SULLA LIBERTà DELLE DONNE DI AMARE
E... DIVORZIARE
Amo chi voglio, quando voglio e dove
voglio
di Ilaria D’Alessio
Tra le anticipatrici del femminismo
troviamo Sibilla Aleramo, che nel
suo romanzo Una donna,
ricalca quasi interamente il
percorso della sua vita. Il romanzo
è stato pubblicato nel 1906 e tratta
di una giovane donna che, dopo
essersi interrogata a lungo sul
proprio ruolo di madre e di donna,
alla fine, deciderà di affermare se
stessa a costo di abbandonare il
figlio scegliendo la sua libertà (in
quegli anni quando una donna
abbandonava il “tetto coniugale”
automaticamente non aveva più alcun
diritto sui figli).
Il libro sostanzialmente parla di
quanto la Aleramo fosse contro il
matrimonio e in particolare delle
leggi che in quel periodo non
tutelavano in alcun modo le donne,
che dovevano sottostare al volere e
alle decisioni del proprio marito.
In quegli anni, la scrittrice
scandalizzò l’opinione pubblica non
solo per il contenuto del suo libro,
ma anche per le scelte sentimentali
successive e per la promiscuità dei
suoi rapporti.
Più tardi nei primi mesi di pace
dopo la seconda guerra mondiale, le
donne che prendevano parte alle
formazioni partigiane erano da tanti
considerate scostumate e fuor di
luogo e per questo motivo, fu
sconsigliato loro di apparire in
pubblico e per le strade con gli
uomini. Nonostante il forte
proibizionismo da parte degli
uomini, le donne continuarono libere
e fiere a esibire il loro volere e
la loro ormai “conquistata” libertà.
Nonostante l’acquisizione di nuove
certezze, però, negli anni Cinquanta
e Sessanta, in Italia, amare e
sposarsi rappresentavano due atti
quasi del tutto scontati e tali da
garantire la piena realizzazione per
una donna. Ci si sposava presto
anche per scappare dalle mura
soffocanti della propria famiglia,
spesso si passava dall’autorità del
padre a quella del marito. Sebbene
sia stata forte la necessità di
sanare e di costruire le famiglie,
saranno gli anni Settanta quelli
veramente indicativi nel cambiamento
della realtà delle donne nel nostro
paese. In verità è il 1968 l’anno
considerato uno spartiacque tra
l’autoritarismo della società
borghese, ancora molto diffuso, e la
diffusione di una nuova cultura del
permissivismo in cui i contestatori
propongono non solo una rivoluzione
nei costumi, ma soprattutto
rivendicano maggiori diritti.
La contestazione del ’68 riguardò
anche i ruoli tradizionali in seno
alla società. Un protagonista di
quegli anni fu anche il movimento
femminista o neo-femminista – come
si usa chiamarlo per distinguerlo da
quello di inizio secolo finalizzato
a rivendicare i diritti politici
delle donne – che si sviluppò nel
corso degli anni Sessanta, prima
negli Stati Uniti e poi in Europa,
con l’obiettivo principale di
mettere in discussione il ruolo
subordinato della donna nella
società. È proprio in questo
momento, dunque, che in Italia si
attua una vera e propria
trasformazione nel rapporto di
coppia e nella riconfigurazione del
ruolo della maternità. Nel 1970
viene introdotto il divorzio,
successivamente confermato con un
referendum popolare nel 1974; nel
1971 viene abrogato l’articolo del
codice che vietava gli
anticoncezionali; nel 1978 passa la
legge che consente l’interruzione
della gravidanza entro i 90 giorni.
Il divorzio ha trovato stabile
collocazione nella legislazione
italiana con la Legge n. 898 del 1°
dicembre 1970. Essa, ne prevedeva e
ne prevede, l’applicazione non solo
per i matrimoni celebrati con il
rito civile, ma anche, per quelli
celebrati con rito religioso in
presenza di un ministro di culto.
Ciò ha generato dure proteste da
parte della Chiesa cattolica nei
confronti dello Stato italiano, in
considerazione delle intese tra loro
stipulate nel 1929 con la
sottoscrizione del Concordato
Lateranense con il quale lo Stato
non solo accordava efficacia ai fini
civili del vincolo matrimoniale
sorto in ambito canonico (ritenuto
indissolubile dalla Chiesa), ma
riconosceva anche l’esclusività
della giurisdizione ecclesiastica a
giudicare quindi, sia l’eventuale
invalidità che lo scioglimento per
non averlo “consumato”.
La Corte costituzionale con due
successive pronunce, una nel 1971 e
l’altra nel 1973 ha dichiarato la
legittimità della legge sul divorzio
e la piena autonomia di disposizione
attribuita allo Stato. Nei
giorni 12 e 13 maggio 1974, su
richiesta di un’ampia porzione
dell’opinione pubblica che ne
sollecitava l’abrogazione, la legge
sul divorzio è stata sottoposta a
referendum popolare, il cui esito fu
negativo. Nel corso degli anni
successivi sono avvenute innovazioni
in materia, in particolare per la
Legge n. 74 del 6 marzo 1987, la
quale ha ridotto il termine minimo,
tre anni, per poter proporre domanda
di divorzio a seguito della
pronuncia di separazione,
originariamente previsto dopo cinque
anni, ma può estendersi fino a sei o
sette anni in caso di opposizione di
uno dei due coniugi.
Analogamente a quanto previsto nel
procedimento di separazione
giudiziale, il tribunale può
emettere una sentenza non definitiva
di scioglimento o di cessazione
degli effetti civili del matrimonio,
in attesa che venga poi decisa ogni
altra questione che richieda
indagini (ad esempio, circa l’entità
dell’assegno divorzile). Ovviamente,
qualora il genitore affidatario sia
economicamente autosufficiente,
questo è tenuto a concorrere,
insieme all’altro genitore e in
proporzione alle proprie
possibilità, al mantenimento dei
figli. Il mantenimento non
viene meno con la maggiore età dei
figli, ma si protrae fin quando
questi ultimi non saranno in grado
di provvedere in modo autonomo e
adeguato alle proprie esigenze, la
cui prova deve essere fornita in
apposito giudizio dal genitore
obbligato, al fine di essere
esonerato dal mantenimento.
Con l’approvazione del divorzio
quindi, molti di quei rapporti che
si basavano su compromessi dell’uno
e dell’altro finalmente si
interrompono. Con lo scioglimento
del matrimonio la donna, che prima
si sentiva totalmente relegata o
quasi costretta a vivere il rapporto
di coppia, può invece sentirsi del
tutto libera di scegliere se e
quando separarsi. Sostenere che la
separazione sia un atto del tutto
naturale o poco espressivo nella
vita di entrambi è assurdo, ma
sicuramente è liberatorio se questo
è vissuto in maniera soffocante e
non veritiera. Con la nuova sentenza
della Corte di Cassazione,
sull’assegno di mantenimento in caso
di divorzio, si incoraggia
l’indipendenza e l’autosufficienza
del coniuge che fino a questo
momento ha goduto dello stesso
tenore di vita avuto nel corso delle
nozze.
Il mantenimento può venire a mancare
quando, in base ad alcuni criteri,
si dimostra che il coniuge che
chiede l’assegno è autosufficiente.
In che modo? Dimostrando di avere
redditi, patrimoni, possibilità di
lavorare, casa di abitazione. Ma
sarà onere del coniuge debole,
dimostrare di non avere abbastanza.
Resta invece invariato l’obbligo di
mantenimento dei figli. Il
matrimonio cessa così di essere
“sistemazione definitiva”: sposarsi,
scrive la Corte, è un “atto di
libertà e auto responsabilità”.
A prima vista può sembra una
sentenza coerente, priva di
qualunque ingiustizia, non
sbilanciata a favore di alcun
coniuge, ma se si osserva bene,
però, le cose stanno diversamente. È
importante porre questa sentenza
sullo sfondo della situazione
economica e sociale italiana, e
delle condizioni dei due generi,
uomo e donna nel nostro Paese. Come
spesso accade sono le donne che
lasciano il lavoro per crescere i
figli, proprio per dare al marito la
possibilità di proseguire la
carriera professionale.
In base alla nuova sentenza, anche
lei avrà diritto a un assegno, che
però, nessuno le riconoscerà i
vent’anni di lavoro a casa, anni che
hanno consentito al marito di
affermarsi, tranquillo che tutte le
faccende domestiche e la cura dei
figli fossero seguite e risolte
dalla moglie. Anche perché sono
proprio loro, i mariti, a spingere
le mogli a smettere di lavorare. E
queste accettano di farlo non perché
inette, ma perché si rendono conto
che in una famiglia dove tutti e due
lavorano tantissimo il tasso di
stress è alle stelle, con
conseguenze anche sui loro figli.
Solo che in genere è lei a lasciare
il lavoro, proprio perché quasi
sempre guadagna spesso molto meno.
Quando i figli saranno grandi, e
finirà anche il mantenimento per
loro, questa donna potrebbe trovarsi
senza nulla.
Che le donne lavorino meno,
guadagnino meno e che siano di gran
lunga molto più precarie, è un dato
di fatto. Per questo motivo nella
maggior parte dei casi il coniuge
debole risulta proprio la donna e
non viceversa. Perciò non è vero che
ci si sposa in condizioni di parità,
perché la vera uguaglianza sarebbe
avere stipendi simili, tasso di
occupazione identici, contratti
uguali.