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N. 45 - Settembre 2011 (LXXVI)

solo colpa di Rumsfeld?
ripensando al "falco dell’Illinois"

di Giovanni De Notaris

 

A ormai dieci anni dal famigerato attacco dell’11 settembre 2001 all’America sembra utile fare un salto indietro nel tempo,  in particolare alla precedente amministrazione – quella di George W. Bush -, focalizzando l’obiettivo su una delle figure più discusse del periodo; uno dei massimi protagonisti della politica americana degli ultimi cinquant’anni, e cioè l’ex segretario alla Difesa Donald H. Rumsfeld.

 

È interessante citare Rumsfeld perché è stato indicato come uno dei principali colpevoli di determinati fallimenti nella strategia dell’anomala guerra al terrore globale.

 

Rumsfeld ha avuto una carriera ai massimi livelli nell’establishment politico a stelle e strisce. Congressman repubblicano dell’Illinois – suo stato natale -, dal 1962; già prima naval aviator, istruttore e collaudatore di aerei nella base di Pensacola in Florida; ambasciatore degli Stati Uniti presso la NATO nel 1972, per poi diventare nel 1975 il più giovane segretario alla Difesa sotto la breve e sottovalutata amministrazione di Gerald Ford.

 

Nel 1983 è da ricordare la sua visita come inviato di  Ronald Reagan nell’Iraq di Saddam Hussein; famoso resterà il video -sul quale molto vanamente si è discusso- dove stringe la mano al dittatore iracheno. Si dimentica difatti che all’epoca Hussein non costituiva ancora una minaccia per gli Stati Uniti, e era inoltre utile a contenere la potenza aggressiva dell’Iran dell’ayatollah Khomeini. Fondamentalmente valeva la ben nota regola: “il nemico del mio nemico è mio amico”.

 

Ora, come si accennava, Rumsfeld è stato additato come il principale responsabile del fallimento della strategia militare della guerra al terrore, in particolare per il caso iracheno, dove tra l’altro vennero a galla temi quali le mai ben troppo condannate torture nel carcere di Abu Ghraib, oltre a quelle nella base americana di Guantanamo Bay, a Cuba.

 

Ma quali furono davvero i suoi errori? E furono davvero solo suoi?

 

Dunque, già prima dell’11 settembre il segretario alla Difesa fu accusato di aver notevolmente ridotto il budget del Pentagono, cosa che avrebbe potuto mettere in pericolo le forze armate americane dislocate nel mondo e in patria. Questo è certamente vero dato che i costi della difesa erano ormai divenuti insostenibili, soprattutto in tempi - all’epoca - di pace.

 

Inoltre Rumsfeld riteneva necessario ridurre il numero esorbitante di mezzi e uomini non solo per risparmiare denaro, ma soprattutto per creare un lighter army: hi-tech, più agile, e più facilmente dislocabile sui terreni di battaglia. In pratica la possibilità di colpire rapidamente il nemico ovunque si trovasse senza un dispiegamento eccessivo di mezzi e uomini.

 

Tutto questo però non fu solo farina del suo sacco ma fu richiesto espressamente dal President-elect Bush prima di insediarsi alla Casa Bianca.

 

Purtroppo come talvolta accade la sorte rema contro. E difatti  se non ci fossero stati i tragici attentati alle torri gemelle e al Pentagono stesso, probabilmente la strategia di Rumsfeld avrebbe potuto avere successo, dato che, come si diceva, si era in tempi di pace (come sempre relativa per una superpotenza come gli Stati Uniti), e ridurre gli insostenibili costi e l’entità delle forze armate sembrava oramai logico, dato che non si era più nel contesto della guerra fredda, quando la corsa agli armamenti era la regola assoluta.

 

Altro punto che metterebbe in cattiva luce l’operato del segretario fu la gestione della campagna militare irachena.

 

Rumsfeld in realtà non era totalmente convinto della semplicità dell’invasione dell’Iraq perché mancavano notizie sulla situazione attuale. Difatti le notizie che l’amministrazione  aveva risalivano ai tempi della prima guerra del Golfo del 1991, avvenuta durante la presidenza di George Bush padre; addirittura le carte geografiche del paese risalivano  a quell’epoca; nulla era aggiornato.

 

Ma sia il presidente che il suo vice Dick Cheney spinsero molto per l’invasione adducendo ufficialmente motivi di legami tra il regime iracheno e l’organizzazione terroristica al-Qaida negli attentati dell’11 settembre. Come dimenticare la scena del segretario di Stato Colin Powell che nel 2003 mostra al Consiglio di sicurezza dell’ONU la piccola fiala con del materiale bianco all’interno, al fine di dimostrare come un’arma di distruzione di massa potesse essere trasportata anche in un contenitore di tali dimensioni.

 

Quando poi si scoprì che il regime iracheno non possedeva affatto armi batteriologiche, Rumsfeld rimarcò come lui e i suoi colleghi - Powell incluso - non avessero mentito per creare un pretesto all’invasione, ma semplicemente si erano fidati di notizie poco attendibili e quindi avevano sbagliato.

 

Questo non assolve certamente uno staff che manda alla guerra migliaia di soldati praticamente allo sbaraglio, ma il fallimento della strategia militare in Iraq non può essere accreditata solo a lui.

 

Il segretario alla Difesa deve chiaramente ascoltare le strategie propostegli dai vertici militari, che  all’epoca ritenevano che tutto sommato invadere il paese e poi pacificarlo non sarebbe stato particolarmente difficile.

 

Non avevano però considerato diversi aspetti: innanzitutto che Saddam liberasse i prigionieri dalle carceri per usarli come truppe contro l’invasore; che le etnie curda e sciita, deluse dal comportamento degli americani durante la prima guerra del Golfo -quando si ritirarono dopo la liberazione del Kuwait invece di sostenerli  per spodestare il dittatore iracheno-, non li avrebbero aiutati di nuovo; per concludere con l’errore tattico di azzerare completamente l’organico dell’esercito iracheno, contribuendo così a infoltire le truppe dei terroristi.

 

Rumsfeld chiese fin dall’inizio al generale Tommy Franks, responsabile delle truppe americane sul luogo, se riteneva necessario un  numero maggiore di uomini -all’inizio dell’invasione, nel marzo 2003, le truppe dislocate erano di circa 150.000 unità-, ma la risposta fu negativa dato che si contava sia sulla semplicità dell’invasione/gestione del paese, ma anche sull’aiuto delle truppe della coalizione inviate da altri paesi.

 

Rumsfeld inoltre aveva dei dubbi sul comportamento del diplomatico Paul Bremer inviato lì dal presidente per gestire il paese. Secondo il segretario alla Difesa, Bremer amministrava il paese in maniera inappropriata, non comprendendo appieno la situazione. Sembrava non voler collaborare con i politici iracheni in modo tale da creare con loro un governo di transizione, e non collaborava neppure con i vertici militari americani sul luogo.

 

Il paese insomma fu totalmente nel caos soprattutto a causa del mancato coordinamento iniziale tra le varie forze sul campo.

 

Ma di tutto questo può essere accusato soltanto il segretario alla Difesa?

 

Da quello che si è visto, no. Ci furono errori tattici sia dei militari sia dei diplomatici sul campo.

 

Ovviamente non si può certo tralasciare il capitolo torture di cui Rumsfeld è stato indicato come ispiratore.

 

Come lui stesso dice nella sua autobiografia Known and Unknown - pubblicata nel 2011 - quando le foto delle torture nel carcere di Abu Ghraib in Iraq vennero pubblicate nel 2004 sulle più importanti testate giornalistiche americane, il suo primo istinto fu quello di dimettersi accettando la responsabilità totale di quegli atti brutali in quanto capo del Pentagono, ma il presidente gli chiese di restare.

 

Il segretario accettò innanzitutto per tutelare il buon nome delle truppe americane e isolare i veri colpevoli.

 

Ma perché Rumsfeld fu considerato l’ispiratore di quelle torture?

 

È presto detto.

 

Tutto risale a un memo inviato il 27 novembre 2002 al Pentagono in cui si comunicavano al segretario le tecniche usate nel carcere di Guantanamo per spingere i prigionieri a parlare; tra di esse si indicava che i prigionieri venivano fatti stare in piedi per quattro ore al giorno durante gli interrogatori.

 

In calce al memo Rumsfeld commentò: “However, I stand for 8-10 hours a day. Why is standing limited  to 4 hours?”.

 

Ecco questa frase per alcuni fu la prova effettiva che egli fosse a conoscenza delle torture.

 

Nell’autobiografia però l’ex segretario ribatte a questa accusa dichiarando che i metodi di interrogatorio da lui approvati furono ritenuti legali dai giuristi del Pentagono. Se altro era accaduto, esulava dalle sue autorizzazioni.

 

A questo punto vale la pena chiedersi se nel 2006 dopo le elezioni di mid-term, che furono disastrose per i repubblicani, fosse stato giusto sacrificare Rumsfeld spingendolo a dimettersi per le motivazioni sinora esposte.

 

In realtà le dimissioni necessarie avrebbero dovuto essere quelle di qualcun altro. Di colui a cui la costituzione affida il compito di comandante in capo delle forze armate.

 

Rumsfeld non può assolutamente essere indicato come l’unico responsabile del fallimento di anni di strategie sbagliate e approssimative.



 

 

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