LE
DONNE, la GUERRA
un Excursus sulle grandi condottiere di
ieri e di oggi
di
Leila
Tavi
Donne guerriere. Le grandi
condottiere che hanno cambiato la
Storia
è il titolo del nuovo saggio del
giornalista e divulgatore storico
Matteo Liberti per Newton
Compton. Il corpo del volume è
suddiviso in cinque parti che
spaziano dalla mitologia all’epoca
contemporanea e che narrano la vita
e le gesta di oltre quaranta eroine.
Il quinto capitolo è una vera e
propria novità, perché analizza
gruppi di combattenti donne.
Il libro affronta il tema delle
donne e la guerra in maniera
esaustiva, nel classico stile
dell’autore, del quale è
apprezzabile sia l’ampia e
aggiornata bibliografia in
lingua inglese e italiana utilizzata
sia l’aver spaziato anche in culture
lontane dalla nostra, rendendo
giustizia a minoranze che non
trovano largo spazio nelle
storiografia contemporanea, come nel
caso di Lozen (1840-1889), la
guerriera-sciamana, indomita
combattente della la tribù degli
apache chiricahua per la resistenza
contro i coloni bianchi.
Il volume sorprende per il modo in
cui un autore maschile riesce a dar
voce a storie di donne in un
contesto bellico senza mai scivolare
in stereotipi o in una trattazione
di storia “minore”. Il fatto stesso
che sia necessario parlare di “donne
e guerra” sottolinea l’orientamento
di genere del nostro concetto di
guerra, eppure Matteo Liberti è
riuscito a superare questo cliché e
a dare ampio spazio alle donne come
protagoniste in un campo, la storia
militare, a lungo percepito come
dominio degli uomini; un’impresa
maschile in cui le donne sono state
per lungo tempo, nella storiografia
tradizionale, vittime e spettatrici,
raramente protagoniste. A riprova di
ciò, alcune delle protagoniste del
libro vissute tra l’antichità e
l’epoca moderna furono costrette a
fingersi uomini per dimostrare il
loro coraggio.
A
partire da Hua Mulan (386
d.C.-436 d.C.), resa famosa dalla
Disney, preoccupata per la
cagionevole salute dell’anziano
padre, ex valoroso condottiero
richiamato come riservista
nell’esercito cinese per far fronte
ai continui attacchi da parte delle
tribù nomadi e degli unni. Costei
rispose alla chiamata al posto di
suo padre, utilizzando il nome di
suo fratello minore. C’è poi
Alëna Arzamasskaja (in ligua
erza: Эрзямассонь Олёна, in russo:
Алёна Арзамасская), soprannominata
la “Giovanna d’Arco di Russia”,
una ragazza dallo spirito ribelle
che nel 1670, dopo aver lasciato il
convento, si travestì da uomo e
guidò un esercito d’insorti
nell’ambito d’una vasta rivolta di
contadini cosacchi contro lo zar
Alessio I Romanov, guidata da Stepan
Timofeevič Razin, detto Sten’ka (Степан
Тимофеевич Разин, Стенька,
1630-1671). Catturata dai soldati
dello zar, fu arsa viva sul rogo.
L’autore, reduce dal saggio
Storia segreta dei pirati
(Newton Compton, 2021) ricorda anche
le piratesse Mary Read (1690-1721) e
Anne Bonny (1697-1782), una inglese
e l’altra irlandese, che tra il 1718
e il 1720 scorrazzarono nel Mar dei
Caraibi con il temutissimo pirata
Calico Jack, indossando quasi sempre
abiti da uomo. Anche tra gli
ufficiali ci furono delle valorose
donne che si dichiararono uomini per
combattere, come Hannah Snell
(1723-1792), che si arruolò sulla
Nave di Sua Maestà Swallow a
Portsmouth il 23 ottobre 1747 e che,
comandata dal capitano Rosier, prese
parte all’assedio di Pondicherry del
1748, o Francesca Antonia
Scanagatta (1776-1864), alfiere
e poi tenente dell’Esercito del
Sacro Romano Impero, o ancora
Nadežda Andreevna Durova
(1783-1866), che combatté nella
cavalleria russa durante le guerre
napoleoniche. Tra le eroine
costrette a dichiararsi uomini per
prendere parte alla lotta per la
libertà dei propri popoli ricordiamo
inoltre Emilia Plater
(1806-1831), che prese parte alla
Rivolta di novembre del 1830, la
storica ribellione volta a
contrastare l’ingerenza russa in
territorio polacco e lituano, e
Antonia Masanello (1833-1862),
che combatté al seguito di Giuseppe
Garibaldi nella Spedizione dei
Mille. Infine, è da segnalare
Petra Herrera (1887-1916), che
ha combattuto come soldato nelle
truppe insurrezionali della
Rivoluzione messicana e nota anche
come “Pedro”, avendo appunto
iniziato a combattere camuffata da
uomo.
Tutte queste eroine hanno pagato le
usanze sociali che per lungo tempo
hanno relegato la donna a figura di
contorno dell’uomo, dedita ai lavori
domestici e all’educazione della
prole, costringendole appunto ad
assumere un’identità maschile per
agire indisturbate. Chissà, però,
quante di queste combattenti gli
archivi e le fonti storiche non ci
hanno rivelato nella loro vera
identità, ben celata fino alla loro
morte.
Indubbio è che a uno sguardo
contemporaneo le donne guerriere
assumono il fascino delle eroine
della cultura pop, anche in chiave
gender e, analizzando il ruolo della
donna nei conflitti contemporanei,
il libro di Matteo Liberti ci aiuta
a comprendere che le donne in guerra
non vanno considerate come anomalie
storiche, nonostante le parole del
noto storico militare statunitense
John Keegan: “Warfare is... the
one human activity from which women,
with the most insignificant
exceptions, have always and
everywhere stood apart... women...
do not fight. They rarely fight
among themselves and they never, in
any military sense, fight men. If
warfare is as old as history and as
universal as mankind, we must now
enter the supremely important
limitation that it is an entirely
masculine activity”.
In realtà, le donne sono sempre
andate in guerra: per vendicare o
proteggere le loro famiglie, per
difendere le loro case, le loro
città, o le loro nazioni, o ancora
per conquistare l’indipendenza da
una potenza straniera, raramente per
l’ambizione di voler espandere i
confini del loro regno, come la
monografia di Matteo Liberti
dimostra. Pensiamo alle donne della
Resistenza italiana o alle 800.000
donne che hanno combattuto per
l’URSS durante la Seconda Guerra
Mondiale. Va tra l’altro
sottolineato come costoro, al loro
ritorno nella società civile, siano
state ostracizzate, oggetto di
pregiudizi e relegate a figure di
contorno della Grande Guerra
Patriottica (Великая Отечественная
война). Lo stesso destino, ci
racconta Donne Guerriere,
toccò alle Soldaderas
o Adelitas, le guerriere
della rivoluzione messicana
all’inizio del XX secolo, che fino
agli anni Settanta, seppur
menzionate nei libri di storia o nei
romanzi, vennero descritte come
semplici cuoche, infermiere,
lavandaie, sarte e, all’occorrenza,
amanti passionali, oppure come
conturbanti “icone sexy” della
rivoluzione.
Particolarmente precisa è la
descrizione dei gruppi di donne
combattenti nell’Unione Sovietica.
L’autore ha tra l’altro analizzato
il Battaglione femminile della morte
(Женские батальоны смерти), sotto il
cui nome furono raggruppate, a
partire dal giugno del 1917,
quindici distinte formazioni di sole
donne volontarie, che agirono in
modo eroico durante le fasi finali
della Prima Guerra Mondiale per far
fronte agli invasori
austro-tedeschi. Oltre che a Mosca e
a Pietrogrado, da maggio 1917,
furono reclutate donne a Kiev e
Saratov, mentre associazioni
femminili e gruppi locali radunarono
altri improvvisati raggruppamenti di
volontarie a Poltava, Ekaterinburg,
Tashkent, Baku, Vjatka, Minsk,
Mogilëv, Perm’, Mariupol’, Saratov
ed Ekaterinodar. Il numero delle
volontarie crebbe a vista d’occhio,
così, nell’agosto del 1917, fu
convocato a Pietrogrado un
“Congresso delle donne soldato” per
coordinare la formazione di
ulteriori unità sul resto del
territorio. Il battaglione nacque su
impulso di Marija Leont’evna
Bočkarëva (Мари́я Лео́нтьевна
Бочкарёва, 1889-1820), detta “Jaška”,
che in russo è un suffisso (-я́шка)
usato per formare sostantivi
diminutivi da sostantivi e
aggettivi, spesso indicando un
oggetto di piccole dimensioni con
una determinata qualità.
La proposta di Maria Bočkarëva fu
sostenuta in un primo momento dal
generale Aleksej Alekseevič Brusilov
(Алексе́й Алексе́евич Бруси́лов,
1853-1926) e dal presidente della
Duma Michail Vladimirovič Rodzjanko
(Михаил Владимирович Родзянко,
1859-1924), venendo poi approvata
dal ministro della Guerra Aleksandr
Fëdorovič Kerenskij (Алекса́ндр
Фёдорович Ке́ренский, 1881-1970). Il
1º Battaglione femminile della morte
russo fu aggregato al 525º
Reggimento Kiuruk-Darinskij (Кюрук-Даринский
полк) e inviato al fronte nella zona
di Smarhon’ (in bielorusso: Смарго́нь)
ai primi di luglio 1917. Il 9 luglio
il battaglione fu coinvolto
nell’offensiva Kerenskij (conosciuta
anche come offensiva di luglio o
offensiva della Galizia), l’ultima
lanciata dal governo provvisorio
russo e terminata con una disfatta,
contribuendo alla presa di potere
dei bolscevichi. In quell’occasione,
le donne di Maria Bočkarëva decisero
di attaccare i nemici tedeschi anche
senza il supporto dei colleghi
uomini, prendendo nel corso
dell’assalto tre linee di trincee
nemiche. Il contrattacco fu pesante
e le combattenti russe persero gran
parte del terreno conquistato in
modo valoroso. Maria Bočkarëva, dopo
essere stata arrestata come
controrivoluzionaria, emigrò negli
Stati Uniti, dove, nel luglio del
1918, fu accolta con calore dal
presidente americano Woodrow Wilson.
Nell’estate dello stesso anno si
recò in Gran Bretagna, per chiedere
finanziamenti a Giorgio V per
organizzare un’azione
anti-bolscevica in Russia, e così,
rientrata a Tomsk nella primavera
1919, tornò ad allestire una squadra
militare femminile mettendosi a
completa disposizione delle forze
controrivoluzionarie. Il tentativo
fallì e Maria fu rinchiusa per un
lungo periodo in una prigione di
Krasnojarsk (Красноя́рск), nella
Siberia centrale, per essere poi
fucilata il 16 maggio 1920, appena
trentenne.
In totale, le donne russe che
presero parte alla Prima Guerra
Mondiale furono diverse migliaia,
anche se non tutte parteciparono
direttamente parte agli scontri. Di
molte, peraltro, come sottolinea
l’autore, non si conoscono i nomi. A
ogni modo, è certo che nel corso
della Prima Guerra Mondiale la
Russia fu l’unico Stato a reclutare
unità da combattimento interamente
femminili, per le quali il conflitto
costituì un’importante occasione di
emancipazione.
Un bel paragrafo del volume è
inoltre dedicato alle Streghe
della Notte, le Nachthexen,
nemiche giurate tedeschi durante la
Seconda Guerra Mondiale. Si trattava
delle le donne pilota del 588º
Reggimento bombardamento notturno (Ночные
Ведьмы), costituito in soli tre
mesi, dopo l’invasione
nazionalsocialista del territorio
sovietico (Operazione Barbarossa).
In seguito, nel 1943, il battaglione
fu rinominato 46º Reggimento
bombardamento leggero notturno delle
guardie “Taman’“ (46-й гвардейский
ночной бомбардировочный авиационный
Таманский Краснознамённый и ордена
Суворова полк). L’iniziativa fu
questa volta di Marina Michajlovna
Raskova (Марина Михайловна Раскова,
1912-1943), abile aviatrice con
notevoli doti tattiche. Fu Stalin in
persona ad appoggiare il progetto
della creazione di un corpo di
aviatrici. Le reclute, tutte tra i
diciotto e i vent’anni, furono
sottoposte a un duro allenamento di
quattordici ore al giorno. Le
aviatrici del reggimento eseguirono
tra il 1941 e il 1945 oltre 23.000
missioni e sganciarono circa 3.000
tonnellate di bombe, confermandosi
come l’unità femminile
dell’Aviazione Sovietica con più
medaglie e riconoscimenti al valore.
Alcune delle donne pilota
sopravvissero al conflitto, mentre
altre caddero nel mezzo dell’azione,
tra cui la stessa Marina Raskova,
che il 4 gennaio 1943 si schiantò, a
causa di una tempesta di neve,
contro alcune scogliere a picco sul
fiume Volga, a nord di Stalingrado.
molto probabilmente nel tentativo di
raggiungere come rinforzo i compagni
nella famosa e lunga battaglia di
Stalingrado (Сталинградская битва),
culminata proprio il 10 gennaio 1943
nell’Operazione Anello (Операция
Кoльцo), con l’Armata Rossa che
sferrò l’offensiva piegando la
resistenza delle forze tedesche
della 6ª Armata della Wehrmacht
(accerchiate dal 24 novembre 1942 in
una grande sacca tra il Volga e il
Don). Tale vittoria sovietica segnò
una decisiva svolta
politico-militare sul Fronte
orientale.
Nello specifico, Matteo Liberti
sottolinea come le caratteristiche
degli aerei utilizzati dalle Streghe
della Notte, costruiti negli anni
Venti e considerati sorpassati e
lenti, permisero alle aviatrici
russe di operare indisturbate di
notte nei cieli:
“Gli
aeroplani più utilizzati dalle
aviatrici russe per agire nottetempo
erano dei Polikarpov Po-2, uno
storico modello realizzato in legno
e tela che era stato sviluppato
dagli ingegneri sovietici negli anni
Venti, ma che era ormai giudicato
del tutto superato, offrendo
prestazioni limitate sia in termini
di numero di bombe trasportabili,
sia di comunicazione (mancando di
apparecchiature radio) e sia per
quel che concerneva appunto la
velocità, che arrivava a stento a
sfiorare i 150 km/h (limite
inferiore a quello di una qualsiasi
automobile moderna). Nondimeno,
proprio la lentezza dei Polikarpov
Po-2 – che non furono comunque gli
unici aerei a disposizione delle
aviatrici formate da Marina Raskova
– fece sì che essi risultassero
notevolmente maneggevoli, silenziosi
e in grado di volare a basse quote,
tutti elementi che ne rendevano
difficile l’intercettazione da parte
dei nemici. Non a caso, era
consuetudine che, prima di essere
colpiti, i tedeschi udissero
soltanto un leggero e inquietante
fruscio (paragonato da molti, tanto
per rimanere in tema, al sibilo
della scopa cavalcata da una
strega), senza accorgersi di nulla
finché le bombe non esplodevano su
di loro”.
Un’altra protagonista sovietica
della Seconda Guerra Mondiale citata
da Matteo Liberti è Marija Vasil’evna
Oktjabr’skaja (Мари́я Васи́льевна
Октя́брьская, 1902-1944), che per
vendicare il marito morto in
battaglia, con un passato vissuto
tra i carri armati, perché aveva
affiancato il suo consorte,
appassionandosi di quei veicoli
bellici, fu ricordata dalla storia
per le sue gesta temerarie. Vendette
tutti i suoi beni per acquistare un
carro armato modello “T-34”, che
donò all’esercito sovietico, a patto
che fosse lei a guidarlo e che
recasse la scritta scritta “Боевая
подруга” (fidanzata combattente).
Inviò una lettera direttamente a
Stalin per fare la sua proposta, che
fu accolta immediatamente. Dopo un
periodo di addestramento iniziato
nel maggio del 1943, nell’autunno
del 1943 Marija Oktjabr’skaja iniziò
a combattere con ardore, senza mai
risparmiarsi e guadagnandosi la
nomina a sergente. Morì nel mese di
gennaio 1944, in un ospedale di
Smolensk (Смоленск), dopo due mesi
in coma, per le conseguenze di una
scheggia di granata che la colpì
alla testa durante un combattimento
a Vitebesk (in bielorussia: Віцебск).
Altro omaggio che Liberti fa alle
militari sovietiche è a Ljudmila
Michajlovna Pavličenko (Людмила
Михайловна Павличенко, 1916-1947),
una delle duemila donne cecchino
sovietiche, delle quali soltanto
cinquecento sopravvissero alla
guerra.
Soprannominata “Леди Смерть”, ovvero
“lady morte”, dai suoi
nemici, Ljudmila era infallibile,
grazie al suo lungo addestramento
fin da adolescente al tiro a segno.
L’8 agosto 1941, a venticinque anni,
iniziò la carriera da cecchina con
l’uccisione di due nemici. Nei
successivi due mesi, difese la città
di Odessa, assediata dai soldati
tedeschi, tra i quali oltre duecento
avversari perirono per mano di
Ljudmila Pavličenko, che ottenne in
rapido tempo una promozione a
sergente. Odessa cadde il 16 ottobre
1941. Si sposò con Alexej Kitsenko (Алексей
Киценко), che morì dopo pochi mesi
in battaglia. La giovane vedova fu
trasferita a Sebastopoli (Севасто́поль),
che fu presa di nuovo dalla forze
tedesche, con l’aiuto di soldati
italiani e romeni. Ljudmila
Pavličenko non soltanto uccise di
nuovo centinaia di invasori, ma
addestrò molte squadre di reclute.
La sua nomea di infallibile
tiratrice arrivò anche agli alleati,
tanto che, nel 1942 fu invitata
negli Usa per una visita di
propaganda (prima sovietica a essere
ricevuta da un presidente degli
Stati Uniti). Le sue gesta in tempi
recenti sono state ricordate dal
film Resistance: La battaglia di
Sebastopoli (titolo originale
Битва за Севастополь), uscito
nel 2015, per la regia di Sergej
Evren’evič Mokrickij (Сергей
Евгеньевич Мокрицкий), di origini
ucraine.
Nel complesso, il saggio riporta
alla luce storie di un gran numero
di donne che, pur spesso ricordate
nei loro Paesi d’origine come eroine
nazionali, non sono studiate a
livello internazionale, almeno non
come si converrebbe. Matteo Liberti
toglie però dall’ombra della storia
queste donne guerriere, in uniforme
o nei panni di civili, che hanno
combattuto per loro volere o che
sono state soltanto costrette a
difendersi, riuscendo nel tentativo
di restituire dignità a una serie di
figure le cui vicende sono appunto
state spesso trascurate dai
principali manuali di storia. E che
in Donne guerriere ritrovano
invece una voce autentica, sfatando
in alcuni casi, false leggende, come
per le Amazzoni, la cui
mutilazione della mammella destra
per poter imbracciare meglio l’arco
è un’invenzione letteraria di
matrice greca. Lodevoli, infine, i
continui riferimenti all’attualità,
ai conflitti contemporanei, in cui,
come sottolinea l’autore, la
presenza delle donne non rappresenta
più un’eccezione, ma una triste
realtà, in una società in cui, a
prescindere dalle questioni di
genere, non riusciamo ancora a
considerare la guerra come
un’esecrabile “eccezione”.