N. 101 - Maggio 2016
(CXXXII)
la (in)visibilità delle donne nell’arte
Pittrici italiane tra '500 e '600
di Roberta Franchi
Cimabue,
Giotto,
Masaccio,
Botticelli,
Leonardo,
Michelangelo,
Raffaello
e
tutti
gli
altri.
Se
sfogliamo
i
libri
di
storia
dell’arte,
la
nostra
memoria
è
affollata
da
nomi
maschili,
a
cui
si
accompagna
la
presenza
di
un
uomo
con
pennello
e
cavalletto
intento
a
realizzare
un
quadro
o
una
scultura.
E le
donne?
Che
facevano?
Possibile
che
non
sapessero
dipingere
o
fossero
negate
per
la
scultura
e
gli
altri
“saperi”
del
bello?
In
effetti,
per
molti
secoli
restano
“invisibili”
fra
le
mura
di
casa
o di
un
convento,
dedite
alle
arti
minori
quali
il
ricamo,
la
tessitura,
la
miniatura.
Nel
Medioevo
non
possono
intraprendere
alcun
tipo
di
apprendistato
nelle
botteghe
d’arte
o
artigiane,
così
che
fino
al
Cinquecento
viene
repressa
ogni
loro
aspirazione
artistica.
È
improbabile
che
una
ragazza
possa
“andare
a
bottega”
vista
la
pericolosità
del
luogo:
riesce
a
Marietta
Tintoretto,
perché
suo
padre,
il
grande
Jacopo,
la
porta
con
sé,
spesso
vestita
prudentemente
con
abiti
da
maschietto.
Eppure,
più
di
una
sembra
esservi
riuscita
con
grande
capacità,
stando
a
Giorgio
Vasari:
“Gran
cosa
è
che
in
tutte
quelle
virtù
et
in
tutti
quegli
esercizii
ne’
quali,
in
qualunque
tempo
hanno
voluto
le
donne
intromettersi
con
qualche
studio,
siano
sempre
riuscite
eccellentissime
e
più
che
famose,
come
con
una
infinità
di
esempli
agevolmente
può
dimostrarsi
a
chi
non
lo
credesse”.
Così
Giorgio
Vasari
inizia
una
pagina
delle
sue
Vite
dei
più
eccellenti
architetti
pittori
et
scultori
da
Cimabue
infino
ai
nostri
giorni,
dedicata
alla
presentazione
della
scultrice
bolognese
Properzia
de’
Rossi
(1490-1530),
in
cui
annovera
anche
altre
donne
che
sono
state
o
sono
ancora
protagoniste
della
vita
artistica
del
tempo.
Il
grande
biografo
e
storico
aretino,
oltre
che
artista,
non
tralascia
di
descrivere
altri
aspetti
della
personalità
dell’artista,
che
“fu
del
corpo
bellissima”,
di
“capriccioso
e
destrissimo
ingegno”,
nonché
“innamoratissima
di
un
bel
giovane”
il
quale
però
“pare
che
poco
di
lei
si
curasse”,
come
se
per
le
donne
valessero
criteri
di
giudizio
diversi
da
quelli
dei
loro
colleghi,
e
come
se
le
loro
opere
–
insidiate
dalla
fragilità
e
dalla
debolezza
insite
nella
loro
natura
–
dovessero
essere
inquadrate
a
metà
strada
tra
la
componente
psicologica
e
quella
più
propriamente
artistica.
Scultrice
di
grande
successo,
Properzia
de’
Rossi
avrà
l’onore
di
poter
lavorare
nel
cantiere
del
Duomo
di
San
Petronio
e
sarà
ricordata
per
la
sua
abilità
nell’intagliare
scene
complesse
su
noccioli
di
ciliegia.
Le
sue
opere
più
importanti,
due
pannelli
in
marmo
a
rilievo
con
scene
testamentarie,
si
trovano
nella
Basilica
di
San
Petronio.
.
Properzia
de’
Rossi,
Giuseppe
e la
moglie
di
Potifarre,
1520.
Bologna,
Museo
di
San
Petronio.
Proprio
Bologna
sembra
essere
la
città
in
cui
vedono
la
luce
le
prime
affermazioni
artistiche
“al
femminile”.
Già
prima
di
Properzia,
si è
distinta
Caterina
de’
Vigri
(1413-1463),
educata
presso
la
corte
di
Ferrara,
uno
dei
centri
di
diffusione
del
pensiero
umanista.
Alla
morte
del
padre
nel
1427
decide
di
entrare
in
convento.
Oltre
a
dimostrare
le
sue
capacità
in
pittura,
si
distingue
nella
prosa
in
latino.
Ben
poco
si
conosce
della
sua
produzione,
nella
cui
figura
si
sovrappongono
due
modelli
femminili:
quello
medievale
della
badessa
colta,
che
si
prodiga
per
la
diffusione
della
cultura
nel
proprio
monastero,
e
quello
della
perfetta
dama
di
corte
rinascimentale,
che
ama
occuparsi
di
arte,
letteratura
e
musica.
Bologna
dà i
natali
anche
ad
un’altra
artista:
Lavinia
Fontana
(24
agosto
1552-11
agosto
1614).
Figlia
di
Prospero,
intraprende
la
carriera
nelle
chiese
locali
di
San
Giacomo
e di
San
Michele
in
Bosco.
Segnata
dal
gusto
del
suo
tempo,
dominato
dal
Manierismo,
si
specializza
nel
ritratto
singolo
e di
gruppo.
Allo
stile
di
derivazione
paterna,
con
influenze
sia
bolognesi
sia
dell’Italia
centrale,
Lavinia
sovrappone
interessi
naturalistici
e
finitezze
di
esecuzione
di
provenienza
sia
fiamminga
sia
cremonese.
Del
1584
è
L’Assunta
con
due
santi
(Imola,
Palazzo
Comunale),
la
sua
più
antica
opera
sacra
di
destinazione
pubblica,
genere
in
cui
acquisirà
una
notevole
fama,
testimoniata
dalla
commissione
del
1600
della
Visione
di
San
Giacinto
per
la
basilica
di
Santa
Sabina
a
Roma.
Coetanea
di
Lavinia
è la
ravennate
Barbara
Longhi,
figlia
del
pittore
Luca.
Barbara
è
così
lodata
dal
Vasari:
“Né
tacerò
che
disegna
molto
bene
e
che
ha
cominciato
a
colorare
alcune
cose
con
assai
buona
grazia
e
maniera”.
Molto
interessanti
sono
i
suoi
due
autoritratti
nella
veste
di
Santa
Caterina
d’Alessandria,
nei
quali
Barbara
si
identifica
con
la
figura
della
colta
santa,
proponendosi
come
nuovo
modello
di
donna
educata
secondo
i
dettami
di
Baldassarre
Castiglione.
Un
caso
straordinario
di
precocità
artistica
è
quello
di
Elisabetta
Sirani
che,
a
soli
17
anni,
è
già
considerata
un
maestro
in
grado
di
gestire
una
sua
Scuola
d’arte
per
fanciulle
in
cui
insegna
le
più
raffinate
tecniche
della
pittura
e
dell’incisione.
Nella
sua
breve
esistenza
produrrà
più
di
200
dipinti
e
verrà
apprezzata
nelle
maggiori
corti
europee
per
la
raffinatezza
e
l’intensità
espressiva
dei
suoi
quadri.
Ella
viene
descritta
dal
biografo
suo
contemporaneo,
Carlo
Cesare
Malvasia,
come
“la
gloria
del
genere
femminile,
la
gemma
d’Italia,
il
sole
d’Europa”.
Pupilla
di
Guido
Reni
amico
del
padre,
muore
a
soli
27
anni
di
ulcera
perforante
e
viene
sepolta,
insieme
al
maestro
Guido,
nella
Cappella
del
Rosario
nella
chiesa
di
San
Domenico
a
Bologna.
E in
Toscana,
culla
dell’arte
e
del
Rinascimento?
Si
afferma
Plautilla
Nelli
(Firenze
1523-1588).
Figlia
del
pittore
Luca
Nelli
entra
nel
convento
di
Santa
Caterina
da
Siena,
come
consuetudine
per
l’epoca,
all’età
di
14
anni,
e
qui
realizza
le
sue
opere
pittoriche,
tra
cui
l’affresco
L’ultima
cena.
Il
suo
stile,
solenne
e
quiete,
farà
da
riferimento
alle
generazioni
successive.
Non
dimentichiamo
che
la
prima
Accademia
del
Disegno
europea
sorge
a
Firenze
nel
1562:
la
prima
donna
a
entrarvi
è,
nel
1616,
Artemisia
Gentileschi,
figlia
del
pittore
Orazio
Lomi
(detto
Gentileschi),
precoce
esempio
di
artista
combattiva
e
indipendente,
anche
sul
piano
stilistico.
Ben
nota
è la
sua
vita,
caratterizzata
da
un
episodio
di
stupro.
Nel
1612
Roma
è
tutta
in
fermento
per
quanto
accaduto.
La
giovane
pittrice
Artemisia
Gentileschi
accusa
Agostino
Tassi,
pittore
amico
del
padre
e
suo
maestro,
di
averla
violentata.
Lei,
la
ragazzina,
che
fa
un
mestiere
riservato
agli
uomini,
orgogliosa,
impavida,
che
sa
di
non
avere
niente
da
guadagnare
da
questo
processo,
accusa
un
bell’uomo
di
circa
trent’anni,
valido
pittore
paesaggista.
Il
processo
si
trascina
per
mesi,
con
prove
e
controprove,
con
umilianti
verifiche
mediche,
ma
Artemisia
non
ritratta
e
alla
fine
i
giudici
le
danno
ragione.
Condannano
Tassi
a
scontare
qualche
anno
di
prigionia,
mentre
Artemisia
deve
abbandonare
Roma. La
tela
che
raffigura Giuditta
che
decapita
Oloferne
(1612-1613),
conservata
al
Museo
Nazionale
di
Capodimonte,
suggestiva
per
la
violenza
della
scena
tratteggiata,
è
stata
interpretata
in
chiave
psicologica
e
psicoanalitica,
come
desiderio
di
rivalsa
rispetto
alla
violenza
subita.
.
Artemisia
Gentileschi,
Giuditta
che
decapita
Oloferne,
1612-13.
Napoli,
Museo
Nazionale
di
Capodimonte.
Dopo
la
conclusione
del
processo,
Orazio
combina
per
Artemisia
un
matrimonio
con
Pierantonio
Stiattesi,
modesto
artista
fiorentino,
che
serve
a
restituire
ad
Artemisia,
violentata,
ingannata
e
denigrata
dal
Tassi,
uno
status
di
sufficiente
onorabilità. La
donna
si
reca
in
Toscana.
Artemisia
è
una
brava
pittrice,
è
bella
e
questo
le
procura
una
schiera
di
ammiratori,
tra
i
quali
vi è
anche
Michelangelo
Buonarroti
il
Giovane,
nipote
del
grande
Michelangelo.
Pierantonio
Stiattesi
guarda
di
buon
occhio
l’ascesa
di
Artemisia,
è
felice
di
quel
denaro
che
la
moglie
riesce
a
guadagnare
vendendo
le
sue
opere
al
bel
mondo
fiorentino.
Artemisia
è
ricevuta
a
Palazzo
Pitti:
è
una
pittrice
che
non
dipinge
per
diletto,
ma
per
vendere
le
proprie
opere,
quelle
opere
così
feroci
e
violente,
vere
opere
d’arte.
Dopo
Firenze,
Roma,
Venezia
e
Napoli
saranno
le
città
in
cui
la
donna,
ormai
pittrice
famosa
e
stimata,
troverà
dimora.
Morirà
a
Napoli
nel
1653.
Artemisia,
pittrice
caravaggesca
che
si
ispira
alla
gente
della
strada,
che
nelle
sue
eroine
bibliche
incrina
quelle
donne
che
si
sono
battute
contro
la
violenza
degli
uomini,
ha
lasciato
un
autoritratto
in
veste
della
Pittura,
con
al
collo
un
ciondolo
a
forma
di
maschera
che
simboleggia
l’imitazione
dal
vero,
una
sciarpa
che
rappresenta
la
perizia
tecnica
del
pittore,
e i
capelli
sulla
fronte
che
esprimono
la
febbre
dell’artista.
Al
raggiungimento
del
successo
professionale
corrisponde
una
nuova
immagine
dell’artista,
fiera
del
proprio
ruolo
di
pictrix
laureata.
.
Autoritratto
come
allegoria
della
Pittura,
1638-39.
Windsor,
Royal
Collection.
Alla
fine
del
Cinquecento
si
colloca
anche
l’attività
di
Fede
Galizia
(Milano
o
Trento
1578-1630),
che
compie
il
suo
apprendistato
nella
bottega
del
padre,
il
pittore
e
miniaturista
Nunzio
Galizia.
La
sua
prima
attività
è
costituita
da
ritratti
e
copie,
come
nel
Ritratto
di
Paolo
Moriglia
(Pinacoteca
Ambrosiana
di
Milano).
Il
carattere
lombardo
che
traspare
nel
ritratto
citato,
nell’ambito
di
Lorenzo
Lotto
e
del
Moroni
e
della
cultura
cremonese,
riemerge
nella
produzione
di
alzate
con
frutta
e
fiori,
dove
la
minuzia
fiamminga
si
mescola
alle
nitide
volumetrie
di
tradizione
italiana.
A
Cremona
operano
invece
le
sorelle
Sofonisba,
Lucia,
Lavinia
ed
Europa
Anguissola.
In
particolare,
Sofonisba
(Cremona
1531
o
1532-Palermo
1625)
acquista
grande
fama
di
ritrattista
nelle
terre
di
dominio
spagnolo,
dove
rimane
dal
1559
fino
al
1580.
Il
naturalismo
di
alcuni
suoi
temi,
come
il
disegno
del
Bambino
punto
da
un
granchio
(Napoli,
Capodimonte),
è
stato
addirittura
messo
in
rapporto
con
la
cultura
del
giovane
Caravaggio.
In
ambito
cremonese
si
svilupperà
l’attività
artistica
di
Margherita
Caffi
(Cremona
1650-Milano
1710),
che
avrà
tra
i
propri
committenti
le
principali
casate
italiane.
Margherita
contribuirà
all’affermazione
di
un
nuovo
genere:
le
ghirlande
di
fiori,
in
mezzo
alle
quali
inserisce
volti,
animali,
fontane
o
vasi.
Altre
donne
si
dedicheranno
alla
natura
morta:
si
pensi
alla
veneta
Elisabetta
Marchioni,
spesso
confusa
con
la
stessa
Caffi
e
conosciuta
per
composizioni
floreali
in
vasi
di
coccio
o
metallo
collocati
davanti
a
scorci
di
paesaggio.
“Arte
a
parte”
è la
formula
spesso
usata
nella
storia
dell’arte
nei
confronti
delle
donne
artiste:
per
non
parlarne,
per
dire
che
non
c’erano
o,
se
c’erano,
erano
appunto
a
parte,
di
secondo
piano.
Come
possiamo
ben
vedere,
le
donne
invece
non
sono
state
semplici
muse
ispiratrici,
inerti
modelle
per
opere
di
grandi
maestri,
ma
signore
del
pennello,
vere
artiste,
che
con
grande
capacità
e
coraggio
hanno
vinto
i
pregiudizi
verso
il
loro
sesso,
hanno
osato
mettere
a
frutto
il
proprio
talento,
percorrendo
la
strada
del
successo,
e
alla
fine
hanno
vinto:
dopo
“secoli
di
buio”
è
fiorito
senza
conoscere
battuta
d’arresto
il
“periodo
rosa”.