Venti
anni fa anni
fa veniva edito da Einaudi il Dizionario
dell’Occidente medievale, una
poderosa ricostruzione di dieci
secoli di storia che rappresentò
anche un paradigmatico esempio di
approccio e di metodologia. I
curatori dell’opera, Jacques Le Goff
e Jean-Claude Schmitt, due dei nomi
più noti della medievistica
francese, nella prefazione ne
confermavano l’ispirazione
principale, rievocando l’esperienza
degli Annales di Marc Bloch e
lo spirito del suo Apologia della
storia, nonché citando un altro
illustre connazionale del ramo,
Georges Duby.
Ciò nonostante, il Dizionario non
si proponeva come un manifesto della
scuola di studi medievali
transalpini, piuttosto come «una koiné di
storici, di concezioni del
“mestiere” e di metodi
universalmente condivisi»,
principi che venivano rivendicati in
apertura, nel segnalare un lavoro di
concerto che coinvolgeva, per un
quarto, collaboratori stranieri, tra
cui otto studiosi italiani. Per
dirla tutta, il Dizionario non
era neanche tale, benché ne seguisse
alcune fondamentali regole. Il corpus,
organizzato in due volumi,
effettivamente rispettava grossomodo
la tradizionale scansione
enciclopedica A-L M-Z, ma non si
costruiva sulla collezione di voci
didascaliche e inerti, prediligendo
un atteggiamento dinamico e critico
che sbrogliava, attraverso dei veri
e propri saggi, il gomitolo della
società e della vita medievali.
Tale gomitolo si biforcava spesso in
percorsi paralleli o antitetici. Il Dizionario non
poteva fare a meno delle coppie:
“Chierici e laici”, “Libertà e
servitù”, “Maschile/femminile”,
“Scritto/orale”, erano alcune delle
opposizioni che esemplificavano i
titoli e le traiettorie dell’opera.
A ciò che per sua stessa natura era
ambivalente i vari studiosi chiamati
nel progetto affiancavano luoghi
ricorrenti come il “Castello”, la
“Cattedrale” oppure funzioni ed
esperienze umane che non erano
esclusivamente medievali, ma che nel
corso del Medioevo assunsero una
particolare connotazione:
“Alimentazione”, “Sessualità”,
“Violenza”.
Se alcune voci erano “inevitabili”,
richiamando le principali
istituzioni dell’età di mezzo
(“Chiesa” e “Impero”), ciò non
toglie che gli stessi ambiti
potessero essere affrontati da altri
ingressi che ne rivitalizzavano il
substrato. Ecco che la Chiesa e il
papato, in quanto realtà politiche e
amministrative, venivano esposte al
confronto con il patrimonio
soprannaturale che li presupponeva
dal di fuori: Dio, in quanto
intelligenza governatrice di un
sistema che non lo intese mai come
ente isolato; il Diavolo, in quanto
“principe di questo mondo”. Una
tensione ritrovata nella contesa
corpo-anima, approfondita proprio da
uno dei saggi di Schmitt del Dizionario.
Il fuori soprannaturale era del
resto indagato fin dalla prima voce
dell’opera. Era l’altro curatore, Le
Goff, a occuparsi dell’aldilà, delle
sue intromissioni e della sua
geografia, citando sé stesso
allorché si soffermava sul terzo
luogo fatidico, il Purgatorio. Era
stato proprio Le Goff, nel 1981, a
teorizzare, con La nascita del
Purgatorio, la fine del
monopolio di un aldilà bipolare,
eretto sull’opposizione manichea tra
Paradiso e Inferno.
La dicotomia costante che metteva in
relazione l’uomo medievale con i
messaggeri incorporei, angeli e
demoni, e le fenomenologie sottili,
quali i miracoli e i sogni,
diventava, lungo le voci del Dizionario,
la dialettica di una
contrapposizione che, più in
generale, determinava il senso
critico del rapporto che si veniva a
stabilire con ciò che era
sconosciuto o diverso, perfino in
terra. Sempre Le Goff, sotto il
capitolo “Centro/periferia”, andava
a delineare il territorio liminale
come “uno spazio di meraviglie e di
orrori, di eroi e di mostri”.
Questa alterità ricadeva, nel
secondo volume, sui “Marginali”
esplorati da Hanna Zaremska. Tra di
loro trovavano posto i lebbrosi, gli
eretici, ma pure il bandito, inteso
quale novello Caino. Il bandito,
nello specifico, era già morto
socialmente, non esisteva per la
giustizia, non aveva nemmeno diritto
a una sepoltura, al punto che il suo
cadavere “era consegnato agli
uccelli, ai pesci e agli animali
della foresta”. La Zaremska
annoverava in questa categoria anche
coloro che sopravvivevano con i
cosiddetti mestieri infami: usurai,
prostitute, giocolieri.
L’alterità affrontata dal Dizionario era
inoltre di natura culturale e
politica. In taluni casi, le
distanze si dovevano a un senso di
superiorità “tra fratelli”. In
apertura del saggio “Bisanzio e
l’Occidente”, Michel Balard e Alain
Ducellier sottolineavano la “cecità
geografica” dei Bizantini che
derubricavano come “Barbarie
periferica”, emondo del caos, gli
spazi esterni all’Impero che faceva
riferimento a Costantinopoli. Questo
declassamento sfociava anche in “un
tenace disinteresse verso
l’Occidente”, tanto da far dire
ancora ad Anna Comnena, storica e
figlia del basileus Alessio,
che l’imperatore Enrico IV dominava
i “capi delle regioni celtiche”,
un’approssimazione che era sinonimo
di un persistente
provincialismomentale.
L’alterità diventava tanto più
evidente quando ci si rapportava
agli antagonisti. Pierre Guichard,
sotto la voce “Islam”, indugiava sui
parallelismi che sussistevano tra
la Reconquista e gli impulsi
che stimolarono la prima crociata,
senza ignorare tuttavia anche i
floridi punti di contatto
commerciali e culturali che
alimentavano l’“arabismo” della
corte di Palermo o
l’intellettualismo arabo-musulmano
di un Raimondo Lullo. La stessa
definizione di un nemico comune
aveva un pregnante valore per
un’Europa che si riconosceva e
cementificava in senso unitario di
fronte alla forza contendente
rappresentata dall’Islam.
Franco Cardini, con il contributo
“Guerra e crociata”, analizzava la
formazione di un cristianesimo
militante, costruito sui valori
cavallereschi che venivano, via via,
proiettati in direzione del sanctum
bellum che trovava la sua
fatidica promozione verbale per
bocca di Urbano II, nel novembre del
1095, in occasione del concilio di
Clermont, in Alvernia. Se appare
improbabile un appello diretto alla
conquista della Terrasanta, «in
quella sede fu comunque posata, con
un espediente destinato forse
principalmente alla “esportazione
della violenza” oltre i confini
dell’Europa occidentale, la prima
pietra di quelle che si sarebbero
poi chiamate le crociate».
A fianco di un Islam che si
esprimeva a ravvicinata distanza ed
entrava in contatto con l’Occidente
medievale, tramite una forza
militare e politica ben delineata,
il Dizionario esaminava la
più incerta condizione degli Ebrei.
La Zaremska li inseriva nella
schiera dei “Marginali”, insieme a
eretici ed empi. Se gli eretici
erano “oppositori interni alla
Chiesa”, gli Ebrei venivano
colpevolizzati ed emarginati perché
su di loro pendeva l’accusa di aver
favorito la crocifissione di Cristo.
Maurice Kriegel, sotto la voce
“Ebrei”, approfondiva il fenomeno,
distinguendo «un primo Medioevo
in cui, tutto sommato, comunità
ebraiche e società maggioritarie
vivevano in una vicinanza
sostanzialmente libera da tensioni,
e un altro Medioevo, quello che ha
inizio nel XII secolo«. Risaliva
al 1144, su territorio inglese, la
prima famigerata accusa di omicidio
rituale rivolta agli Ebrei.
Il Dizionario, oltre a
investigare la vivacità della vita
medievale, mediante i suoi
antagonismi, suggeriva l’analisi di
fenomeni specifici che tagliarono
trasversalmente i secoli, tra
normalità e simbolizzazione.
“Caccia” era il titolo sotto al
quale Alain Guerreau faceva
confluire anche esigenze di metodo,
volte a confutare stereotipi e
spiegazioni errate. La caccia non
era, ad esempio, finalizzata a
procacciarsi la carne da mangiare: «Lo
studio di conti domestici signorili
della fine del Medioevo ha rivelato
con evidenza che le carni acquistate
appartenevano per lo più ad animali
da macello». La nutrita presenza
di venaison sulle tavole
signorili della letteratura cortese
rientrava dunque in un codice
prettamente simbolico.
La ricostruzione antropologica e
sociologica che il Dizionario applicava
in casi circostanziati come quello
della caccia veniva rinvenuta anche
in questioni generali che legano la
storia medievale a quella
universale. Sempre Le Goff chiudeva
il primo volume con la voce
“Lavoro”, termine che, nella sua
moderna accezione, non comparve
peraltro prima della fine del
Quattrocento, benché nella prassi
ciò che noi intendiamo per lavoro,
nell’abituale associazione dell’uomo
all’utensile e alla macchina, fosse
già in atto da diversi secoli.
Parlare di lavoro in senso medievale
significava transitare da un esame
tecnologico al versante sociale,
fino a ispezionare alcuni aspetti
ideologici e mentali. Ecco che ai
mestieri indegni segnalati dalla
Zaremska se ne aggiungevano altri, a
causa della contaminazione che essi
comportavano: i chirurghi e i
macellai si imbrattavano con il
sangue, così come i tintori e i
lavapiatti si mescolavano alla
sporcizia. La contaminazione poteva
essere anche “epidermica”, nel caso
degli albergatori, abituati a
incontrare e ospitare stranieri e
prostitute.
Bastino questi cenni, tra i tanti
possibili, per sancire la vitalità
di una raccolta di studi che,
accavallandosi e parlandosi,
finivano per completarsi a vicenda.
Ogni saggio presentava in calce i
riferimenti delle altre voci del Dizionario che
valeva la pena di recuperare per
intrecciare rilievi e informazioni
complementari. Il Dizionario soddisfaceva
inoltre l’aspirazione
interdisciplinare posta alla base
della miscellanea curata da Le Goff
e Schmitt, secondo le direttive di
quella che venne definita
“antropologia storica” e prendendone
a prestito modelli e metodi.
Un’ambizione che concerneva infine
il ripensamento del mestiere dello
storico, se è vero che Le Goff e
Schmitt, sempre dalle pagine della
prefazione, ricordavano come sia «appunto
la dialettica fra presente e
passato, fra la storia nella quale
viviamo e la storia che cerchiamo di
scrivere, a spiegare come mai il
cantiere non si chiuda mai e perché
ogni generazione di storici lo
riprenda per conto proprio».
Riferimenti bibliografici:
Dizionario dell’Occidente medievale,
Vol. 1-2, a cura di Jacques Le Goff
e Jean-Claude Schmitt, Einaudi,
Torino 2003.
Marc Bloch, Apologia della storia
o mestiere di storico, Einaudi,
Torino 2009.