N. 54 - Giugno 2012
(LXXXV)
il doroteismo
apologia della libertas democratica
di Pasquale Nava
“La
D.C.
- in
riferimento
alla
mozione
n.4
“Dorotei”,
VII
Congresso
Nazionale
della
DC
di
Firenze
(23-28
ottobre
1959)
-
non
dimentica
le
benemerenze
storiche
dei
partiti.
Essi,
sulla
base
di
idee
della
tradizione
risorgimentale,
hanno
combattuto
per
anni,
secondo
le
possibilità
e le
necessità
del
momento,
una
solidale
battaglia
per
la
difesa
delle
istituzioni
democratiche
e la
fondazione
del
nuovo
Stato”.
È
con
tale
proclama
che
una
frangia
del
partito
democristiano
si
mobilita
per
mezzo
di
un’apodittica
ricusazione
dell’impronta
fanfaniana.
Impronta
innegabilmente
impregnata
di
valenze
accentratrici
e
personalistiche.
L’addensamento,
infatti,
delle
cariche
di
presidente
del
Consiglio,
di
ministro
degli
Esteri
e di
segretario
del
partito
riesuma
gli
spettri
del
ventennio
mussoliniano
e di
qualsivoglia
ipostatizzazione
politica
di
stampo
totalitario.
“Nessuno
–
sostiene
Sandro
Fontana,
professore
di
Storia
Contemporanea
presso
l’Università
Statale
di
Brescia,
in
un’intervista
a
“Il
Sussidiario”
nel
maggio
2009
-
all’interno
del
partito
aveva
mai
accumulato
tante
cariche.
Per
molti
questo
era
diventato
inaccettabile”.
L’apologia
della
struttura
democratica
costituisce
in
tal
modo
il
background
ideologico
dell’attivismo
doroteo.
“Fanfani
–
conferma
l’ex
vicepresidente
del
Parlamento
Europeo
-
non
era
certo
aiutato
dal
suo
carattere
notoriamente
irruente,
a
tratti
dispotico”.
Il
summit
nel
convento
romano
della
santa
eponima
ristruttura
in
sostanza
l’edificio
della
sovranità
popolare.
Lo
fa
con
le
armi
di
un
conservatorismo
“all’italiana”.
E
spinge,
di
fatto,
il
sistema
politico
nazionale
ad
una
palese
aggressione
delle
infiltrazioni
comuniste
degli
ultimi
anni
Cinquanta.
“Era
necessario
dialogare
con
gli
alleati
–
testimonia
Fontana
–
tenere
a
bada
il
Partito
comunista
filo-sovietico
ed
avere
un
occhio
di
riguardo
nei
confronti
degli
alleati
d’oltreoceano”.
La
“congiura”
anti-fanfaniana
(Rumor,
Taviani,
Colombo,
Segni,
Gava,
Moro)
si
rivela
pertanto
come
sistemica
neo-Resistenza
di
foggia
proto-repubblicana,
nonché
ratifica
a
posteriori
del
testo
costituzionale
del
1948.
In
essa,
l’intervento
endogeno
di
alcuni
tiratori
franchi
attua
un’operazione
di
finalità
depuratorie,
a
detrimento
di
ogni
monopolistica
pretesa
di
deriva
monocratica.
“La
D.C.,
fedele
al
suo
ideale
di
libertà
e
alla
sua
originaria
impostazione
pluralistica,
si
impegna
alla
realizzazione,
con
sempre
maggiore
efficacia,
della
sua
azione
per
l'attuazione
della
Costituzione,
la
realizzazione
dello
Stato
di
diritto,
l'affermazione
della
libertà
nei
rapporti
umani,
pur
senza
l’evanescenza
delle
ragioni
della
collettività,
delle
esigenze
della
solidarietà
e
dell'imperativo
del
dovere”.
L’azione
di
Fanfani
è
pertanto
tacciata
di
ostracismo
al
pluralismo
.
“Per
lui
–
asserisce
a
tal
proposito
l’ex
ministro
dell’Università
- il
partito
doveva
imporre
dall’alto,
al
popolo,
la
propria
visione
del
mondo”.
Ed è
contro
questo
genere
di
prospettiva
che
codesti
fautori
della
libertà
si
scagliano
a
spada
tratta.
Si
scagliano
non
per
un
mero
divincolamento
all’interno
dei
grovigli
della
segreteria.
Né
per
un
puro
accaparramento
delle
poltrone
di
primo
piano.
Ma
per
uno
strenuo
assecondamento
delle
polifoniche
aspirazioni
politiche,
siano
esse
partitiche
o
radicate
istituzionalmente.
Certo,
“il
motivo
principale
per
il
quale
i
Dorotei
si
riunirono
fu
uno
–
dice
Fontana
-
ossia
contrastare
l’idea
di
fondo
di
Fanfani
sul
partito
e
sulla
società”.
Eppure,
la
loro
campagna
antidossettista
non
promana
da
una
esclusiva
vocazione
imperialistica
all’interno
della
DC.
Al
contrario,
le
conseguenti
dimissioni
dell’Amintore
nazionale
dimostrano
la
palese
volontà
democristiana
ad
un
re-establishment
totale
delle
istanze
anticomuniste
e
filoccidentali
del
Paese.
“La
D.C
–
enfatizzano
gli
esponenti
dorotei
-
come
perno
e
principale
forza
dello
schieramento
democratico,
ha
combattuto,
sul
terreno
della
lotta
democratica,
il
comunismo
e ne
ha
arrestato
lo
slancio
espansivo.
Slancio
apparentemente
incontenibile
dopo
la
lunga
tirannide
e
nelle
condizioni
economiche
e
sociali
del
dopoguerra”.
Il
doroteismo,
in
altre
parole,
opina
negativamente
il
solco
onnipresente
del
fascismo.
“La
D.C.
–
continuano
nella
mozione
- ha
smascherato
gli
alleati
del
comunismo.
E,
con
la
sua
azione
rettilinea
a
difesa
della
democrazia,
ha
posto
ad
essi
problemi
non
ulteriormente
eludibili.
Ha
impedito
qualsiasi
tentativo
di
rinascita
in
Italia
del
fascismo
ed
ha
messo
ai
margini
della
vita
nazionale
le
nostalgie
totalitarie”.
In
sostanza,
è
aborrito
da
un
parte
ogni
tentativo
di
ripristino
dell’esautorazione
mussoliniana
del
pluralismo
intellettuale.
Dall’altra,
quel
tipo
di
paternalismo
ottriato
inusitat0
per
la
ritrovata
sfera
di
democraticità.
Democraticità,
rivitalizzata
dall’impregnamento
doroteo
per
qualsivoglia
esplorazione,
costituzionalmente
ora
lecita,
di
tipo
consensuale
e
proporzionalistica
del
panorama
politico.
Di
esso,
però,
si
era
depauperato
il
dossettismo
di
Fanfani.
“Quest’ultimo
–
tratteggia
infatti
Fontana
-
era
l’erede
spirituale
e
politico
di
Dossetti.
Dal
suo
pensiero
era
del
tutto
estraneo
il
concetto
di
società,
con
i
suoi
raggruppamenti
spontanei
e le
sue
libere
aggregazioni
che,
logicamente
e
spesso
storicamente,
precedono
non
solo
i
partiti,
ma
lo
Stato
stesso.
In
Dossetti
non
c’è
mai
stata
traccia
del
principio
di
sussidiarietà.
E
così
in
Fanfani.
Si
trattava
di
una
grave
lacuna
che
assegnava
al
partito
compiti
di
derivazione
leninista”.
Il
progetto
fanfaniano
rispolvera
insomma
l’acredine
verso
qualunque
forma
di
autonomo
sviluppo
spirituale
delle
varie
stratificazioni
sociali.
In
altre
parole,
verso
la
libertà.
“Alla
D.C.
–
asserisce
infatti
questa
frangia
di
cattolici
filantropici
- va
attribuito
il
merito
di
uno
svolgimento
di
sommo
equilibrio
ed
indubbia
efficacia
di
una
politica
di
libertà,
di
giustizia
sociale
e di
solidarietà
interna
ed
internazionale.
Politica
datrice
di
solide
basi
per
la
democrazia
del
nostro
Paese”.
In
tal
modo,
la
posizione
di
Fanfani
denigra,
a
favore
di
una
tangibile
consustanzialità
tra
dinamicità
politica
e
rappresentatività
partitica,
la
cosiddetta
concessio
imperi
stabilita
dall’art.1
della
Costituzione.
I
dorotei
optano,
al
contrario,
per
una
concertazione
tra
istanze
democratiche
e
loro
conglobamento
statuale.
Conglobamento
con
al
centro
un
unico
soggetto:
il
popolo
in
quanto
tale.
“La
DC –
dichiarano
al
congresso
del
1959
-
riafferma
la
propria
volontà
di
continuità,
nella
linea
politica
della
sua
tradizione,
al
completo
servizio
del
popolo
italiano,
in
prosecuzione
della
battaglia
per
la
piena
attuazione
della
democrazia
contro
i
totalitarismi,
gli
estremismi,
i
privilegi
e le
ingiustizie,
con
tutta
la
sollecitudine,
l'impegno
e lo
slancio
inerenti
all'urgenza
dei
tempi,
all'entità
dei
bisogni
ed
alla
maturazione
delle
coscienze
democratiche”.
Coscienze
proiettate
all’avvenuta
trasmutazione
della
formula
prima
liberale,
poi
fascista
dello
Stato:
quella
non
dell’individuo
per
lo
Stato,
bensì
dello
Stato
per
l’individuo.
Quest’ultimo
trova
adesso
nella
codificazione
dei
suoi
diritti
inviolabili
ogni
retaggio
delle
personali
aspirazioni
soteriologiche
contro
qualsiasi
invasamento
esterno.
“La
D.C.
–
confermano
-
vede
nello
Stato
democratico
uno
strumento
indispensabile
per
la
libera
attuazione
della
giustizia
nella
società.
E,
nella
ricusazione
ad
ogni
statolatria,
attribuisce
allo
Stato
il
preciso
dovere
di
intervento
con
le
leggi
e
con
l'azione
solidale
della
collettività
per
fini
di
giustizia
e di
tutela
della
dignità
umana”.
Di
quella
dignità
pericolante
per
la
trasfigurazione,
impressa
alla
DC
da
alcuni
ambienti
fanfaniani,
attraverso
un
interventismo
ideologico
diretto
ad
uno
stravolgimento
deleterio
per
le
giovani
fondamenta
della
Repubblica
italiana.
L’occorrenza
di
un’ostruzione
endemica
al
partito
maggioritario
urge
allora
in
tutta
la
sua
priorità,
a
causa
delle
labili
difese
immunitarie
della
partitocrazia
di
quegli
anni.
“La
D.C.
–
spiegano
-
fedele
alla
sua
vocazione
popolare,
riafferma:
il
compiuto
inserimento
delle
masse
popolari
nello
Stato
democratico,
l'attuazione
della
democrazia
nel
suo
pieno
contenuto
e la
partecipazione
di
tutti
nella
dialettica
delle
maggioranze
e
delle
minoranze
e
nelle
varietà
del
corpo
sociale,
la
vita
dello
Stato,
le
articolazioni
degli
ordinamenti
locali
e
particolari,
le
decisioni
impegnative
nella
vita
pubblica,
la
determinazione
delle
direttive
di
sviluppo
della
società,
il
possesso
dei
beni
della
economia,
della
cultura
e
dello
spirito”.
Richiami,
tutti
questi,
tesi
pertanto
all’auspicio
di
un’evoluzione
organica
delle
strutture
istituzionali
verso
un’introiezione
delle
valenze
ontologiche
dell’uomo.
Quest’ultimo
è
ivi
una
cellula
imprescindibile
dell’intero
l’apparato
statale,
nonché
leit
motiv
del
costituzionalismo
italiano,
fuoriuscito
ex
novo
dall’atomizzazione
della
sua
dignità
per
mano
del
dittatura
fascista.
“La
D.C
–
evidenziano
i
dorotei
-
auspica
un
effettivo
e
genuino
allargamento,
nella
evoluzione
storica
della
società
italiana,
di
quest'area
libera
dalla
ipoteca
totalitaria.
Area
protesa
allo
sviluppo
integrale
della
persona”.
E
alla
massimalizzazione
delle
venature
garantiste
postbelliche,
atte
alla
salvaguardia
del
principio
di
autoaffermazione
dell’individuo
in
quanto
tale,
quanto
a
quello
di
incanalamento
delle
vocazioni
populistiche
all’interno
del
modus
decidendi
costituzionale.
Percorso
con
al
centro
un
unico
attore-protagonista:
la
democrazia.