N. 41 - Maggio 2011
(LXXII)
Occidente e mondo Islamico
Il divario culturale incolmabile
di Lawrence M.F. Sudbury
Da
anni
non
c’è
giornale
al
mondo
che
non
debba
dedicare
quotidianamente
almeno
una
pagina
ai
suoi
fermenti,
ai
suoi
contrasti,
alle
sue
lotte
intestine
e
ormai,
variamente
traslitterati,
termini
lontani,
di
una
cultura
totalmente
altra
rispetto
alla
nostra,
come
Sunna,
Sciitismo,
Jihad,
Sha’aria,
Rais
e
molti
altri
ancora,
sono
diventati
parte
del
vocabolario
occidentale:
quello
che
viene
definito
“mondo
arabo”
è,
per
ragioni
storiche,
geografiche
e
sociali,
divenuto
parte
anche
del
nostro
mondo
occidentale.
“Così
vicini,
così
lontani”,
si
sarebbe
tentati
di
dire:
incontriamo
ogni
giorno
questo
“mondo
arabo”,
sugli
autobus,
nei
posti
di
lavoro,
passeggiando
per
strada,
eppure
rimane
sempre
e
comunque
un
“mondo
altro”,
con
regole
che
non
capiamo,
con
una
storia
che
abbiamo
studiato
solo
marginalmente
e
con
un’ottica
stravolta
dall’essere
“dall’altra
parte”
sui
libri
di
scuola,
con
abitudini
che
possono
apparirci
incomprensibili,
quantomeno
curiose
se
siamo
di
mente
aperta,
detestabili
in
caso
contrario.
In
un’epoca
di
turismo
di
massa,
però,
ciascuno
di
noi
può
facilmente
conoscere
questo
“mondo
arabo”
anche
in
prima
persona:
ogni
estate
voli
charter
e di
linea
sono
affollati
da
migliaia
di
europei
alla
ricerca
dell’“esotico”,
del
diverso
in
qualche
villaggio
turistico
egiziano,
tunisino
o
mediorientale.
Così
pensiamo
di
conoscerlo
questo
“mondo
arabo”,
di
averne
compreso
l’essenza
dopo
aver
parlato
per
pochi
minuti
con
qualche
animatore
turistico
o
con
guide
che
ci
appaiono
così
gentili
da
non
poter
appartenere
agli
stessi
popoli
che
alimentano
le
fila
di
Al-Qaeda,
che
compiono
stragi
come
quella
dell’undici
settembre...
Pensiamo
di
poter
comprendere
i
suoi
meccanismi
e di
poter
persino
assorbire
le
“dissonanze
cognitive”
che
derivano
da
esperienze
edulcorate
da
“villeggianti
portatori
di
valute
forti”
così
diverse
da
quanto
leggiamo
sui
conflitti
che
esplodono
periodicamente
e
con
un
ritmo
impressionante
da
Rabat
a
Bagdad.
Ma
non
è
così.
Un’alterità
radicale
Per
quanto
difficile
da
accettare,
è
necessario
ammettere
una
volta
per
tutte
che
l’essenza
del
pensiero
arabo
ci
rimane
estranea,
ci
sorprende,
ci
risulta
sempre
e
comunque
incomprensibile,
per
la
semplice
e
insieme
profondissima
ragione
che
essa
rappresenta
per
noi
un’alterità
così
radicale
e
assoluta
da
non
poter
in
nessun
modo
essere
incanalata,
oggi
(forse,
almeno
in
parte,
sarebbe
stato
diverso
qualche
centinaia
di
anni
fa),
nelle
nostre
strutture
mentali.
Perché?
Per
molte
ragioni.
Solo
per
accennare
alle
principali,
in
primo
luogo
perché
si
tratta
di
un
pensiero
fondamentalmente
religioso,
completamente
differente
per
nascita,
sviluppo
e
consequenzialità
causa-effetto
da
quello
laicista
occidentale
a
cui
siamo
abituati.
Volente
o
nolente,
infatti,
mondo
arabo
significa
Islam
e
l’Islam
è
una
religione
omninglobante,
pervasiva,
che
dà
forma
a
qualunque
aspetto
della
vita.
Così,
il
rapporto
con
Dio,
con
la
fede,
con
i
rappresentanti
del
clero
e
gli
interpreti
della
“volontà
divina”
racchiude
il
senso
di
qualunque
attività,
sia
essa
politica,
sociale,
economica
o
culturale.
Di
conseguenza,
per
ogni
atto
il
riferimento
è
“alto”,
anzi,
assoluto,
perché
ogni
cosa
è
sempre
e
solo
“inshallah”,
“se
così
vuole
Dio”,
e
ogni
comportamento
si
conforma,
si
deve
conformare,
almeno
formalmente,
alla
volontà
divina,
una
volontà
indiscutibile,
immutabile,
verso
la
quale
ogni
Musulmano
non
può
che
rapportarsi
unicamente
assumendo
un
atteggiamento,
appunto,
di
“islam”,
di
“sottomissione”.
E la
differenza
tra
mente
laica
e
mente
religiosa
in
questo
non
è
cosa
da
poco.
È
questa
differenza
che
aiuta
a
spiegare
ciò
che
per
noi
appare
inspiegabile,
che
aiuta
a
comprendere
i
“martiri”
terroristi
così
come
l’accettazione
di
sistemi
legislativi
che
per
noi
appaiono
spesso
inumani:
ogni
cosa
si
spiega
laddove
la
sfera
del
sacro
e la
sfera
del
quotidiano
si
toccano
e si
compenetrano
continuamente,
mentre
ogni
cosa
rimane
misteriosa
e
riduttivamente
liquidata
come
assurdamente
fanatica
laddove,
come
nella
nostra
cultura,
la
separazione
di
ambiti
è e
deve
essere
molto
chiara.
Da
questa
ragione
principale
derivano
tutte
le
altre.
Un
pensiero
acronico
La
seconda
ragione
di
“impossibilità
di
comprendere”
ne
è,
ad
esempio,
solo
un
corollario:
il
sistema
di
pensiero
arabo,
o
almeno
della
maggioranza
araba,
è
acronico.
In
nuce
ciò
è
ovvio,
implicito
proprio
in
quanto
detto
sull’assolutezza
del
pensiero
religioso:
se
tutto
viene
da
Dio,
dalla
sua
volontà
immutabile,
ebbene,
di
conseguenza
tutto,
legge,
morale,
sistema
di
vita,
è
sancito
da
sempre
e
per
sempre,
immutabilmente.
Ma
questa
è
solo
la
base.
In
realtà,
questa
“immutabilità”
non
differirebbe
da
quella
di
ogni
religione,
Cristianesimo
compreso,
pur
stante
la
differenza
di
pregnanza
del
dettato
divino
nell’esistenza
del
singolo
tra
mondo
islamico
e,
ad
esempio,
mondo
cristiano.
Ciò
che
forse
più
conta
è
l’impossibilità,
per
la
maggioranza
sunnita
(per
questo
si
parlava
di
“maggioranza
araba”),
anche
di
diacronicizzare
l’interpretazione
del
“verbo
sacro”,
di
adattare
la
sua
sostanza
alla
forma
e a
contesto
di
un
mondo
in
mutamento.
Tale
impossibilità
è
dovuta
essenzialmente
al “taglid”,
cioè
alla
chiusura
del
lavoro
interpretativo
del
Corano
e
della
Sunna
operato
nel
XIII
secolo
con
la
cristallizzazione
della
visione
delle
quattro
scuole
classiche
sviluppatesi
fino
a
quel
momento.
Se
anche
alcune
minoranze
contrappongono
al
“taglid”
la
necessità
di
una
“islah”,
cioè
di
una
riforma,
il
mondo
arabo,
proprio
per
questa
“ibernazione”
del
pensiero
religioso
accettato
dalla
stragrande
maggioranza
dei
Musulmani,
si è
trasformato
in
un
universo
statico
in
cui
ciò
che
conta
è
l’”imitazione
dell’esistente”
senza
alcun
progresso.
Proviamo
a
porci
la
domanda:
“noi
riusciremmo
a
pensare
come
un
Cristiano
del
1200?”:
se
la
risposta,
come
appare
naturale,
non
può
che
essere
negativa,
ecco
che
abbiamo
capito
gran
parte
dell’enorme
fossato
mentale
che
ci
separa
dai
popoli
arabi.
In
questo
senso,
appare
assurdo
ogni
tentativo
di
comprensione
o
addirittura
di
supporto
da
parte
occidentale
di
pratiche
e
strutture
sociali
che
agli
occhi
di
un
europeo
contemporaneo
possono
solo
apparire
“medievali”
(dalla
posizione
femminile
spesso,
e
questo
dovrebbe
farci
riflettere
a
lungo,
autoimposta
alle
rigidità
di
regole
di
vita
quotidiana
e di
socialità
ai
limiti,
ai
nostri
occhi,
dell’assurdo):
il
fatto
è
che
ci
appaiono
“medievali”
semplicemente
perché
lo
sono,
perché
sono
nate
in
un
periodo
storico
in
cui
regole
analoghe
e
strutturazioni
sociali
paritetiche
esistevano
anche
in
occidente,
con
la
differenza
che
nei
Paesi
arabi
esse
si
sono
congelate
come
“regole
divine”,
divenendo
intoccabili.
Il
senso
della
ummah
Perché
è
avvenuto
tale
congelamento?
A
causa
della
terza
grande
differenza
tra
strutture
mentali
occidentali
e
strutture
mentali
arabe:
la
preponderanza
del
peso
della
collettività
sul
peso
del
singolo.
Per
comprendere
questo
punto,
è
necessario
introdurre
un
concetto
tipicamente
islamico,
quello
di “ummah”.
La
“ummah”
è,
in
sostanza,
la
comunità
dei
fedeli
che
forma
un
corpo
unico
davanti
a
Dio,
la
parte
visibile,
terrestre,
del
corpo
mistico
formato
dall’unione
di
Dio
con
i
credenti
a
lui
sottomessi.
La
ummah
è,
dunque,
basata
su
una
relazione
sacra
e,
proprio
per
questo,
è
essa
stessa
sacra.
Da
qui
derivano
una
quantità
notevole
di
corollari.
Senza
contare
il
senso
di
fratellanza
di
tutti
i
Musulmani
nell’Islam
e il
concetto
di “Dar-al-Islam”,
terra
sacra
dell’Islam,
patria
della
ummah
e
intoccabile
dagli
infedeli,
forse
gli
elementi
che
possono
apparire
più
difficili
da
inquadrare
per
chi
ragiona
con
strutture
mentali
occidentali
sono
la
condanna
assoluta
dell’apostata
(“murtaddun”)
come
il
peggiore
dei
criminali
e,
piuttosto
paradossalmente,
la
relativa
neutralità
di
giudizio
nei
confronti
di
chi
si
ribella
all’autorità
costituita
(“baghi”).
In
realtà,
tale
apparente
contraddizione
risulta
facilmente
comprensibile
alla
luce
sia
delle
vicende
storiche
del
mondo
islamico
e
proprio
di
quanto
affermato
riguardo
alla
ummah.
Se,
infatti,
l’apostasia
risulta
essere
il
rifiuto
delle
basi
si
cui
si
regge
il
senso
stesso
della
ummah
e,
di
conseguenza,
un
pericolo
gravissimo
per
la
sua
stessa
esistenza,
la
ribellione,
se
mantenuta
all’interno
dei
limiti
della
fede,
non
viene
vista
tanto
come
un
tradimento
della
comunità
stabilita
da
Dio,
quanto
come
un
reindirizzamento,
più
o
meno
lecito
a
seconda
dei
singoli
casi,
della
comunità
stessa
per
meglio
adempiere
ai
comandi
divini.
È
cosa
nota
che,
praticamente
dai
primi
anni
della
sua
esistenza
e
fino
a
tutto
il
medioevo
l’Islam
ha
avuto
una
forte
tendenza
a
dividersi
in
fiumi
e
rivoli
dottrinari,
spesso
in
lotta
tra
loro:
la
chiusura
dell’interpretazione
nasce
proprio
dalla
volontà
di
impedire
ulteriori
divisioni
e di
mantenere
una
unità
teologica
della
ummah,
ma,
questo
non
implica
una
necessaria
unità
politica,
come
appare
chiaro
anche
dalle
recenti
rivolte
che
stanno
scuotendo
il
mondo
arabo,
proprio
in
virtù
della
liceità
della
ribellione,
soprattutto
dopo
la
fine
dell’istituzione
califfale.
La
fine
del
califfato
e la
frantumazione
politica
Se
la
ummah
è la
base
della
società
islamica
in
astratto,
infatti,
nel
concreto
essa
ha
avuto
una
sorta
di
“avatar”
politico
nel
califfato,
nella
struttura
statale
che
ha
al
suo
vertice
l’erede
del
Profeta
incaricato
di
guidare
il
popolo
arabo.
Ebbene,
dopo
l’abbattimento
del
califfato
per
mano
dei
Mongoli,
esso
viene
sostituito,
nell’immaginario
collettivo
e in
funzione
coesiva
del
mondo
arabo,
dal
sultanato
ottomano,
che
diventa,
così,
depositario
delle
chiavi
del
potere
temporale
sulla
ummah.
Difficilmente
è
possibile
capire
la
struttura
del
mondo
arabo
attuale,
i
suoi
conflitti
interni
ed
esterni,
i
suoi
rapporti
con
l’occidente
se
si
prescinde
dal
prendere
in
considerazione
lo
shock
socio-culturale
legato
alla
fine
del
sultanato
ad
opera
della
rivoluzione
militare
dei
1924.
Nonostante
la
caduta
dell’ultimo
sultano-califfo,
Abdul
Mejid
fosse
stata
in
parte
causata
proprio
dai
vari
nazionalismi
arabi
(ma
molto
più
dalle
mire
colonialiste
ed
espansioniste
europee),
la
fine
dell’istituzione
califfale
segnò,
in
qualche
modo,
la
chiusura
di
un’epoca
lunghissima,
iniziata
nel
1299,
e,
soprattutto,
dell’ultimo
elemento
politico
unificante
della
ummah,
venendo
vissuta
come
un
trauma
epocale
e
lasciando
nell’animo
dei
più
ferventi
fedeli
un
vuoto
che
ancora
oggi
richiede
di
essere
colmato
con
una
ricomposizione
dell’unità.
Da
quel
momento
in
poi,
comunque,
ogni
Paese
in
cui
la
ummah
si
trovò
frantumata,
ebbe
una
storia
a sé
stante,
nella
maggioranza
dei
casi,
in
epoca
post-coloniale,
segnata
da
moti
ondivaghi
tra
desiderio
di
modernità
e
riscatto
nazionale
(che
ha
dato
spazio,
in
numerose
occasioni,
a
svolte
dittatoriali)
e
profondo
sentimento
di
frustrazione
per
un
passato
perduto,
visto
come
luogo
e
tempo
della
“purezza
dottrinale”,
idealizzato
in
forma
quasi
edenica
e
concretamente
legato
al
passato
imperial-califfale.
Ecco,
dunque,
che
nell’immaginario
collettivo
di
buona
parte
del
mondo
arabo
il
tempo
presente
rimane
caratterizzato
dalla
frantumazione
della
ummah
e
dal
senso
di
essere
parte
di
quello
che
fu
un
“dominio
universale”,
una
grande
unità
coesa
che
non
esiste
più
ma
che
dovrebbe
ritornare
a
vivere.
È
questo
il
sogno
di
gran
parte
delle
correnti
fondamentaliste
arabe,
un
sogno
che
può
essere
spunto
per
diversi
indirizzamenti
politici,
in
gran
parte,
secondo
la
teologia
islamica,
accettabili
e
che,
proprio
nella
loro
liceità,
impediscono
qualunque
schieramento
delle
Istituzioni
preposte
all’accertamento
dell’ortodossia
in
base
alla
Sha’aria
anche
nelle
recenti
vicende
del
mondo
Arabo.
Non
condivisione
ma
rispetto
Posto
che,
per
quanto
detto
in
precedenza,
non
ne
potremo
mai
superare
pienamente
lo
scoglio
della
alterità
che
culturalmente
ci
separa,
possiamo
semplicemente
liquidare
il
mondo
arabo
come
una
entità
aliena
inconoscibile?
Certamente
no.
Lasciando
anche
da
parte
il
livello
storico
che
vede
una
discreta
parte
d’Europa,
dalla
Spagna
moresca
al
sud
Italia,
come
parzialmente
erede
di
tratti
socio-culturali
di
derivazione
arabica,
è a
livello
pratico
che
una
resa
di
fronte
alla
incomprensibilità
di
un
mondo
lontano
dal
nostro
sarebbe
letale:
in
primo
luogo
perché
questo
mondo,
per
quanto,
appunto,
lontano
dal
punto
di
vista
del
pensiero,
è
vicinissimo
dal
punto
di
vista
geografico,
fino
a
far
parte
di
quella
macro-comunità
mediterranea
di
cui
anche
il
nostro
Paese
fa
parte;
in
secondo
luogo
perché,
proprio
come
conseguenza
di
tale
vicinanza
e di
una
crisi
economica
che
da
ben
più
a
lungo
e
con
maggiore
intensità
colpisce
il
Paesi
arabi
rispetto
a
quelli
occidentali,
i
nostri
due
“mondi”
si
stanno
se
non
amalgamando
almeno
apprestando
a
condividere
sempre
di
più
gli
stessi
spazi,
a
convivere
spalla
a
spalla
anche
se
difficilmente
mescolandosi
e
una
tale
dinamica
può
essere
pacifica
o
violenta,
ma
in
ogni
caso,
è
inevitabile;
infine,
perché
la
definizione
di
“alieno”
implica
una
certa
dose
di
ostilità,
che
quotidianamente
si
manifesta
in
tutte
le
aree
di
migrazione
e
assume
connotazioni
tragiche
in
caso
di
eventi
terroristici
o
bellicosi,
una
ostilità
che
può
e
deve
essere
rimossa
solo
attraverso
il
rispetto
per
le
differenze.
Che
cosa
possiamo
fare,
dunque?
Se
ci è
impossibile
interiorizzare
o
anche
solo
comprendere
a
pieno
il
pensiero
arabo,
quello
che,
comunque,
ci è
permesso
fare
è
osservare
e
tentare
di
capire
le
ragioni,
le
matrici
della
diversità,
le
dinamiche
di
un
mondo
altro
e il
loro
rapportarsi
con
le
nostre
dinamiche.
Perché
solo
conoscere
tale
fisionomia
può
portare
non
alla
condivisione,
ma
almeno
al
rispetto.
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