N. 92 - Agosto 2015
(CXXIII)
Don Giovanni Minzoni
La storia di un parroco in epoca fascista
di Elisa Temellini
Don Giovanni Minzoni, parroco di Argenta, comune in provincia di Ferrara, non era di certo un rivoluzionario e tanto meno un socialista.
Era
un
religioso
che
applicava
sino
in
fondo
la
parola
evangelica,
ascoltando,
confortando
e
aiutando
tutti,
senza
distinzione
di
credo.
Educato
a
Ferrara,
di
famiglia
borghese,
Minzoni
si
scontra
presto
con
la
dura
realtà
del
suo
tempo,
prima
partecipando
alla
Grande
Guerra
come
cappellano
poi,
nel
1919,
come
arciprete.
Erano
gli
anni
in
cui
trionfavano
le
sinistre.
In
Emilia
Romagna,
terra
di
braccianti
e di
operai,
roccaforte
dei
socialisti
più
rivoluzionari,
il
clero
non
era
visto
di
buon
occhio.
Ma
Don
Minzoni,
ad
Argenta,
riuscì
a
farsi
accettare,
anzi
a
farsi
apprezzare
da
tutti,
anche
dai
più
ostili.
Il
parroco
giocava
coi
ragazzi
a
calcio,
andava
al
bar
in
bicicletta
(allora
proibita)
a
bere
una
birra
e a
partecipare
a
qualche
partita
a
carte.
Diventò
uno
di
loro,
uno
del
popolo.
Diede
vita
anche
un
centro
giovanile,
un
oratorio,
una
compagnia
filo-drammatica
per
le
ragazze
e un
circolo
per
adulti
aperto
tutte
le
sere
fino
a
mezzanotte,
volutamente
lasciato
gestire
a
laici.
Il
suo
insinuarsi
tra
la
gente
comune,
anche
tra
i
socialisti,
iniziò
ad
infastidire
i
fascisti.
Minzoni
era
un
acceso
antifascista
e
questo
lo
avvicinava
spesso
agli
avversari
di
Mussolini,
tanto
da
ricevere
critiche
sia
dai
fascisti
che
dai
cattolici.
Se,
nel
corso
del
ventennio
fascista,
la
chiesa
cattolica
strizzò
l’occhio
più
volte
al
regime,
Don
Minzoni
si
rifiutò
di
assecondare
un’ideologia
meschina
e
violenta,
lontana
da
ogni
principio
evangelico.
Dopo
l’uccisione
del
sindacalista
Gaiba,
per
mano
di
squadristi
del
luogo,
il
parroco
tenne
un
discorso
di
denuncia
che
ispirerà
un
articolo
sul
settimanale
cattolico
di
Ferrara.
Fu
la
prima
aperta
rottura
con
il
fascio
locale.
A
provocare
ulteriormente
l’ira
dei
fascisti
fu
il
successo
dell’Associazione
dei
Giovani
Esploratori
Cattolici,
sorta
anche
ad
Argenta,
grazie
al
religioso.
I
fascisti,
dal
canto
loro,
avevano
cercato
di
formare
un
gruppo
numeroso
di
balilla
ma,
al
momento
delle
iscrizioni,
solo
un
bambino
si
presentò.
I
giovani,
nel
piccolo
comune
ferrarese,
preferirono
le
congregazioni
cattoliche.
Don
Minzoni
ricevette
più
volte
minacce
ma
non
era
il
tipo
da
lasciarsi
spaventare.
Era
veramente
intenzionato
a
contrastare
l’opera
di
indottrinamento
fascista
dei
giovani.
La
lettera
che
scrisse
al
podestà
di
Ferrara
descrive
a
pieno
il
suo
pensiero
contrario
ad
ogni
forma
di
servilismo,
di
mala
fede
e di
violenza.
Parole
molto
coraggiose
che
ahimè
si
riveleranno
essere
il
suo
testamento
morale.
Il
parroco
fu
ucciso
con
una
bastonata
in
testa
la
sera
del
23
agosto
1923
mentre
rientrava
a
casa
dopo
avere
bevuto
una
birra
al
circolo
ricreativo.
Rappresentativo
l’episodio
che
concerne
la
denuncia
ai
giornali
la
mattina
successiva.
Il
clero
locale
denunciò
l’omicidio
come
un’opera
di
ignoti,
nei
confronti
di
una
persona
impegnata
socialmente.
Non
una
parola
sul
movente
e
sui
colpevoli.
L’atteggiamento
delle
autorità
cattoliche
fu
davvero
disdicevole.
Non
presero
mai
una
netta
posizione
nei
confronti
degli
assassini.
Non
si
pronunciarono
contro
il
fascio
locale,
esecutore
e
mandante
dell’uccisione
di
Don
Minzoni.
Lasciarono
cadere
il
tutto
nel
silenzio.
Questa
omertà
proveniente
proprio
dall’ambiente
religioso
fu
il
secondo
colpo
mortale
inferto
al
povero
parroco.
Il
tenente
Borla,
che
fu
trasferito
dopo
poco,
coraggiosamente
denunciò
l’uccisione
dell’arciprete
per
motivi
politici
per
mano
di
due
squadristi
ancora
a
piede
libero.
Gli
stessi
fascisti
affermarono
che
l’episodio
era
una
lezione
volutamente
data
al
sacerdote
da
due
di
loro,
accidentalmente
finita
male.
Ma
il
caso
fu
insabbiato
per
via
dei
clamorosi
risultati
delle
elezioni
politiche
che
si
tennero
nella
primavera
successiva
quando
il
partito
fascista
raggiunse
più
del
90%
dei
voti.
Solo
Donati
(che
morirà
in
esilio
a
Parigi
a
soli
42
anni),
direttore
de
“Il
Popolo”,
ebbe
la
forza
di
continuare
a
scrivere
del
prete
di
campagna
che
si
oppose
al
fascismo,
accusando
del
delitto
Italo
Balbo,
il
gerarca
di
Ferrara.
Accanto
al
quotidiano
popolare
si
schierò
anche
“La
voce
repubblicana”.
Il
caso
venne
riaperto.
Nel
giugno
del
1925
vi
erano
sette
imputati
ma
l’esito
del
processo
li
volle
nuovamente
tutti
assolti.
A
questo
punto
bisogna
ricordare
che
l’anno
dopo
l’uccisione
di
Don
Minzoni,
anche
Matteotti
fu
picchiato
a
morte
dai
sicari
di
Mussolini.
E
nuovamente
i
colpevoli
furono
lasciati
impuniti.
“L’Avanti”,
quotidiano
socialista,
paragonò
Matteotti
a
Don
Minzoni
definendo
entrambi
due
martiri,
due
esempi,
due
eroi
che
non
accettarono
di
ridursi
a
sudditi.
Ancora
una
volta
le
autorità
ecclesiastiche
persero
l’occasione
di
schierarsi
contro
il
fascismo.
Grazie
a
documenti
certi
si
riuscì
a
provare
la
colpevolezza
di
Balbo
e
dei
suoi
uomini,
ma
solo
nel
1947
a
guerra
finita,
venne
resa
pubblica
la
verità.
Non
solo:
la
prima
commemorazione
venne
celebrata
nel
1973.
Il 2
ottobre
1983
Sandro
Pertini,
l’allora
presidente
della
Repubblica,
pronunciò
le
seguenti
parole:
“Nella
figura
di
don
Giovanni
Minzoni
si
riassume
il
meglio
delle
tradizioni
ideali
e
politiche
nelle
quali
il
movimento
cattolico
italiano
affonda
le
sue
stesse
radici
genuinamente
popolari.
Con
la
sua
stessa
vita,
Don
Minzoni
testimoniò,
in
perfetta
aderenza
all’insegnamento
evangelico
e in
profonda
lealtà
alla
propria
missione
di
pastore,
la
fede
democratica
e
l’ansia
di
giustizia
che
ispirava
i
lavoratori
cristiani,
che
ne
saldava
l’animosa
resistenza
alla
lotta
che
l’intero
movimento
antifascista
andava
opponendo
all’incombente
tirannide”.
Riferimenti
bibliografici:
Lorenzo
Tedeschi,
Don
Minzoni:
il
prete
ucciso
dai
fascisti,
Bompiani,
Milano
1973
Alberto
Comuzzi,
Don
Minzoni,
il
Matteotti
cattolico,
EMP,
Padova
1985