N. 62 - Febbraio 2013
(XCIII)
il doping nel mondo antico
Il lato oscuro dello sport
di Francesco Agostini
Vero
e
proprio
virus
che
ha
contaminato
lo
sport
negli
ultimi
anni,
il
doping
è
stato
spesso
al
centro
di
aspre
polemiche,
portando
addirittura i
media
a
chiedersi
se
fosse
giusta
una
sua liberalizzazione
definitiva
oppure
no.
Eppure,
nonostante
l’attenzione
della
stampa
e la
sua
enorme
diffusione
nei
tempi
moderni,
pochi
conoscono
quali
siano
le
sue
vere
origini.
La
prima
ipotesi
consiste
nel
ricercarne
le
radici
nel
continente
africano
e
precisamente
nel
cuore
della
civiltà
Bantù,
uno
dei
popoli
più
importanti
dell’Africa
subequatoriale.
In
particolar
modo
il
termine
doping
deriverebbe
dalla
parola
dope,
termine
utilizzato
dai
Boeri,
dei
coloni
olandesi
che
si
stabilirono
nella
zona
del
Sudafrica,
che
stava
a
indicare
un
miscuglio
alcolico
di
frequente
uso
nelle
danze
e
nei
riti
cerimoniali.
Questi
riti
erano
di
fondamentale
importanza
nella
civiltà
Bantù
perché
si
svolgevano
in
fasi
importanti
della
vita
dell’individuo
come
il
suo
ingresso
nella
vita
della
tribù
(la
sua
iniziazione
quindi),
oppure
in
eventi
propiziatori
per
ciò
che
concerne
l’agricoltura
o
ancora
l’allontanamento
dal
male
dalla
tribù
stessa.
In
tutti
questi
riti,
la
bevanda
dope
era
presente
come
un
incentivo
euforico
alla
perfetta
riuscita
del
cerimoniale.
Un’altra
ipotesi
invece
vede
al
centro
della
questione
ancora
una
volta
l’Olanda,
perché
secondo
questa
idea
la
parola
doping
deriverebbe
dal
termine
doop,
ossia
zuppa.
Questa
zuppa
non
era
nient’altro
che
una
bevanda
tonificante
e
stimolante
basata
su
una
ricetta
che
proveniva
dall’India,
che
serviva
agli
operai
olandesi
per
aiutarli
a
costruire
il
nucleo
della
città
di
New
York,
ossia
Manhattan.
Nel
1624,
infatti,
l’olandese
Peter
Minuit
pensò
a
Manhattan
come
punto
focale
per
lo
scambio
delle
merci
che
provenivano
dall’Europa
e
decise
di
acquistare
l’isola,
destinata
a
diventare
la
Nuova
Amsterdam.
Qui
però
gli
olandesi
furono
costretti
a
operare
su
più
fronti,
poiché
parallelamente
costruirono
il
quartiere
e si
difesero
dagli
attacchi
degli
inglesi
del
New
England
erigendo
una
palizzata,
e in
questo
contesto
s’inserì
la
pratica
nociva
della
bevanda
doop.
In
seguito
gli
inglesi
prevalsero
e la
città
da
Nuova
Amsterdam
diventò
New
York.
La
stessa
parola
doop
però
sembrò
essere
utilizzata
anche
per
indicare
una
particolare
droga
utilizzata
da
alcuni
rapinatori
di
New
York
che,
tramite
questa
miscela,
sedavano
le
proprie
vittime
al
fine
di
derubarle.
Questa
miscela
conteneva
residui
di
tabacco
e
alcaloidi
ed
era
usata
con
la
chiara
finalità
di
provocare
senso
di
disorientamento
e
smarrimento
a
chi
ne
assumeva
una
determinata
quantità.
Quale
ne
sia
stato
l’utilizzo,
sia
a
sfondo
criminale
che
con
finalità
tonificanti,
il
termine
dope
indicava
genericamente
sostanze
atte
ad
alterare
il
normale
stato
del
corpo
umano
e
quindi
si
indicavano
con
esso
le
cosiddette
sostanze
stupefacenti.
Questa
pratica
però,
sappiamo
con
certezza
che
possiede
una
storia
antica
quasi
quanto
lo
sport
stesso.
Il
doping,
infatti,
era
diffuso
già
ai
tempi
dei
primi
Giochi
Olimpici
e
tutti
gli
atleti,
chi
più
chi
meno,
ne
facevano
largo
uso:
credere
dunque
che
il
doping
sia
una
cattiva
usanza
moderna
equivale
sicuramente
a
commettere
un
grave
errore.
La
pratica
più
diffusa
era
certamente
quella
di
ingerire
in
discrete
quantità
alcune
dosi
di
semi
di
sesamo,
poiché
erano
ritenuti
in
grado
di
poter
alterare
le
prestazioni
dell’atleta.
La
pratica
era
talmente
diffusa
fra
i
partecipanti
che
si
ritenne
necessario
istituire
il
primo
controllo
antidoping:
chi
veniva
colto
in
flagrante
poteva
essere
sanzionato
in
modi
più
o
meno
severi
quali
penalità,
esclusione
dai
Giochi
o,
in
caso
estremo,
la
morte.
Altri
metodi
dopanti
invece
erano
basati
sull’ingerimento
di
notevoli
quantità
di
carne
per
incrementare
la
dose
di
proteine
all’interno
del
corpo
dell’atleta.
La
carne
stessa
veniva
differenziata
a
seconda
dello
sport
in
cui
l’atleta
era
specializzato:
quella
di
maiale,
per
esempio,
era
ritenuta
idonea
per
i
lottatori
in
quanto
notevolmente
più
grassa
e
sostanziosa.
Emblematico
è il
caso
del
famoso
lottatore
Milone,
vincitore
di
sei
Olimpiadi,
che
secondo
alcune
fonti
compiva
tutti
gli
allenamenti
con
un
vitello
sulle
spalle
che
poi,
immancabilmente,
divorava
alla
fine
della
giornata.
Comunque,
non
solo
gli
esseri
umani
erano
sottoposti
al
doping
ma
anche
gli
animali,
in
particolar
modo
i
cavalli:
questi
ultimi,
infatti,
erano
costretti
a
ingerire
notevoli
dosi
di
idromele,
una
sostanza
ricca
di
acqua
e
miele,
al
fine
di
essere
più
scattanti
e di
resistere
meglio
alla
fatica.
Il
doping,
purtroppo,
era
una
pratica
talmente
diffusa
che
anche
Ippocrate,
il
padre
della
medicina,
dichiarò:
«Negli
atleti
lo
stato
di
salute
portato
all’estremo
è
pericoloso,
perché
esso
non
può
rimanere
così,
né
restare
a
lungo
stazionario,
e
poiché
non
può
rimanere
stazionario
né
migliorare,
non
resta
che
un
cambiamento
in
peggio».
La
sua
dichiarazione,
così
schietta
e
puntuale,
ci
fa
comprendere
l’effetto
negativo
che
il
doping
aveva
già
all’epoca,
frutto
di
alcuni
metodi
molto
più
vicini
alla
stregoneria
che
alla
medicina
e ci
fa
comprendere
anche,
con
grande
rammarico,
che
il
doping
e lo
sport
nel
corso
della
storia
sono
sempre
andati
di
pari
passo
e
che
la
storia
dell’uno
è
antica
quasi
quanto
la
storia
dell’altro.