiche
emotive
possano
corrompere
degenerando
in
sentimenti
indegni
e
riprovevoli;
ma
riferendosi
al
teatro,
ed
estendendo
il
suo
pensiero
alle
arti
in
genere,
elabora
il
tema
che
persino
esperienze
sgradevoli
quali
paura,
orrore
o
repulsa
(come
rappresentazioni
di
fiere
o
cadaveri
-Poetica
IV.
1448b-),
possono
rivelarsi
come
spunto
di
riflessione
e
conoscenza.
Queste
rappresentazioni
di
pietà
e
paura,
producono
tra
attore
e
spettatore
un
rapporto
di
affinità
che
si
risolve
in
un
senso
di
purificazione
e
sollievo;
cioè
di
catarsi
(Poetica
V
1449b).
Questa
idea
di
Aristotele
sull’arte
è
designata
come
catarsi
omeopatica
(similia
similibus
curantur).
E
questa
arte
umanizzata
e
l’elaborazione
di
una
dottrina
permeata
da
alti
intenti
formativi
sul
significato
e la
funzionalità
delle
arti
che
ci
appare
come
il
lascito
maggiore
del
mondo
classico.
Tralasciando
i
conflitti
e il
drammatico
travaglio
che
divamperà
alla
fine
della
tarda
antichità
nella
controversia
iconoclasta,
in
cui
entreranno
in
conflitto
le
due
radici
del
pensiero
cristiano:
quella
aniconica
di
origine
ebraica
e
quella
filoiconica
di
matrice
greca;
bisognerà
attendere
il
saggio
del
filosofo
spagnolo
José
Ortega
y
Gasset,
agli
inizi
del
XX
secolo
La
disumanizzazione
dell’arte;
per
riflettere
se
lo
svuotamento
di
significato
umano
dell’arte
e la
perdita
etica
della
sua
essenza
è un
fatto
irreversibile
nella
nostra
civiltà
e
nella
produzione
ideologica
delle
arti
contemporanee.
Scrive
Ortega
nel
suo
breve
opuscolo
nel
1925:
“L’arte
della
quale
parliamo
non
è
solo
inumana,
per
il
fatto
che
non
contiene
cose
umane,
ma
si
realizza
in
un’operazione
attiva
di
disumanizzazione.
Nella
sua
fuga
dall’umano
non
le
interessa
tanto
il
terminus
ad
quem,
la
fauna
eteroclita
alla
quale
giunge,
ma
il
terminus
a
quo,
l’aspetto
umano
che
essa
distrugge.
Non
si
tratta
di
dipingere
qualcosa
che
sia
del
tutto
diversa
dall’uomo,
dalla
casa
o
dalla
montagna,
ma
dipingere
un
uomo
che
assomigli
il
meno
possibile
ad
un
uomo,
… Il
piacere
estetico,
per
l’artista
moderno,
deriva
da
questo
suo
trionfo
sull’umano”.
Valido,
ancora
ci
sembra
il
consonante
e
dissonante
ammonimento
di
Plutarco:
“Imitare
il
bene”
ed
“imitare
bene”
non
è
la
stessa
cosa”.