N. 107 - Novembre 2016
(CXXXVIII)
the
donald
trump
show
La
vittoria
Della
maggioranza
silenziosa
di
Gian
Marco
Boellisi
Inaspettato,
ma
prevedibile.
Questa
breve
perifrasi
esprime
in
poche
parole
l’esito
delle
elezioni
presidenziali
americane
tenutesi
lo
scorso
8
Novembre
2016.
Elezioni
che
passeranno
di
certo
alla
storia,
per
i
toni
da
talk
show
di
terza
categoria,
indegni
di
una
competizione
politica
tanto
importante,
per
due
candidati
che
si
sono
rivelati
uno
peggio
dell’altro,
per
programmi
politici
sfacciatamente
populisti
da
un
lato
o
che
non
hanno
avuto
il
coraggio
di
andare
avanti
dall’altro,
ma
soprattutto
per
aver
spaccato
il
paese
su
due
fronti
talmente
inconciliabili
che
difficilmente
vedremo
uniti
nei
prossimi
quattro
anni.
Cerchiamo
ora
di
capire
perché
Donald
J.
Trump
è
diventato
il
quarantacinquesimo
presidente
degli
Stati
Uniti
d’America.
Partiamo
dall’antefatto,
ovvero
la
campagna
elettorale.
Abbiamo
visto
davvero
di
tutto:
insulti,
faccia
a
faccia
televisivi
senza
esclusione
di
colpi,
tanto
che
il
match
tra
Muhammad
Alì
e
George
Foreman
a
Kinshasa
a
confronto
sembra
una
scazzottata
tra
ragazzini,
scandali
sessuali,
indagini
federali.
Non
si
era
mai
vista,
almeno
nel
passato
recente,
una
competizione
elettorale
talmente
aspra
e
meschina.
I
due
candidati
hanno
iniziato
a
sudare
già
agli
albori
della
campagna,
quando
si
svolgevano
ancora
le
primarie
interne
al
partito.
Una
volta
entrati
nel
vivo
dello
scontro
diretto,
non
è
stato
concesso
alcun
quartiere
da
entrambe
le
parti.
Ogni
giorno
a
partire
da
quest’estate
si è
assistito
sempre
più
ad
un’esacerbante
dimostrazione
di
quanto
anche
la
politica
americana,
ai
nostri
occhi
europei
tanto
immacolata,
possa
raggiungere
livelli
bassi.
Gli
scandali
non
sono
mancati
da
entrambi
i
lati,
passando
dalle
molestie
e
affermazioni
del
candidato
repubblicano
nei
confronti
delle
donne
allo
scandalo
delle
mail
ma
soprattutto
alla
mancanza
di
trasparenza
della
candidata
democratica,
anche
in
riferimento
alla
propria
salute.
I
sondaggi,
influenzati
sia
dallo
scandalo
del
momento
sia
anche
da
una
certa
presa
di
posizione
netta
per
uno
dei
due
candidati,
sono
risultati
essere
estremamente
altalenanti,
non
rispecchiando
sempre
la
vera
anima
dell’elettorato
statunitense.
Ne
abbiamo
avuto
la
prova
durante
l’Election
Day.
Si
possono
contare
sulle
dita
di
una
mano
probabilmente
gli
analisti
o le
testate
che
hanno
avuto
un
presentimento
corretto
sull’esito
della
consultazione.
Non
uno
dei
maggiori
quotidiani
ha
dato
Donald
Trump
vincente.
Tutti
si
sono
accorti
di
aver
commesso
un
errore
madornale
nelle
valutazioni
solo
quando
era
già
troppo
tardi.
E
allora
come
mai
un
uomo
considerato
un
grande
approfittatore,
irrispettoso
delle
minoranze
e
con
tratti
xenofobi
è
riuscito
a
conquistare
la
più
importante
poltrona
sul
globo?
Il
programma
politico
di
Trump
è di
ispirazione
profondamente
protezionista.
Egli
ha
sostenuto
sin
dal
principio
di
voler
riportare
il
lavoro
ed
il
benessere
a
tutti
gli
americani
che
soffrono
ancora
della
crisi
del
2008,
anche
trascurando
l’agenda
estera,
di
condurre
una
ferrea
lotta
contro
l’immigrazione
clandestina,
la
quale
porterebbe
via
l’impiego
ed
il
futuro
ai
giovani
americani,
e di
voler
rivedere
il
programma
sui
cambiamenti
climatici,
poiché
le
sue
restrizioni
limiterebbero
il
grande
potenziale
dell’industria
americana.
Fin
qui
potremmo
considerarlo
un
programma
per
gran
parte
in
linea
con
il
partito
repubblicano
degli
ultimi
quindici
anni.
Tuttavia
il
candidato
non
si è
limitato
solo
a
questo.
Ha
continuamente
avvelenato
la
propria
oratoria
ed
il
proprio
programma
con
affermazioni
inammissibili
riguardanti
le
minoranze
ed
attaccando
alcune
libertà
inalienabili
per
un
paese
civile.
Molte
delle
affermazioni
più
gravi
riguardano
i
Messicani,
i
quali
secondo
Trump
sarebbero
in
larga
parte
stupratori
e
spacciatori
di
droga,
motivo
per
cui
avrebbe
intenzione
di
costruire
un
enorme
muro
lungo
tutto
il
confine
tra
i
due
paesi.
Vi
sono
anche
quelle
contro
i
musulmani,
ai
quali
dovrebbe
essere
impedito
a
suo
avviso
di
entrare
negli
Stati
Uniti
per
la
loro
presunta
pro
pendenza
generale
ad
assumere
posizioni
radicali.
Per
non
parlare
del
suo
volere
di
chiudere
internet,
delle
sue
squallide
imitazioni
di
alcuni
disabili
e
perfino
delle
sue
affermazioni
secondo
cui:
“Anche
uccidendo
una
persona
in
mezzo
alla
strada
non
perderebbe
neanche
un
voto.”
Insomma,
c’è
n’è
per
tutti
i
gusti.
Questi
sono
solo
alcuni
dei
connotati
del
controverso
programma
del
candidato
repubblicano.
Eppure
si
può
evincere
come
egli
abbia
una
visione
ben
precisa
su
dove
voglia
condurre
il
paese.
Il
suo
movimento
politico
si
potrebbe
collocare
all’interno
delle
varie
correnti
di
protesta
verso
il
sistema
politico
tradizionale,
che
sta
caratterizzando
i
sistemi
politici
di
tutto
l’Occidente
negli
ultimi
anni.
Il
suo
bacino
di
utenza
è
sicuramente
la
base
repubblicana
dell’elettorato,
della
quale
ha
preso
circa
l’88%
delle
preferenze,
ma
la
sua
vittoria
va
ben
oltre
le
distinzioni
partitiche.
Infatti
per
molti
americani
egli
rappresenta
l’outsider
per
eccellenza,
che
è
sempre
rimasto
in
disparte
rispetto
ai
riflettori
politici,
ma
che
comunque
ha
contribuito
con
le
proprie
imprese
allo
sviluppo
di
una
parte
del
paese.
Insomma,
l’uomo
nuovo
che
potrebbe
portare
una
ventata
d’aria
fresca
per
tutti
gli
scontenti
di
otto
anni
di
Obama.
Ma
non
solo.
La
maggioranza
dei
voti
è
stata
sicuramente
attinta
da
quella
classe
lavoratrice
bianca
ancora
scottata
dalla
crisi
del
2008,
ma
in
generale
da
una
classe
media
che
non
ha
ottenuto
i
vantaggi
del
celebre
sogno
americano:
lavora
duro
e
arriverai
dove
vuoi.
Molti
pensavano
che
le
posizioni
estreme
del
candidato
repubblicano
gli
togliessero
voti
per
la
corsa,
giorno
per
giorno.
Niente
di
più
sbagliato.
Nonostante
le
sue
posizioni
laiche
ha
preso
circa
il
78%
dei
voti
degli
evangelici,
moltissime
donne
hanno
contribuito
alla
sua
vittoria
nonostante
gli
scandali
e
soprattutto
le
minoranze,
come
quella
ispanica,
che
si
riteneva
andassero
a
votare
in
massa
per
la
candidata
democratica,
hanno
concesso
molti
grandi
elettori
a
Mr.
Trump.
E
questo
è
forse
il
suo
maggiore
punto
di
forza.
Sa
come
prendere
la
gente,
dove
fare
pressione,
cosa
dire
e
quando
dirlo,
per
quanto
bassi
siano
i
livelli
della
sua
oratoria.
Un
bel
dato
in
merito
sono
i
confronti
delle
spese
affrontate
dai
due
candidati
per
la
campagna
elettorale.
Trump
ha
speso
circa
la
metà
di
quanto
ha
speso
Hilary,
e al
contrario
di
questa
aveva
anche
il
proprio
partito
contro.
Alla
luce
di
questi
elementi,
la
sua
vittoria
può
essere
solo
frutto
della
forza
con
cui
ha
sempre
affrontato
le
problematiche
a
viso
aperto,
anche
se
apertamente
discriminatoria
e
irrispettosa
delle
più
disparate
categorie.
La
stessa
candidata
democratica
ha
contribuito
in
maniera
significativa
alla
vittoria
di
Trump.
Donna
di
grande
esperienza
politica
e
dalle
grandi
doti
comunicative,
Hilary
Clinton
ha
sempre
perseguito
la
continuità
con
la
politica
condotta
dall’attuale
inquilino
della
Casa
Bianca.
Tuttavia
ha
sempre
presentato
dei
difetti
che
ha
fatto
fatica
o
non
ha
proprio
provato
a
limare
o
rimuovere.
In
primis
il
suo
rapporto
con
i
cosiddetti
“poteri
forti”,
i
quali
vedevano
in
lei
un’opportunità
per
continuare
il
buon
rapporto
con
Pennsylvania
Avenue.
Un
esempio
su
tanti,
l’Arabia
Saudita
risulta
essere
uno
tra
i
principali
sovvenzionatori
della
Fondazione
Clinton.
Per
questo
motivo
è
stata
associata
abbastanza
facilmente
nella
mente
degli
americani
al
proseguimento
di
una
politica
distaccata
dalla
realtà,
per
la
quale
gli
operai
del
Midwest,
il
cuore
industriale
americano,
vengono
dimenticati
dai
provvedimenti
di
Washington.
In
secondo
luogo,
e
forse
anche
di
maggiore
impatto
rispetto
al
primo
punto,
vi è
il
rapporto
con
la
stampa,
e
più
in
generale
con
i
mass
media.
La
candidata
democratica
ha
dimostrato
da
sempre,
ancor
prima
del
suo
percorso
elettorale,
un’ampia
mancanza
di
trasparenza
e
limpidezza
verso
l’esterno.
Lo
dimostrano
vari
episodi
che
hanno
attorniato
questi
ultimi
mesi,
quali
il
celebre
e
ormai
disossato
caso
del
mail
gate,
oppure
la
marginale
ma
comunque
rilevante
polmonite
che
l’ha
scossa
durante
l’anniversario
dell’undici
Settembre.
Unendo
tutto
insieme
si
ha
un
mix
letale,
che
ha
condotto
Hilary
ad
una
sconfitta
di
misura,
dovuta
per
lo
più
a
degli
aspetti
che
le
erano
stati
fatti
notare
svariate
volte
ma
ai
quali
non
ha
saputo
ovviare,
non
mettendosi
in
discussione
per
il
bene
dell’elettorato
americano.
L’errore
dei
sondaggi
sopracitato
può
essere
spiegato
in
due
modi.
Il
primo
riguarda
il
cittadino
medio
americano,
il
quale
può
aver
avuto
vergogna
ad
affermare
le
proprie
intenzioni
di
votare
un
candidato
talmente
“incandidabile”.
Questo
senza
dubbio
è
stato
un
fenomeno
diffuso,
e
può
aver
portato
ad
un
errore
di
calcoli.
Il
secondo
invece
è la
presa
di
posizione
dei
sondaggisti
e
delle
testate
stesse,
i
quali,
come
la
maggior
parte
anche
delle
star
americane,
hanno
supportato
dichiaratamente
Hilary
e la
sua
campagna.
È
sicuramente
una
supposizione,
ma è
possibile
anche
che
si
sia
gonfiato
il
vantaggio
dei
democratici
per
cercare
di
influenzare
quella
frangia
di
elettorato
che
fino
all’ultimo
è
rimasta
indecisa.
Se
fosse
così,
l’America
vera
ha
dimostrato
di
avere
un’anima
ed
una
coscienza
di
ciò
che
vuole
realmente.
Per
quanto
il
personaggio
di
Trump
in
sé
sia
abbastanza
controverso
e
sicuramente
i
quattro
anni
davanti
a
noi
saranno
pieni
di
esibizioni
del
suo
ego,
forse
non
tutto
è
perduto.
Già
la
notte
tra
l’otto
ed
il
nove
Novembre,
durante
il
discorso
in
cui
veniva
annunciata
la
vittoria,
qualcosa
sembrava
cambiato.
È
come
se
improvvisamente
avesse
capito
di
essere
un
politico,
un
uomo
che
andrà
in
giro
a
rappresentare
gli
americani,
e
non
più
un
buffone
che
compare
in
TV
su
WrestleMania
solo
per
un
bagno
di
applausi.
Nel
pronunciare
quelle
parole,
nelle
quali
forse
si
poteva
intravedere
un
filo
di
emozione,
Donald
Trump
parla
esclusivamente
del
proprio
paese,
di
come
vorrebbe
riaggiustare
le
cose
e di
dove
vorrebbe
portarlo
in
questi
quattro
anni
così
importanti
per
lui.
Nomina
in
un
paio
di
periodi
i
rapporti
con
l’estero,
i
quali
secondo
lui
saranno
cordiali
e
accomodanti
verso
tutte
le
realtà
politiche
volenterose
ad
instaurare
un
rapporto
costruttivo
con
gli
Stati
Uniti.
Questo
punto
in
particolare
sarà
un
importante
campo
di
prova
per
il
neopresidente
eletto.
Infatti,
oltre
all’agenda
interna
sulla
quale
noi
outsiders
non
possiamo
avere
riscontro
diretto,
la
politica
estera
ci
tocca
molto
da
vicino.
Come
accennato
già
in
precedenza,
la
politica
isolazionista
proiettata
da
Trump
porterebbe
gli
Stati
Uniti
ad
un
disimpegno
progressivo
parziale,
se
non
addirittura
totale,
dai
campi
di
battaglia
sia
reali
sia
diplomatici
di
tutto
il
mondo.
Questo
inevitabilmente
provocherebbe
una
diminuzione
dell’entità
dell’egemonia
americana,
sia
in
termini
reali
di
influenza
sia
e
soprattutto
in
termine
di
percezione
da
parte
degli
altri
attori
nel
contesto
internazionale.
Tuttavia,
se
il
presidente
repubblicano
vuole
tener
fede
all’agenda
interna
e
riportare
la
potenza
economica
americana
ai
fasta
del
passato,
deve
per
forza
agire
in
questa
maniera.
In
passato
si
sono
già
visti
presidenti
che
si
sono
dichiarati
isolazionisti,
o
comunque
restii
ad
aumentare
gli
interventi
all’estero,
in
campagna
elettorale.
Un
riferimento
è il
democratico
Bill
Clinton,
il
quale
alla
fine
del
suo
mandato
è
risultato
uno
dei
presidenti
con
più
interventi
militari
alle
spalle.
Le
intenzioni,
quindi,
non
sempre
corrispondono
ai
fatti.
Anche
il
presidente
Barack
Obama
aveva
paventato
un
minore
interventismo
NATO,
soprattutto
per
la
faccenda
libica,
incitando
le
nazioni
europee
a
prendere
in
mano
le
redini
della
crisi.
Il
risultato
è
stato
un
intervento
aereo
di
bombardamento
durato
ufficialmente
un
mese,
ma
che
ancora
oggi
è
parzialmente
in
atto.
Secondo
la
visione
politica
di
Trump,
la
NATO
dovrebbe
diminuire
pesantemente
la
propria
presenza
in
Europa.
Ciò
toglierebbe
finalmente
un
importante
mezzo
di
pressione
statunitense
dai
nostri
lidi
e
questo,
si
auspica,
potrebbe
indurre
decisioni
più
indipendenti
e ad
una
politica
più
matura
delle
nazioni
del
Vecchio
Continente.
Ma
sarà
solo
il
tempo
a
dirlo.
La
notte
dell’Election
Day
le
luci
della
Casa
Bianca
erano
spente.
Secondo
un
comunicato
ufficiale
è
stato
un
black-out
isolato,
ma
in
parecchi
pensano
che
sia
stato
un
gesto
di
protesta
simbolico
e
neanche
troppo
ben
velato
contro
l’esito
delle
urne.
È
indubbio
che
il
neopresidente
eletto
Donald
Trump
sia
un
uomo
pieno
di
pregiudizi,
contraddizioni
e
contrario
ad
ogni
forma
di
politically
correct.
Ciò
sicuramente
ci
porterà
su
una
rotta
diversa
ed
anche
un
poco
più
incerta
rispetto
all’amministrazione
Obama,
ma
se
la
promessa
fatta
durante
il
discorso
della
vittoria
“chi
è
stato
dimenticato
non
lo
sarà
più”
verrà
anche
in
parte
mantenuta,
gli
americani
saranno
i
primi
a
beneficiarne.
Non
si
può
escludere
tuttavia
che
anche
noi
europei,
se
avessimo
il
coraggio
di
osare,
potremmo
fare
altrettanto.