N. 82 - Ottobre 2014
(CXIII)
Tra
Maria
ed
EvA
La
donna
nel
Medioevo
-
PARTE
II
di
Francesco
Carbonaro
Come
San
Tommaso
aveva
prospettato
in
un
passo
della
sua
“Summa
Theologica”,
la
donna
doveva
essere
aiutante
del
marito
soprattutto
nella
procreazione,
che
era
considerata
l’apice
della
vita
coniugale
e
non
solo;
una
vita
senza
eredi
è
una
vita
senza
frutto,
considerata
un
fallimento
per
l’uomo
anzi,
molte
volte,
l’infertilità
era
considerata
una
punizione
divina
per
qualche
atto
compiuto
e
spesso,
senza
prove,
era
la
donna
ad
essere
imputata
di
tale
misfatto,
dando
così
motivo
per
un
possibile
divorzio;
un
uomo
senza
prole
è un
uomo
incompleto,
che
non
è
riuscito
a
lasciare
un’impronta
nella
storia;
era
precipuo
compito
della
donna
far
si
che
questo
avvenisse
ed
era
suo
dovere
partecipare
all’educazione,
anche
culturale,
del
figlio
qualora
essa
ne
fosse
in
grado.
Nell’alta
società
medievale
la
concezione
di
lavoro
femminile
era
inserita
nella
riflessione
stessa
sulla
donna,
dato
che
una
buona
moglie
non
poteva
esimersi
dalle
attività
quali
la
filatura
e la
tessitura,
considerate
indivisibili
dall’ontologia
femminile;
il
lavoro
“umile”
era
estraneo
alle
componenti
delle
famiglie
“patrizie”,
mentre
non
lo
era
più
di
tanto
dall’ideologia
popolare.
“Il
lavoro
femminile
contribuì
in
larga
misura
allo
sviluppo
economico
delle
città
medievali”;
anche
se
tale
affermazione
può
essere
stridente
con
l’ideologia
maschilista
del
Medioevo,
tuttavia
ha
un
fondo
di
verità.
In
campo
agricolo
non
era
raro
trovare,
tra
i
ceti
rurali,
donne
che
aiutavano
i
mariti
occupandosi
di
attività
per
le
quali
non
era
indispensabile
la
forza
mascolina;
spesso
in
casi
di
vedovanza
erano
loro
a
creare
una
base
economica
per
i
figli.
Spesso
vendeva
la
propria
forza
lavoro,
si
occupava
del
bestiame,
della
produzione
casearia
e
più
in
generale
di
prodotti
alimentari
specifici
della
regione
in
cui
abitavano.
Nel
tessuto
urbano
le
donne
potevano
essere
le
protagoniste
del
commercio
e
potevano
organizzarsi
in
vere
e
proprie
gilde,
avendo,
molte
di
loro,
un
buon
sostrato
culturale.
In
ottica
familiare
la
donna
poteva
specializzarsi
nella
vendita
al
dettaglio,
mentre
il
marito
viaggiava
alla
ricerca
di
affari,
doveva
portare
avanti
l’azienda
e
“scontrarsi”
con
il
cliente.
Oltre
al
settore
agricolo
e
commerciale,
la
donna
trova
un
discreto
spazio
all’interno
di
quello
artigianale,
vendendo
parte
dei
manufatti
creati
grazie
all’apprendimento
delle
tecniche
specifiche.
Non
era
così
raro
vedere
donne
mettere
sul
mercato
i
filati
da
loro
stesse
realizzati,
per
arrotondare
gli
introiti
familiari
o
perché
unica
fonte
di
reddito.
A
occupazioni
di
siffatto
genere,
se
ne
accostavano
altre
più
vicine
alla
sfera
“femminile”
come
l’esercizio
di
ostetricia
e di
ginecologia
o di
balia,
figura
indispensabile
per
il
mondo
nobiliare
che
faceva
forte
affidamento
su
questa
persona
affidandole
i
propri
figli,
i
quali
intessevano
rapporti
affettivi
molto
forti
con
queste
“madri
surrogate”.
Una
via
alternativa
a
queste
attività
era
la
monacazione,
strada
perseguita
da
ragazze
“non
adatte
al
matrimonio”
e
cioè
quelle
portatrici
di
qualche
deficienza
mentale
o
fisica,
oppure
chi
sentiva
un’intima
vocazione
e
voleva
consacrare
la
propria
vita
a
Dio.
A
volte
le
bambine
(spesso
le
orfane)
trascorrevano
parte
dell’infanzia
all’interno
di
monasteri,
dove
seguivano
un
iter
formativo
al
termine
del
quale
avrebbero
deciso
se
restare
e
offrirsi
alla
preghiera,
oppure
abbracciare
la
vita
mondana;
proprio
tra
le
consorelle,
le
ragazze
apprendevano
i
primi
rudimenti
d’istruzione,
naturalmente
basati
sulle
Sacre
Scritture.
Le
novizie
non
potevano
allontanarsi
dal
monastero
se
non
accompagnati
da
una
superiora,
e
inoltre
era
proibito
l’ingresso
agli
uomini
a
meno
che
essi
non
fossero
stati
dei
familiari
della
ragazza
o
ministri
di
Dio,
dato
che
il
sacerdozio
fu
sempre
precluso
alla
donna.
All’interno
di
conventi,
monasteri
o
abazie,
potevano
trovare
rifugio
anche
i
bisognosi
e
coloro
i
quali
non
trovavano
più
stimoli
nella
vita
del
mondo
e
decidevano
di
isolarsi
nella
preghiera;
tra
questi
ultimi
numerose
sono
le
donne
che,
perso
il
marito,
si
ritiravano
in
una
cella
per
offrire
gli
ultimi
giorni
a
Dio.
Il
tasso
di
mortalità,
per
tutto
il
Medioevo,
si
attestò
a
livelli
molto
alti;
in
particolare
nelle
azioni
belliche,
trovavano
la
morte
moltissimi
uomini
che
lasciavano
a
casa
le
proprie
donne,
le
quali
potevano
ritrovarsi
senza
più
un
marito
con
una
famiglia
da
portare
avanti.
Erano
le
vedove
che,
alla
morte
del
coniuge,
avrebbero
dovuto
compiere
alcune
scelte
importanti;
come
già
abbiamo,
più
volte,
sottolineato
era
la
volontà
della
famiglia
natia,
qualora
fosse
in
vita,
a
esercitare
una
forte
autorità
sulla
donna
tornata
sotto
la
tutela
paterna,
la
quale
avrebbe
preso
le
decisioni
future
a
seconda
del
ceto
al
quale
appartenevano.
Tuttavia,
c’è
da
rilevare
una
profonda
cesura
che
differenziava
la
vedova
dalla
vergine;
era
infatti
possibile
per
la
donna
di
alto
lignaggio,
rimasta
sola,
avere
una
maggiore
libertà
soprattutto
nella
scelta
del
nuovo
marito.
La
tradizione
prevedeva
che
si
risposasse,
dato
che
una
donna
non
poteva
rimanere
senza
protezione;
avrebbe
dovuto
scegliere
un
uomo
al
quale
avrebbe
consegnato
anche
parte
dei
propri
averi.
Questo
è un
caso
che
ci
interessa
da
vicino
dato
che
Adelasia
del
Vasto,
dopo
la
morte
del
marito
Ruggero
I,
si
unì
al
re
di
Gerusalemme,
portando
con
sé
una
notevole
quantità
di
ricchezze.
Negli
strati
più
bassi
della
società
la
donna,
per
delle
costrizioni
sociali,
doveva
congiungersi
quasi
subito
con
un
uomo,
al
quale
avrebbe
affidato
i
frutti
del
precedente
matrimonio;
tale
immediatezza
era
dovuta
alla
concezione
di
minorità
nella
quale
si
trovava
una
donna
senza
un
uomo.
Claudia
Opitz
riporta
una
legge
delle
corporazioni
la
quale
prevedeva
che
“le
aziende
prive
di
uomini
fossero
al
più
presto
integrate
con
il
primo
lavorante
che
capitava”.
Altra
via
d’uscita
era
il
monastero
dove
le
donne
nobili
si
ritiravano,
spesso
ricevendo
una
dispensa
per
portare
con
sé
parte
del
seguito
al
quale
avevano
ormai
fatto
un’abitudine
difficile
da
recidere.
D’altronde
il
ruolo
della
religione
all’interno
della
vita
di
una
donna
era
molto
forte;
sono
del
periodo
medievale,
un
gran
numero
di
sante
mistiche
oltre
che
un
copioso
numero
di
figure
contenute
nell’agiografia,
tra
le
quali
ricordiamo
l’esempio
di
Santa
Maria
di
Bizye,
la
quale
si
recava
a
messa
ogni
giorno,
qualsiasi
condizione
climatica
ci
fosse,
anche
se
ciò
avesse
dovuto
significare
attraversare
fiumi.
Donne
che,
rimaste
sole,
si
rimboccavano
le
maniche
per
portare
avanti
la
casa,
donne
che,
rimaste
vedove,
si
ritiravano
nei
monasteri,
donne
che,
rimaste
senza
marito,
si
risposavano
perché
non
potevano
colmare
“il
fatto
di
essere
donna”,
donne
che
rimanevano
ai
margini
della
società,
non
varcando
il
limite
che
l’uomo
poneva;
alcune
di
esse
però
attraversarono
questo
confine,
facendo
leva
sulle
proprie
forze,
arrivarono
ad
un
grado
di
conoscenza
proibito
per
loro,
ergendosi
a
modelli
culturali
per
le
loro
contemporanee.
“Alle
donne
non
bisogna
insegnare
né a
leggere
né a
scrivere”;
basterebbero
queste
parole
di
Filippo
da
Novara
per
suggerire
il
clima
culturale
che
era
riservato
alle
donne.
Per
molto
tempo,
infatti,
le
donne
furono
tenute
lontane
da
qualsiasi
fonte
di
conoscenza
e
ciò
lo
abbiamo
visto
a
proposito
dell’infanzia
femminile,
età
nella
quale
le
bambine
erano
indirizzate
a
tutt’altro,
proprio
per
evitare
che
il
loro
cervello
potesse
pensare.
Le
riflessioni
di
una
donna
potevano
essere
pericolose,
quindi
era
meglio
sopirle.
Nonostante
questi
pregiudizi,
abbiamo
diversi
esempi
femminili
che
in
epoca
medievale
si
avvicinano
al
mondo
della
cultura;
la
stragrande
maggioranza
di
questi
si
riduce
a
due
categorie
di
donne
che,
per
la
loro
specifica
collocazione,
potevano
addentrarsi
nel
campo
dell’erudizione.
Mi
riferisco
a un
certo
numero
di
donne
altolocate
e
alle
serve
di
Dio
che
nel
silenzio
del
monastero
e al
riparo
dall’occhio
maschile,
ispirandosi
alle
Sacre
Scritture
e a
testi
agiografici
a
loro
coevi,
studiarono
e
scrissero
opere
di
edificazione
spirituale.
Cominciamo
dal
principio
e
chiediamoci
quando
e
come
le
ragazze
s’istruivano;
dato
per
assodato
la
componente
economica
che
permetteva
alla
famiglia
di
impiegare
del
denaro
per
l’istruzione
della
figlia,
dobbiamo
presupporre
che
ci
fosse
il
consenso
dei
genitori
e
più
in
particolare
del
padre.
Qualora
una
delle
due
condizioni
mancasse,
era
difficile
che
la
donna
portasse
a
termine
il
proprio
iter
culturale;
se
invece
tali
condizioni
non
venivano
meno,
allora
la
bambina,
a
un’età
variabile,
cominciava
a
prendere
lezioni
in
casa,
dalla
madre
o da
una
figura
interna
alla
vita
familiare.
Poi
avrebbe
seguito
un
corso
primario,
dove
avrebbe
appreso
a
scrivere
a
leggere
e a
far
di
conto;
questa
istruzione
elementare
a
Bisanzio
era
tenuta
da
un
grammathistes.
Nella
maggioranza
dei
casi
l’istruzione
si
fermava
qui,
dato
che
l’insegnamento
universitario
era
precluso
alla
componente
femminile;
allora
spettava
alla
fanciulla
istruirsi
da
autodidatta,
qualora
ci
fossero
state
le
condizioni.
Una
donna
“dotta”
non
era
un
partito
appetibile,
anzi
molti
uomini
rifuggivano
da
una
moglie
di
tal
fatta;
in
altri
casi,
ma
erano
la
minoranza,
il
marito
apprezzò
le
doti
della
moglie
e le
assecondò,
come
a
quanto
pare
fece
Niceforo
Briennio,
marito
di
Anna
Comnena,
raffinata
autrice
dell’Alessiade.
Donne
intellettuali
per
professione
erano
molto
poche,
ma
non
possiamo
dimenticare
la
presenza
di
un
movimento,
discretamente
diffuso,
come
quello
delle
trobairitz,
cioè
delle
troviere,
che
per
buona
parte
del
Medioevo
comporranno
poesie;
non
possiamo
dimenticarci
dei
lais
di
Maria
di
Francia,
così
come
non
si
può
non
menzionare
Christine
de
Pizan,
la
quale
a
cavallo
tra
il
XIV
e il
XV
secolo
s’impose
come
figura
di
spicco.
Tutte
queste
donne,
in
un
modo
o
nell’altro,
dovettero
fare
i
conti
con
l’epoca
nella
quale
vivevano
ed
erano
perfettamente
coscienti
del
proprio
stato
di
“minorità”,
che
traspare
da
una
sentita
inadeguatezza
che
percorre
molti
loro
versi;
“osare
io
donna”,
dice
Christine
de
Pizan,
consapevole
delle
sue
impossibilità
e
incarnando
un
sentimento
d’umiltà
radicale
di
fronte
allo
strapotere
maschile.
“Quid
igitur
indocta,
rudis,
inexpertaque
puella
faciam?”
si
chiede
una
donna
che
anela
a un
grado
di
conoscenza
maggiore
di
quello
che
il
suo
rango
le
permette.
Questo
sentimento
d’inettitudine
colorerà
l’orizzonte
femminile
sino
a
Medioevo
inoltrato,
ma
nonostante
le
avversità
la
donna
cercherà,
con
la
sua
più
intima
curiosità,
di
carpire
i
segreti
della
vita.
Riferimenti
bibliografici
Duby
Georges,
Perrot
Michelle,
Storia
delle
donne
– Il
Medioevo,
Bari
1994.
Klapisch
–
Zuber
Christiane,
La
donna
e la
famiglia
in
“L’uomo
medievale”
a
cura
di
Jacques
Le
Goff,
Bari
1993,
pp.
321
-
349.
Spedalieri
Francesco,
Maria
nella
scrittura”,
Palermo
1961.
Talbot
Alice-Mary,
La
donna
in
“L’uomo
bizantino”
a
cura
di
G.
Cavallo,
Bari
1992,
pp.
167
–
207.
Urso
Carmelina,
Tra
essere
e
apparire.
Il
corpo
femminile
nel
mondo
medievale,
Catania
2005.
Urso
Carmelina,
Buone
madri
e
madri
crudeli
nel
Medioevo,
Catania
2008.
Warner
Marina,
Sola
fra
le
donne
-
Mito
e
culto
di
Maria
Vergine,
Palermo
1980.