SULLA
DISFATTa DI CAPORETto
EVENTI, PERSONAGGI, CONSEGUENZE /
PARTE II
di
Luca Mannucci
Sul
piano generale, Cadorna ebbe colpa
di non aver sviluppato una dottrina
militare meglio aderente alle
necessità della guerra di posizione,
con una generale propensione a
evitare le riunioni con i suoi
comandanti e i comandi stessi dei
corpi d’armata d’armata. Invece, sul
piano prettamente pratico della
battaglia di Caporetto egli aveva
ordinato che le sue armate
sull’Isonzo approntassero una difesa
nelle migliori condizioni possibili.
Luigi Capello, avendo una visione
più offensiva rispetto a quella di
Cadorna, credeva che in caso
d’attacco occorresse lanciare subito
un’energica controffensiva, non solo
a fini tattici, come raccomandava
Cadorna, ma anche a fini strategici.
Per questo motivo decise, solo
parzialmente e in ritardo, gli
arretramenti del grosso delle truppe
e delle artiglierie pesanti sulla
destra dell’Isonzo. Bisogna però
tenere in considerazione che tutte
le disposizioni date da Capello
furono trasmesse, per conoscenza,
anche al comando supremo e che
Cadorna non ebbe nulla da obiettare.
A questo si aggiunge il fatto che
Capello, già costretto a letto da
una nefrite agli inizi di ottobre,
nei giorni antecedenti l’attacco
nemico dovette ricoverarsi in
ospedale, lasciando il comando
interinale della 2ª Armata al
generale Luca Montuori,
riprendendolo solo il 22 ottobre.
Il
cambio al comando generò confusione
nelle truppe comandate da Capello e
lo stesso Cadorna si allontanò per
15 giorni, poco convinto che il
nemico avrebbe sviluppato un
offensiva su vasta scala, e quando
rientrò al comando generale di Udine
il 19 ottobre, rimase convinto che
l’azione nemica a Tolmino fosse solo
un diversivo per distogliere
l’attenzione dalla vera offensiva
che sarebbe partita più a sud.
D’altro canto Cavaciocchi,
comandante del IV Corpo d’armata,
non godeva della stima di Cadorna
per le sue scarse qualità di
comandante e non era molto presente
tra i suoi uomini. Cavaciocchi era
convinto che le sue linee fossero
abbastanza fortificate per resistere
a un eventuale attacco mentre in
realtà gli uomini di Below
impiegheranno solo tre ore per
sfondarle. Egli ammassò le sue
truppe attorno al monte Nero anche a
battaglia in corso, trovandosi
all’improvviso senza riserve.
Il XXVII Corpo d’armata era invece
guidato da Badoglio, anche lui
sicuro della preparazione delle sue
truppe e proprio da lui partì
l’errore tattico più sconcertante
compiuto sul suo fianco sinistro,
ovvero sulla riva destra
dell’Isonzo, tra la testa di ponte
austriaca davanti a Tolmino e
Caporetto: questa linea, lunga pochi
chilometri, costituiva il confine
tra la zona di competenza del suo
reparto e quello di Cavaciocchi
(riva sinistra) e, nonostante tutte
le informazioni indicassero proprio
in questa linea la direttrice
dell’attacco nemico, la riva destra
fu lasciata praticamente sguarnita
con piccoli reparti a presidiarla
mentre il grosso della 19ª Divisione
e della brigata “Napoli” rimaneva
trincerata sui monti vicini.
Sicuramente, in una giornata di
tempo sereno, la posizione in quota
avrebbe consentito alla 19ª
Divisione di dominare tutta la riva
destra rendendo il corridoio
impercorribile ma,invece, il 24 la
presenza di nebbia fitta e pioggia,
impedì alle truppe italiane di
accorgersi del passaggio dei
tedeschi a fondovalle che
catturarono senza combattere le
scarsissime unità italiane lì
presenti. In quota comunque, la 19ª
Divisione resistette tenacemente per
un giorno bloccando varie volte gli
attacchi delle truppe nemiche, ma
alla fine fu costretta ad
arrendersi.
L’artiglieria italiana, sebbene
numerosa e ben rifornita, non aveva
ricevuto un addestramento
sufficiente, e nessuna differenza si
faceva sul suo uso offensivo e
difensivo, infatti venne ordinato
semplicemente di disporre i cannoni
il più avanti possibile per
aumentarne la gittata. Cadorna
quando il 18 settembre ordinò ai
suoi generali di predisporre le
linee di difesa, ordinò anche di
arretrare in posizioni sicure le
artiglierie, ma il 10 ottobre cambiò
idea e ordinò a Capello di lasciare
i piccoli calibri nelle trincee e i
medi sulla Bainsizza, alterando di
fatto in misura irrilevante lo
schieramento complessivo. È da
aggiungere anche che molti
artiglieri non erano provvisti di
fucili, e non si era pensato a delle
fanterie da porre a protezione delle
batterie di cannoni, problema che
poi si ripresenterà, in maniera
anonima, nel secondo conflitto
mondiale per quanto riguarda il
binomio corazzati-fanteria.
L’attacco delle formazioni nemiche
cominciò intorno alle ore 8:00 con
uno sfondamento immediato sull’ala
sinistra del XXVII Corpo d’armata,
occupato dalla 19ª Divisione, e
sull’ala destra del IV Corpo
d’armata tra Tolmino e Caporetto.
Generalmente il fuoco di
contro-sbarramento delle artiglierie
italiane fu inefficace e ritardato
per alcuni motivi: 1) i comandi
italiani erano effettivamente
impreparati per quanto riguarda
l’uso dell’artiglieria soprattutto
per quanto riguarda l’attuazione del
tiro di contro-batteria; 2) il meteo
nella notte del 24 ottobre gioco a
sfavore dei fanti italiani al fronte
in quanto neve, pioggia e foschia
impedirono alle prime e alle seconde
linee italiane di scorgere in tempo
l’avanzata delle fanterie nemiche e
di conseguenza di ordinare il tiro
controffensivo con i piccoli e medi
calibri, mortai e bombarde
divisionali. Fu necessario ricorrere
infine alle staffette, con tutti i
ritardi legati ad esse in un teatro
caotico come quello. oltre a ciò,
merita menzione l’ “epopea” Badoglio
che, individuato dalle artiglierie
nemiche, dovette più volte spostare
il suo comando ritrasmettendo ogni
volta la sua nuova posizione
dall’altra parte gli operatori
tedeschi addetti alle
intercettazioni telefoniche furono
però sempre in grado di passare le
giuste coordinate all’artiglieria,
che impedì così al capo del XXVII
Corpo d’armata italiano di prendere
stabilmente contatto con i suoi
uomini; 3) Il regio esercito e
soprattutto i suoi comandanti, erano
sicuri di poter far fronte
all’assalto degli austriaci,
consapevoli che l’Austria fosse agli
sgoccioli ma ignorando la capacità
militare e di manovra dei reparti
tedeschi; 4) Gli ufficiali erano
tutti diplomati che venivano
chiamati a comandare uomini che
avevano più esperienza di loro ma
che non si potevano opporre ai
“signori ufficiali”, particolare che
invece non era presente
nell’esercito tedesco dove la
maggior parte dei comandanti
(capitani e tenenti) erano, nella
vita civile, o capi reparto o capi
officina ovvero persone abituate a
comandare e che sapevano cosa
significava comandare degli uomini,
a differenza del regio esercito
Da parte austro-tedesca, ci fu una
nuova dottrina di impiego delle
forze in campo, soprattutto per
quanto riguarda l’impiego
dell’artiglieria e delle truppe
d’assalto, una nuova dottrina nata
in seno all’esercito tedesco e che
venne impiegata anche contro il
regio esercito.
Se da una parte, il regio esercito
era bloccato da una burocrazia e da
una mentalità che impediva ai
singoli capitani di prendere
decisioni in autonomia, dall’altra
parte, soprattutto da parte tedesca,
nacque l’idea che non era necessario
mandare all’assalto orde di soldati
addosso alle mitragliatrici,
supportati da bombardamenti di
artiglieria che duravano giorni ma
ne sarebbero bastati pochi gruppi,
pesantemente armati e addestrati per
sfondare i punti deboli del fronte
nemico, aprire un varco e
successivamente far affluire in quei
varchi il grosso dell’esercito.
Questa fu una tecnica e prima ancora
una mentalità che nacque prima di
Caporetto, dopo che si era conclusa
la famosa “corsa al mare”; la corsa
al mare fu una serie di tentativi di
aggiramenti che ebbero inizio in
Francia nel settembre del 1914 e
prosegui nelle Fiandre e in
Piccardia, portando alla fine, la
linea del fronte fino alle coste del
mar del nord e che diede il via alla
guerra di trincea.
A Caporetto, mentre le linee
italiani erano bloccate dal caos
tattico generato dalla mancanza di
informazioni e di comandi,
dall’altra parte, i reparti tedeschi
avanzano autonomamente verso il loro
obiettivo, utilizzando non solo le
conoscenze acquisite dallo
spionaggio ma anche le nuove
capacità di manovra che avevano a
differenza degli italiani che si
possono riassumere con la frase:
«dovete arrivare all’obiettivo, se
non avete informazioni o ordini,
gestitevi da soli, ma non rimanete
fermi».
Questa nuova tipologia di conduzione
della guerra, porta alla luce una
grande differenza che sarà lampante
nel primo periodo di guerra del
secondo conflitto mondiale: la
guerra di movimento che si oppone
alla guerra di posizione, la manovra
che si oppone alla staticità
dell’avversario che, come a
Caporetto nel ‘17 cosi come alla
Linea Maginot nel ‘40, portò
inevitabilmente alla caduta del
fronte avversario, dimostrando come
per opporsi alla guerra di
movimento, pensiero che era ancora
in gestazione durante la prima
guerra mondiale, occorreva una
difesa mobile, pensiero anche questo
in via di sviluppo durante il primo
conflitto, ma entrambi prenderanno
vita e arriveranno all’apice nel
conflitto ‘39-’45.
La disfatta subita dagli italiani a
Caporetto mise in luce le grosse
limitazioni dell’esercito italiano
e, dopo la conferenza di Rapallo,
venne destituito non solo Cadorna ma
anche Capello e Cavaciocchi,
colpevoli, secondo la commissione
d’inchiesta, di non essere stati in
grado non solo di far fronte alla
controffensiva ma soprattutto di
aver perduto circa 300.000 unità e
quasi 2.500 pezzi d’artiglieria.
L’esercito, attestato alla metà di
novembre del 1917 sul Piave,
svilupperà nuove tecniche di
combattimento atte a riprendere in
mano la capacità offensiva contro
gli austriaci. Il posto di Cadorna
fu preso da Armando Diaz, che darà
una nuova svolta all’esercito e alle
modalità di comando, dal punto di
vista militare, lungo tutto il
fronte del Piave, l’esercito riuscì
a resistere agli attacchi nemici
che, dopo quasi centocinquanta
chilometri di avanzata, erano allo
stremo e non riuscirono a forzare le
difese italiane tranne per due teste
di ponte installate a Capo Sile e a
Cortellazzo.
Mentre sul fronte militare la
situazione sembrava assestarsi,
anche se si avrà bisogno di altre
battaglie per fermare
definitivamente gli austriaci e poi
respingerli indietro, a livello
sociale, la disfatta di Caporetto
segnò un punto fondamentale nella
mentalità dei cittadini che
cominciarono a chiedersi se,
effettivamente, non ci fosse bisogno
di una svolta più autoritaria nella
politica italiana, per far fronte a
quei problemi sociali e militari che
affliggevano l’Italia in quel
momento.
Ulteriore peso a questo pensiero, fu
dato dal bollettino di guerra che
Cadorna fece circolare subito dopo
la disfatta: «La mancata
resistenza di reparti della II
Armata, vilmente ritiratisi senza
combattere, ignominiosamente
arresisi al nemico o dandosi
codardamente alla fuga, ha permesso
alle forze austrogermaniche di
rompere la nostra ala sinistra del
fronte Giulia».
(estratto del bollettino di guerra
scritto da Cadorna in merito alla
disfatta di Caporetto)
Con questo bollettino, Cadorna
scaricò tutta la colpa
sull’esercito, marcito per colpa di
quella branca della politica e della
società che ancora spingeva per la
pace e per la fine del conflitto,
posizione vista da molti come
un’inquinante per il morale della
truppa e per la conduzione della
guerra che invece doveva continuare
contro il nemico secolare. Si fa
avanti, lentamente, l’idea che c’è
qualcosa di marcio nel paese e anche
questo a fatto sì che si verificasse
il disastro di Caporetto.
A suggellare questa idea, un
estratto di una lettera del Gen.
Luigi Cadorna indirizzata al Gen.
Konrad Krafft von Dellmensingen
datata 1925: «[…] il disastro di
Caporetto non sarebbe stato
possibile se in Italia ci fosse
stato il forte governo attuale […]».
Nel 1925, in Italia, era già
presente il governo fascista.