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N. 81 - Settembre 2014 (CXII)

Tra Maria ed EvA
La donna nel Medioevo - PARTE I

di Francesco Carbonaro

 

Per una società profondamente intrisa di sentimento religioso come quella medievale, i modelli ai quali aspirare non potevano essere estranei alla sfera devozionale.

 

Questo vale anche per la figura femminile, la quale si vede scissa, nell’immaginario comune, tra due prototipi appartenenti alle Sacre Scritture; da una parte ci sarà la Vergine Maria e dall’altra Eva la tentatrice.

 

Il motivo di tale dicotomica visione è da rintracciare nel modo di pensare e vedere queste figure, in sintonia con la donna; da una parte c’è, infatti, la madre di Dio (la Theotòkos), emblema di moglie e madre fedele, dall’altra c’è Eva simbolo del peccato originale; “madre di tutti i viventi” la prima, “madre di tutti i morenti” la seconda, come sono definite da Pietro Crisologo.

 

Decodificando questa simbologia, la donna, per poter essere oggetto di ammirazione, deve vivere imitando il modello mariano, nella verginità, qualora decida di consacrarsi totalmente a Dio, nella continenza e nell’obbedienza ai doveri coniugali assurgendo a buona moglie, se contrarrà matrimonio.

 

Coloro le quali si tenevano lontane da questi precetti erano le prostitute considerate peccatrici ed emblema di lussuria; costoro, tuttavia, potevano redimersi attingendo a un modello alternativo, come quello della Maddalena, la pecorella smarrita tornata in grazia di Dio, dopo un periodo di penitenza, così come aveva fatto Santa Maria Egiziaca la quale, oltre il Giordano, aveva redento la propria anima.

 

Tra Maria ed Eva, dunque, la donna costruirà la sua storia, facendo i conti con un ineludibile stato d’inferiorità conferitole dall’autorità dell’uomo, il quale condizionerà tutti i momenti della sua vita, a cominciare dall’infanzia.

 

La bambina, qualora fosse sopravvissuta alla nascita, sarebbe stata una “preda” e a secondo del livello sociale d’appartenenza, poteva creare non pochi problemi, dato che, per le classi inferiori, si sottraevano braccia al lavoro pesante, poco adatto alle donne, e per i ceti medio – superiori avere una figlia significava doverle creare una dote che avrebbe intaccato il patrimonio.

 

Per motivi affini a questi, non era particolarmente raro ricorrere, soprattutto tra le classi meno abbienti, all’infanticidio, anche se non abbiamo dati sicuri su questa pratica, mentre sappiamo di più sugli abbandoni che, per tutto il periodo medievale, alimenteranno una massa di trovatelli d’ingenti proporzioni, alla quale daranno assistenza le opere pie e la chiesa più in generale.

 

La donna, come un campo da seminare, era esplicitamente indirizzata alla procreazione, dato che per tutto il resto era sottomessa all’uomo in ogni aspetto.

 

Una volta nata, comunque, la bambina, come i maschi, doveva fare i conti con l’elevatissimo tasso di mortalità, che all’epoca mieteva migliaia di morti a causa delle scarse condizioni igieniche. Supponendo che ella raggiungesse i sette anni, cosa doveva aspettarsi, come veniva trattata e soprattutto a cosa era destinata?

 

Il tempo dell’infanzia, per i bambini, era particolarmente ridotto; sicuramente c’era una differenza dell’iter pedagogico che variava in base al sesso e alla classe sociale. I ragazzi nati in una famiglia povera erano subito indirizzati ai lavori agricoli o artigianali, mentre quelli appartenenti ai ceti più elevati erano avviati alle attività guerriere o ecclesiastiche, in base al grado di primogenitura; le bambine invece, imparavano presto a filare e a cucire, considerate componenti indispensabili e comuni a tutte le classi, anche perché garantivano che le menti delle ragazze restassero impegnate e non vagassero in “luoghi inaccessibili”.

 

Se gli studi erano considerati un’attività d’elite per i maschi, essi erano quasi totalmente preclusi alla sfera femminile, la quale contemplava, nei casi migliori, la sola capacità di leggere e scrivere.

 

Spesso tale apprendimento di base, si eseguiva sui testi religiosi, sul Salterio prima di tutti; dalle Sacre Scritture, le bambine dovevano attingere l’esempio delle Sante donne, della Vergine in primo luogo. D’altronde la verginità era un valore insostituibile in vista della salvezza e costituiva una qualità fondamentale ai fini del matrimonio.

 

Nei valori della purezza, dell’onore e della virtù, s’intersecano una componente religiosa e una sociale, quest’ultima intesa come un indispensabile requisito per il matrimonio. Proprio in vista delle nozze, le bambine anche di età piccola, potevano essere consegnate alla famiglia dello sposo, presso la quale avrebbero trascorso gli ultimi anni della loro innocenza, fino a che non sarebbe stato possibile consumare il matrimonio.

 

Certo può sorprendere la mancanza d’affetto dei genitori nei confronti dei figli, ma è necessario osservare l’intero panorama per comprendere il perché di tali scelte, le quali dipendevano dalla condizione della famiglia, che spesso era costretta a “sbarazzarsi” della figlia, per assicurare un futuro a lei e a loro.

 

Così, dunque, si può vedere che in fondo, l’infanzia per una bambina, in realtà non esisteva o almeno essa era considerata di preludio al matrimonio, momento massimo e finale della donna.

 

Il matrimonio è il momento culminante per la vita di una donna, il punto verso cui tende la sua esistenza, dato che è nelle nozze, la realizzazione della sua “funzionalità” ovvero quella di procreare.

 

Le unioni che si celebravano, tuttavia, erano condizionate da una serie di contingenze che derivavano, ancora una volta, dalla situazione familiare. Con buona approssimazione, il matrimonio celebrato, quasi mai, era condito da vero amore, ma in esso convergevano tutta una serie di calcoli che vedevano nel fine economico la loro realizzazione.

 

Tra i ceti più importanti, il matrimonio univa non solo i due coniugi, ma anche due famiglie con i rispettivi patrimoni; in buona parte dei casi, già prima di vedere la luce, c’erano dei “contratti” che legavano i nascituri a un’altra famiglia, e d’altronde lo abbiamo già accennato prima, il fatto che in tenerissima età, le bambine lasciavano la casa paterna per trasferirsi nella dimora del futuro sposo o in un convento a essa vicina. In tal modo si preservava la verginità e, senza ulteriori perdite di tempo, si sarebbero potute celebrare le nozze non appena la natura avesse fatto il suo corso.

 

Nei secoli del basso Medioevo, il diritto canonico cercò di porre delle basi per evitare che le bambine potessero essere date in spose in un’età troppo precoce e subire delle lesioni permanenti. Nell’XI secolo Ivo di Chartres pensava che il matrimonio potesse essere “stipulato” già all’età di sette anni, in modo da sfruttare al massimo il periodo di fertilità e ovviare così all’altissimo tasso di mortalità infantile, dovuto alle scarse condizioni igieniche.

 

La stipulazione del contratto di matrimonio partiva dunque, da operazioni di natura finanziaria che avvicinavano le nozze a reali contrattazioni; siamo in possesso di alcuni atti di sponsalicium, tra i quali citiamo quelli presso la città di Mâcon, dove alcune famiglie hanno posto per iscritto i termini del “contratto”.

 

La moglie, ma dietro di lei si celava la famiglia, portava la dote che sarebbe stata gestita dal marito, il quale ricambiava con un dono prenuziale (arra sponsalicia), che serviva per metterlo “al riparo”; infatti, qualora il fidanzamento fosse stato rotto dalla donna, la famiglia della sposa gli avrebbe dovuto restituire il dono aggiungendo una somma pari al suo valore.

 

La gestione di questi beni, che potevano essere possedimenti o denaro liquido, era gestita dalla coppia, cioè dal marito alla cui morte, qualora gli fosse sopravvissuta la moglie, tutto era rimesso in discussione se la coppia non avesse generato figli i quali, altrimenti, avrebbero ereditato tutto. Nella coppia, e questo lo vedremo ampiamente in seguito, è l’uomo, che come dice ancora Ivo di Chartres, deve domare la donna “come l’anima doma il corpo e l’uomo doma l’animale”.

 

Il matrimonio era un sacramento e in quanto tale, doveva essere celebrato da un sacerdote; può tuttavia stupire che non sempre questo accadeva. La celebrazione presieduta dal prete divenne una condizione indispensabile solo dopo la metà del XVI secolo; spesso anche solo la convivenza poteva fare “scattare” il matrimonio.

 

In linea con il pensiero religioso, il matrimonio era indissolubile tuttavia, per far fronte ai casi specifici, la chiesa istituì tribunali speciali per esaminare i casi singoli; in particolare erano annullate le unioni, in cui si poteva appurare una costrizione da parte della famiglia nei confronti dei figli.

 

Una volta celebrate le nozze, era dovere della donna agire in completa sintonia con i modelli biblici, incarnati dalla figura di Sara, in conformità al modello mariano, figura insuperabile di madre e moglie.

 

I compiti della donna, come ci suggerisce Silvana Vecchio, possono essere riassunti in cinque punti ricavati dal libro di Tobia: onorare i suoceri, amare il marito, reggere la famiglia, governare la casa e mostrarsi irreprensibile.

 

Da questi parallelismi, è possibile rintracciare una componente cristiana molto forte che, come ha dimostrato Duby, andrà rafforzandosi col tempo, poggiandosi su “ordinamenti di valore teologico – ecclesiastici”.

 

Partendo dai presupposti affermati si può costatare che, nell’effettiva realtà delle cose, mancava libertà di scelta da parte della donna, soprattutto se essa apparteneva a un ceto medio – alto, doveva acconsentire a qualsiasi unione la famiglia predisponesse per lei.

 

Claudia Opitz riporta l’esempio di Chiara d’Assisi la quale, aiutata da Dio, sfugge al matrimonio che la famiglia aveva combinato per lei. Fino al concilio di Trento (1546 - 1563) i matrimoni contratti contro la volontà dei genitori non erano ritenuti validi e il padre poteva diseredare i figli che si opponevano al suo piano; per le classi inferiori il discorso era leggermente diverso dato che era contemplata una maggiore libertà nella scelta del coniuge, derivante dal fatto che non c’erano in gioco ingenti volumi d’affari.

 

La casistica matrimoniale ci offre un quadro particolarmente variegato all’interno del quale è difficile trovare una dinamica comune; spesso l’età dei coniugi era particolarmente distante, cosa che creava non pochi problemi nei rapporti coniugali; non era raro trovare, all’interno delle dinamiche familiari, la figura del marito violento che picchiava la moglie anche per futili motivi.

 

La disobbedienza femminile non era contemplata, come abbiamo visto già nel libro di Tobia, e la violenza era considerata il modo migliore per ridurre la donna a una condizione di semischiavitù.

 

Poche, dunque, le sfere d’influenza della donna ma tra queste era sicuramente inglobato l’ambiente domestico; all’interno delle mura della propria casa, era la donna che doveva governare, in particolar modo quelle di alto rango che, circondate da un codazzo di serve e servitori, dovevano reggere le redini dell’economia domestica.

 

In qualità di mater familias, la donna deve supplire all’assenza del marito, molte volte distante per motivi lavorativi o bellici, e in qualità di reggente doveva anche gestire le entrate e le uscite economiche della casa, in modo tale che il marito, al suo ritorno, non avesse dovuto fare i conti con l’incuria e poter portare avanti i suoi progetti.

 

Proprio per questo motivo, tutto doveva svolgersi entro le direttive che il coniuge aveva lasciato; maggiore libertà era riconosciuta alle donne sposate con uomini più modesti, le quali dovevano tutelare e, se possibile, incrementare le entrate economiche con qualsiasi mezzo.



 

 

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