[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

186 / GIUGNO 2023 (CCXVII)


contemporanea

SULLA LIBERTà DELLE DONNE DI AMARE E... DIVORZIARE

Amo chi voglio, quando voglio e dove voglio

di Ilaria D’Alessio

 

Tra le anticipatrici del femminismo troviamo Sibilla Aleramo, che nel suo romanzo Una donna, ricalca quasi interamente il percorso della sua vita. Il romanzo è stato pubblicato nel 1906 e tratta di una giovane donna che, dopo essersi interrogata a lungo sul proprio ruolo di madre e di donna, alla fine, deciderà di affermare se stessa a costo di abbandonare il figlio scegliendo la sua libertà (in quegli anni quando una donna abbandonava il “tetto coniugale” automaticamente non aveva più alcun diritto sui figli).

 

Il libro sostanzialmente parla di quanto la Aleramo fosse contro il matrimonio e in particolare delle leggi che in quel periodo non tutelavano in alcun modo le donne, che dovevano sottostare al volere e alle decisioni del proprio marito. In quegli anni, la scrittrice scandalizzò l’opinione pubblica non solo per il contenuto del suo libro, ma anche per le scelte sentimentali successive e per la promiscuità dei suoi rapporti.

 

Più tardi nei primi mesi di pace dopo la seconda guerra mondiale, le donne che prendevano parte alle formazioni partigiane erano da tanti considerate scostumate e fuor di luogo e per questo motivo, fu sconsigliato loro di apparire in pubblico e per le strade con gli uomini. Nonostante il forte proibizionismo da parte degli uomini, le donne continuarono libere e fiere a esibire il loro volere e la loro ormai “conquistata” libertà.

 

Nonostante l’acquisizione di nuove certezze, però, negli anni Cinquanta e Sessanta, in Italia, amare e sposarsi rappresentavano due atti quasi del tutto scontati e tali da garantire la piena realizzazione per una donna. Ci si sposava presto anche per scappare dalle mura soffocanti della propria famiglia, spesso si passava dall’autorità del padre a quella del marito. Sebbene sia stata forte la necessità di sanare e di costruire le famiglie, saranno gli anni Settanta quelli veramente indicativi nel cambiamento della realtà delle donne nel nostro paese. In verità è il 1968 l’anno considerato uno spartiacque tra l’autoritarismo della società borghese, ancora molto diffuso, e la diffusione di una nuova cultura del permissivismo in cui i contestatori propongono non solo una rivoluzione nei costumi, ma soprattutto rivendicano maggiori diritti.

 

La contestazione del ’68 riguardò anche i ruoli tradizionali in seno alla società. Un protagonista di quegli anni fu anche il movimento femminista o neo-femminista – come si usa chiamarlo per distinguerlo da quello di inizio secolo finalizzato a rivendicare i diritti politici delle donne – che si sviluppò nel corso degli anni Sessanta, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, con l’obiettivo principale di mettere in discussione il ruolo subordinato della donna nella società. È proprio in questo momento, dunque, che in Italia si attua una vera e propria trasformazione nel rapporto di coppia e nella riconfigurazione del ruolo della maternità. Nel 1970 viene introdotto il divorzio, successivamente confermato con un referendum popolare nel 1974; nel 1971 viene abrogato l’articolo del codice che vietava gli anticoncezionali; nel 1978 passa la legge che consente l’interruzione della gravidanza entro i 90 giorni.

 

Il divorzio ha trovato stabile collocazione nella legislazione italiana con la Legge n. 898 del 1° dicembre 1970. Essa, ne prevedeva e ne prevede, l’applicazione non solo per i matrimoni celebrati con il rito civile, ma anche, per quelli celebrati con rito religioso in presenza di un ministro di culto.

 

Ciò ha generato dure proteste da parte della Chiesa cattolica nei confronti dello Stato italiano, in considerazione delle intese tra loro stipulate nel 1929 con la sottoscrizione del Concordato Lateranense con il quale lo Stato non solo accordava efficacia ai fini civili del vincolo matrimoniale sorto in ambito canonico (ritenuto indissolubile dalla Chiesa), ma riconosceva anche l’esclusività della giurisdizione ecclesiastica a giudicare quindi, sia l’eventuale invalidità che lo scioglimento per non averlo “consumato”.

 

La Corte costituzionale con due successive pronunce, una nel 1971 e l’altra nel 1973 ha dichiarato la legittimità della legge sul divorzio e la piena autonomia di disposizione attribuita allo Stato. Nei giorni 12 e 13 maggio 1974, su richiesta di un’ampia porzione dell’opinione pubblica che ne sollecitava l’abrogazione, la legge sul divorzio è stata sottoposta a referendum popolare, il cui esito fu negativo. Nel corso degli anni successivi sono avvenute innovazioni in materia, in particolare per la Legge n. 74 del 6 marzo 1987, la quale ha ridotto il termine minimo, tre anni, per poter proporre domanda di divorzio a seguito della pronuncia di separazione, originariamente previsto dopo cinque anni, ma può estendersi fino a sei o sette anni in caso di opposizione di uno dei due coniugi.

 

Analogamente a quanto previsto nel procedimento di separazione giudiziale, il tribunale può emettere una sentenza non definitiva di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, in attesa che venga poi decisa ogni altra questione che richieda indagini (ad esempio, circa l’entità dell’assegno divorzile). Ovviamente, qualora il genitore affidatario sia economicamente autosufficiente, questo è tenuto a concorrere, insieme all’altro genitore e in proporzione alle proprie possibilità, al mantenimento dei figli. Il mantenimento non viene meno con la maggiore età dei figli, ma si protrae fin quando questi ultimi non saranno in grado di provvedere in modo autonomo e adeguato alle proprie esigenze, la cui prova deve essere fornita in apposito giudizio dal genitore obbligato, al fine di essere esonerato dal mantenimento.

 

Con l’approvazione del divorzio quindi, molti di quei rapporti che si basavano su compromessi dell’uno e dell’altro finalmente si interrompono. Con lo scioglimento del matrimonio la donna, che prima si sentiva totalmente relegata o quasi costretta a vivere il rapporto di coppia, può invece sentirsi del tutto libera di scegliere se e quando separarsi. Sostenere che la separazione sia un atto del tutto naturale o poco espressivo nella vita di entrambi è assurdo, ma sicuramente è liberatorio se questo è vissuto in maniera soffocante e non veritiera. Con la nuova sentenza della Corte di Cassazione, sull’assegno di mantenimento in caso di divorzio, si incoraggia l’indipendenza e l’autosufficienza del coniuge che fino a questo momento ha goduto dello stesso tenore di vita avuto nel corso delle nozze.

 

Il mantenimento può venire a mancare quando, in base ad alcuni criteri, si dimostra che il coniuge che chiede l’assegno è autosufficiente. In che modo? Dimostrando di avere redditi, patrimoni, possibilità di lavorare, casa di abitazione. Ma sarà onere del coniuge debole, dimostrare di non avere abbastanza. Resta invece invariato l’obbligo di mantenimento dei figli. Il matrimonio cessa così di essere “sistemazione definitiva”: sposarsi, scrive la Corte, è un “atto di libertà e auto responsabilità”.

 

A prima vista può sembra una sentenza coerente, priva di qualunque ingiustizia, non sbilanciata a favore di alcun coniuge, ma se si osserva bene, però, le cose stanno diversamente. È importante porre questa sentenza sullo sfondo della situazione economica e sociale italiana, e delle condizioni dei due generi, uomo e donna nel nostro Paese. Come spesso accade sono le donne che lasciano il lavoro per crescere i figli, proprio per dare al marito la possibilità di proseguire la carriera professionale.

 

In base alla nuova sentenza, anche lei avrà diritto a un assegno, che però, nessuno le riconoscerà i vent’anni di lavoro a casa, anni che hanno consentito al marito di affermarsi, tranquillo che tutte le faccende domestiche e la cura dei figli fossero seguite e risolte dalla moglie. Anche perché sono proprio loro, i mariti, a spingere le mogli a smettere di lavorare. E queste accettano di farlo non perché inette, ma perché si rendono conto che in una famiglia dove tutti e due lavorano tantissimo il tasso di stress è alle stelle, con conseguenze anche sui loro figli. Solo che in genere è lei a lasciare il lavoro, proprio perché quasi sempre guadagna spesso molto meno. Quando i figli saranno grandi, e finirà anche il mantenimento per loro, questa donna potrebbe trovarsi senza nulla.

 

Che le donne lavorino meno, guadagnino meno e che siano di gran lunga molto più precarie, è un dato di fatto. Per questo motivo nella maggior parte dei casi il coniuge debole risulta proprio la donna e non viceversa. Perciò non è vero che ci si sposa in condizioni di parità, perché la vera uguaglianza sarebbe avere stipendi simili, tasso di occupazione identici, contratti uguali.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]