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N. 38 - Febbraio 2011 (LXIX)

SULLA disoccupazione
Interpretazioni

di Giovanni Piglialarmi & Roberto Rota

 

Lucas, un noto economista statunitense, ha affermato, nel 1981, che la disoccupazione è un fenomeno volontario.

 

Che cosa ha voluto indicare lo studioso con questa espressione? È il lavoratore che, per certi versi, sceglie questa condizione considerando i vantaggi maggiori dei costi. E questa linea teorica potrebbe essere in perfetto accordo con un’economia di stampo liberale. In questo senso, la disoccupazione ha meno caratteristiche patologiche di quanto si pensi. Ovviamente a far sembrare tutto ciò più drastico sono i partiti politici e i sindacati.

 

Ma l’ultima analisi è questa: la disoccupazione è una condizione volontaria, di vita “scelta” dagli individui.

 

Ovviamente l’individuo ha un insieme di alternative da scegliere. Sen (autore di Etica ed Economia, premio Nobel per l’economia nel 1998 ) e Slow, economisti che hanno studiato e si sono interessati al fenomeno, si oppongono ad un’ idea di una disoccupazione sempre e comunque volontaria.

 

Secondo questi ultimi, ragionando sempre come i neoclassici, si finirebbe per pensare che i soldati americani sono andati a combattere in Vietnam perché suicidi. In realtà sono andati lì perché non hanno disertato, né scappati in Canada né si sono sparati un colpo alle gambe.

 

In tutta questa questione, aperta da anni, una cosa importante da analizzare è l’equilibrio del mercato del lavoro.

 

Quando si raggiunge un’ipotesi di equilibrio sul mercato del lavoro? Graficamente parlando, se il salario coincide con l’incontro istantaneo della domanda dell’offerta di lavoro, si è creato un momento di equilibrio.

 

Un problema della disoccupazione, allora, potrebbe essere anche il salario? Se il mercato non riesce a raggiungere l’equilibrio, vuol dire che viene imposto un salario più alto o più basso di quello per il quale domanda ed offerta di lavoro sono uguali.

 

La disoccupazione allora si spiega con un eccessivo salario o viceversa ed è sufficiente una rimozione delle rigidità imposte dalla legislazione o dalle parti sociali per ripristinare rapidamente la condizione di piena occupazione, tenendo conto sempre del tasso naturale di disoccupazione.

 

Al contrario, anche Keynes ha dato una sua interpretazione al fenomeno della disoccupazione.

 

Secondo il modello Keynesiano, è la bassa domanda aggregata che causa bassa domanda di lavoro e quindi disoccupazione. Quindi, il problema non è l’offerta o un prezzo sbagliato. Secondo la teoria generale, è il sistema capitalistico ad avere pregi e difetti. Uno dei tanti è quello di persistere in uno stato di equilibrio a lungo termine con disoccupazione.

 

Non è opportuno entrare nel merito per discutere se sia più efficiente una politica fiscale o monetaria, ma occorre vedere come la legge di Okun, figlia della tradizione Keynesiana sia in un certo senso compatibile con la teoria neoclassica. Questa legge afferma che esiste una certa relazione positiva tra il livello del reddito e dell’occupazione. Molti economisti definiscono questa situazione una sorta di regolarità empirica.

 

La sua piena applicazione e il suo ottimo funzionamento lo si riscuote nel Fordismo. Quest’ultimo, sistema economico – sociale, basato sulla standardizzazione delle tecnologie di produzione rendeva praticamente sempre vero che più produzione si otteneva solo con più impianti e più lavoratori impiegati nel processo di produzione. Quindi aumentando i livelli di occupazione, aumentava anche la produzione.

 

Qual’ era l’obiettivo della legge di Okun? Tradurre in quantità l’insegnamento Keynesiano. Dunque, per un aumento della produzione, aumenta tenendo conto della tecnologia standard l’occupazione e aumenta anche la domanda di beni e servizi della pubblica amministrazione.

 

Per combattere la disoccupazione bastava aumentare la spesa pubblica o incentivare la spesa privata di un determinato importo calcolato con la legge matematica di Okun.

 

Dal 1975 la teoria Keynesiana ha influenzato un po’ tutto il mondo. Modigliani per esempio era convinto che la disoccupazione dipendesse da una bassa domanda aggregata.

 

Cosa si può dire in merito alle politiche adottate per la lotta alla disoccupazione? In un certo senso si possono definire quasi tutte fallimentari. O quanto meno “passate di moda”.

 

L’obiettivo della politica economica non dovrebbe essere il pieno impiego. Keynes è stato abbandonato negli anni ’70. La legge di Okun è stata definita un “ferro vecchio”, oltre che ritenuta limitata per i tempi. Si è parlato negli ultimi anni di una crescita economica molto veloce ma di una caduta rapida di benefici.

 

Non bastano più le politiche di stimolo per la domanda. L’idea dei bassi salari per aumentare i profitti sembra più solida ma anch’essa non è insormontabile. Ha due punti deboli. Il primo riguarda un ribasso dei salari seguito da un ribasso della domanda.

 

Quindi questo provoca una pessimistica previsione d’investimento per l’imprenditore che vuole entrare nel campo del mercato, per mettersi in concorrenza. Il Secondo riguarda sempre un ribasso dei salari seguito da un aumento veloce della disoccupazione. In questo caso si crea un rischio molto pericoloso per il mondo del lavoro. Si va a dar vita ad una sorta di “precarizzazione” su coloro che sono occupati.

 

Nel 1995, Rifkin, un economista statunitense, scrisse un saggio. Ebbe una grande risonanza sull’opinione pubblica. Il saggio argomentava sul fatto che più del 75% della forza lavoro in USA fosse stato reso perfettamente sostituibile con l’introduzione nel processo produttivo della macchina.

 

Così scrive nel saggio: “Ci si sta avvicinando velocemente ad un mondo quasi privo di lavoratori e ciò accade prima che la società abbia il tempo sufficiente per discutere sulle implicazioni più profonde e per prepararsi a questo impatto. Ciò che resta è uno strano assortimento di posti mal pagati nel terziario e non solo, di numerose forme di disoccupazione nascoste chiamate a volte “periodo di formazione” e altre volte “lavoro in proprio”.

 

Con il completamento della Rivoluzione Industriale, la macchina è diventata componente essenziale del processo produttivo. Che cosa è cambiato secondo Rifkin?

 

Sicuramente la qualità e la quantità in tutti i settori di produzione (in questo caso l’economista parla del famoso processo di re-engineering). Anche in altri momenti storici la macchina ha portato riflessioni e crisi.

 

Basti ricordare Ricardo che nella sua opera intitolata “Principi” discute ampiamente sul problema. Rifkin, dunque, arriva alla conclusione che il mercato del lavoro si sia segmentato tra elementi di insider e outsider. L’economista, infine, arriva ad affermare che ci sono due possibili alternative per dare un contributo alla risoluzione o per quanto meno alla diminuzione della disoccupazione.

 

La prima suggerisce di andare avanti spontaneamente generando continue disparità, seguendo le libere leggi del mercato. Devono essere favorite politiche di contenimento e di repressione del fenomeno criminale.

 

La seconda, invece, mette in evidenza che bisogna dividere il restante lavoro manuale tra più persone: investire parte della ricchezza ricavata dal mercato sul benessere della vita degli individui e dare così “un sorta di lavoro” ai disoccupati. Una sorta di ridistribuzione del surplus.

 

È possibile, dunque, la stipula di un contratto di lavoro ripartito (job sharing), quindi l’adempimento di un’unica e identica obbligazione. È indifferente al datore di lavoro chi la compie tra i coobbligati. Le strategie possono essere svariate.

 

Anche i lavori socialmente utili hanno mostrato la loro efficienza. Essi hanno per oggetto la realizzazione di opere e la fornitura di servizi di utilità collettiva. Sono anche utili per un’occupazione chiara e definita che lotta contro il lavoro sommerso. Questi lavori potrebbero essere promossi proprio dalla p.a. per esempio in materia di investimenti urbanistici (recupero, qualificazione di spazi urbani, valorizzazione del patrimonio artistico e altri).

 

Economisti come Schor, Franzinetti , Addis, Vaccarino, Jossa sostengono che per rispondere al fenomeno della disoccupazione sia necessario reagire con politiche di riduzione dell’orario di lavoro. Quindi, in una società abbastanza ricca, la disoccupazione va divisa quanto le ore di lavoro.

 

Ma chi sopporta i costi della riduzione dell’orario di lavoro? L’Unione Europea nel 1994 ha dato vita ad un progetto per la riduzione generalizzata del lavoro chiamato “Piano Delors”. La questione è ancora aperta.

 

Ha scritto Gorz, nel 1998, che “nel mondo in cui viviamo il capitalismo che ha gridato guerra alla classe operaia ha vinto, così da mettere in crisi il sistema in movimento verso un assetto nel quale il capitale potrà fare sempre più a meno del lavoro. E ciò genera emarginazioni di fasce ampie della popolazione perché il lavoro continua ad essere generatore di senso di appartenenza, di realizzazione personale, di identità sociale”.



 

 

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