[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

192 / DICEMBRE 2023 (CCXXIII)


contemporanea

SULLA DISFATTa DI CAPORETto

EVENTI, PERSONAGGI, CONSEGUENZE / PARTE i

di Luca Mannucci

 

Nell’immaginario collettivo, la parola Caporetto evoca la disastrosa disfatta dell’esercito italiano, avvenuta alla fine dell’ottobre del 1917, a seguito di una controffensiva attuata dagli eserciti austro-ungarico-tedesco contro le linee del regio esercito, causando il crollo e la successiva ritirata dei reparti di Luigi Cadorna e consegnando al nemico quasi 300.000 prigionieri dei quali, molti, non torneranno in patria.

Il primo confilitto mondiale, scatenato dall’uccisione dell’Arciduca Francesco Ferninando I d’Austria, avvenuto il 8 giugno 1914 coinvolse immediatamente gli imperi secolari europei, Austria e Germania da una parte e Francia, Inghilterra e Russia dall’altra, coinvolgimento dettato da tutta una serie di alleanze che governavano la politica europea di fine ‘800 e inizio ‘900.

Con lo scoppio del conflitto l’Europa viene sconvolta dalle grandi battaglie che segneranno il conflitto per numero di perdite e per le proporzioni titaniche che ebbero, Tannenberg agosto 1914, La Marna settembre 1914, Verdun febbraio 1916, La Somme settembre-novembre 1916.

Mentre gli anglo-francesci si confrontano con i tedeschi sul fronte franco-tedesco, i russi e i tedeschi si danno battaglia a est mentre l’Austria è impegnata in Galizia contro i russi, dopo aver sconfitto la Serbia nel 1915 grazie all’appoggio tedesco, colpevole di aver tramato per l’uccisione dell’Arciduca. L’Italia, facendo fede a un articolo presente dei trattati di alleanza stipulati in passato con la Germania e l’Austria, invece, decise di rimanere fuori dal conflitto, facendo a suo tempo fronte allo scontro tra neutralisti e interventisti che spingevano, i primi, alla neutralità dello stato in questa guerra (capitanati dalla figura di Giolitti), mentre i secondi volevano l’intervento militare contro il nemico secolare per poter condurre a compimento l’unificazione italiana (per molti la prima guerra mondiale era considerata come la quarta guerra d’indipendenza contro l’Austria). Il confronto fra neutralisti e interventisti si concluse con la vittoria di quest’ultimi, fra i quali spiccano figure quali Mussolini e più di tutti Gabriele D’Annunzio, vittoria seguita poi da una serie di incontri con le potenze dell’Intesa per decidere i dettagli della nuova alleanza.

A seguito dei famosi “Patti di Londra” dell’aprile del 1915, una serie di accordi politico-militari che portarono a un sensazionale cambio di alleanze, l’Italia entrò in guerra a fianco di Inghilterra, Francia e Russia contro i vecchi alleati pre 1914. Allo scoppio dello conflitto con l’Austria e la Germania, il Regio esercito, anche se militarmente ed economicamente più debole del suo avversario, in quel momento poteva vantare di un esercito con ancora tutti gli effettivi e con un economia supportata dagli aiuti degli alleati, a differenza invece dell’esercito austriaco che, non solo nel primo anno di guerra aveva perso circa un milione di effettivi (morti, feriti, dispersi) ma aveva un economia bloccata, in quanto il mediterraneo era sotto controllo delle marine dell’Intesa e non arrivava nulla dalle colonie.

La strategia del Generale Cadorna, capo supremo delle forze armate italiane si basava su una duplice strategia: dalla parte del trentino, Cadorna aveva intenzione di contenere le truppe austriache con azioni di natura offensiva e difensiva, per contenere gli austriaci nel loro saliente che aveva uno dei punti forti sulla citta di Trento e sull’Adige. Dall’altra parte, sul fronte isontino invece Cadorna aveva intenzione di concentrare lo sforzo offensivo per poter conquistare nel breve periodo Gorizia e nel lungo periodo, arrivare a Vienna utilizzando Trieste come passaggio.

Dal 1915 al 1917, l’esercito italiano intraprende una serie di offensive sul fronte isontino e nel 1916, dopo quasi un anno di combattimenti, si conquista Gorizia (sesta battaglia dell’Isonzo) e si riprende a spingere verso Trieste, non solo unico porto rimasto all’Austria ma anche città simbolo, che verrà difesa fino alla fine, nella quale gli italiani riusciranno a entravi solo dopo la fine del conflitto.

Nel 1917, anno in cui nella valle dell’Isonzo si contarono un totale di undici battaglie, la situazione austriaca era drammatica; l’esercito di Borojević era ridotto all’osso, mancavano gli uomini, mancava il materiale militare, mancavano le provviste per l’esercito che però, nonostante tutte queste privazioni, si batté con una tenacia degna di nota contro l’esercito di Cadorna.

La strenua resistenza dell’esercito austriaco si basava principalmente su due punti cardine fondamentali:
- gli austriaci sapevano bene quali sono gli obiettivi di Cadorna (Trieste, Brennero,Istria, Dalmazia) e si ritrovano a fronteggiare l’imperialismo italiano che voleva annettere quelle terre;
- gli austriaci in questa guerra contro l’Italia ci credevano, perche combattendo sull’isonzo e sui fronti annessi, non solo stavano difendendo il confine austro-ungherese ma, dettaglio molto importante, stavano difendendo le loro case, particolare che spronò i soldati (soprattutto sloveni e croati) a far fronte agli attacchi italiani con forza e vigore.

Come accennato sopra, nel 1917 la situazione militare per gli austriaci era drammatica: il fronte era difeso e tenuto solo da poche truppe, mancavano i rifornimenti di uomini e materiale e l’alto comando non riusciva a frenare i continui assalti italiani che costavano ingenti perdite da entrambe le parti.

A metà del 1917, dopo l’undicesima battaglia dell’Isonzo (agosto 1917), gli austriaci tirarono le somme delle perdite e si accorsero di essere arrivati al capolinea, non avevano più le risorse militari e umane per riempire le voragini aperte dopo l’ultimo attacco italiano, avevano letteralmente esaurito tutto, uomini e munizioni.

Constatando questa imponente mancanza di risorse e sapendo che sicuramente Cadorna avrebbe riattaccato di nuovo appena fosse riuscito a mettere insieme forze sufficienti, gli austriaci decisero di chiedere aiuto all’alleato tedesco che, nonostante fosse anche lui alle prese con i vari problemi di natura militare e sociale come l’Austria, militarmente ed economicamente versava in condizioni migliori.

Avvenuto l’incontro fra i comandanti austriaci e quelli tedeschi il capo di Stato Maggiore tedesco, Paul von Hindenburg, e il suo vice Erich Ludendorff, acconsentirono a inviare al fronte italiano il generale Konrad Krafft von Dellmensingen, esperto della guerra in montagna che ebbe l’ordine di vagliare la fattibilità dell’attacco. Il sopralluogo di Dellmensingen durò dal 2 al 6 settembre e una volta terminate le varie verifiche, tornò in Germania per approvare l’invio degli aiuti agli austriaci.

Nell’ottica militare austro-tedesca un attacco come quello su Caporetto doveva avere una doppia funzione:

- far indietreggiare il regio esercito per favorire la ripresa dell’esercito austro-ungarico, riconquistare le terre perdute e consolidare le proprie difese;
- infliggere una sconfitta militare di tale portata da spingere l’italia a uscire dal conflitto, liberando cosi l’Austria dal peso di un fronte per poter concentrare le proprie forze sul fronte balcanico.

Dellmensigen e i vari specialisti dell’esercito tedesco e austriaco, chiesero e ottennero il dispiegamento di un’ingente forza d’attacco, costituita da circa 350’000 soldati e 2500 cannoni di vario calibro, dispiegati sul fronte dinanzi Caporetto e che verranno impiegati per sfondare le difese degli italiani.

L’11 settembre, il generale tedesco Otto von Below venne messo a capo della nuova 14ª Armata mentre il generale Dellmensingen fu nomimato capo di stato maggiore per le operazioni sul fronte italiano. Nel mentre venne strutturata con l’alleato austriaco la strategia da adottare per sconfiggere gli italiani, strategia che aveva i suoi cardini di forza su tre punti fondamentali: un primo attacco sarebbe dovuto avvenire a Plezzo con obiettivo Caporetto, per conquistare monte Stol che si trovava nei pressi della suddetta città e successivamente muovere verso il Tagliamento, obiettivo iniziale nei piani tedeschi e mentre una parte delle truppe attaccava sulla direttrice Plezzo-Caporetto, l’altra parte dell’avanzata sarebbe dovuta partire da Tolmino, procedere seguendo l’isonzo fino a Caporetto e successivamente entrare nella valle del Natisone fino a Cividale del Friuli; un altro attacco frontale sarebbe partito invece per impossessarsi del Colovrat, da cui era possibile dominare la valle dello Judrio, accerchiando l’altopiano della Bainsizza e spingendosi fino al monte Corada.

Naturalmente nacque il bisogno di strutturare, non solo le direttrici di attacco, ma anche gli spostamenti della truppa che dovevano avvenire con la massima segretezza, facendo marciare le truppe e il materiale solo di notte per evitare di essere scoperti dall’aviazione italiana.

Mentre sul fronte italiano gli austro-tedeschi facevano affluire truppe, cannoni e materiale per l’imminente attacco, a metà settembre Cadorna ordinò alla 2ª armata (Luigi Capello) e alla 3ª Armata (Duca d’aosta) di stabilire posizioni difensive, in previsione di una futura defezione della Russia dal conflitto (per via della rivoluzione che attanavagliava il paese) e di un successivo spostamento di forse austro-ungheresi sul fronte isontino. Il giorno dopo il duca d’Aosta diede ordine ai suoi uomini, ma specificò di prepararsi al contrattacco se questo si fosse reso necessario per prevenire le mosse del nemico, imitato in questo da Capello il quale però, a differenza di lui, non diede ordine di far arretrare le sue artiglierie. Cadorna, accortosi dell’errore di Capello solamente il 18 ottobre, lo ricevette a Udine, sede del comando supremo, solo il 19 ottobre ribadendogli di eseguire il suo ordine con più decisione e velocità, mentre nel frattempo inviò due ufficiali presso Cavaciocchi e Badoglio per decidere se e quando inviare rinforzi, ma entrambi i comandanti risposero che non ve ne era bisogno, data la loro fiducia di mantenere le posizioni.

Mentre i tedeschi e gli austriaci tentavano (invano) di mantenere segreto gli spostamenti delle loro truppe, il servizio di intelligence italiano intanto monitorava l’accrescersi degli eserciti avversari, e ne teneva informato costantemente Cadorna, anche se non riuscì a stabilire con certezza il luogo dell’offensiva, ipotizzando però che sarebbe partita tra Plezzo e Tolmino, come effettivamente fu.

Il 20 ottobre un tenente boemo si presentò al comando del IV Corpo d’armata con informazioni dettagliate sul piano d’attacco di von Below, che per lui sarebbe cominciato, forse, sei giorni dopo. Il 21 ottobre due disertori rumeni informarono gli italiani che gli austro-ungarici avrebbero attaccato presto prima a Caporetto e poi a Cividale del Friuli, specificando anche la preparazione di artiglieria che avrebbe preceduto l’attacco, ma i comandi italiani non ritennero affidabili le loro informazioni.
Si arrivò infine al 24 ottobre 1917, nella notte alle ore 02:00 le artiglierie austro-germaniche cominciarono a colpire le posizioni italiane dal monte Rombon, sopra Plezzo, alternando lanci di gas a granate convenzionali, colpendo in particolare tra Plezzo e l’Isonzo. Dopo quattro ore di tiro di artiglieria, i cannoni austro-tedeschi sospesero l’attacco, per riprenderlo solo mezz’ora dopo.

Mentre l’artiglieria bombardava le posizione italiane la cui artiglieria non riuscì a fornire un adeguato tiro di contro-batteria sia per mancanza di informazioni sia per l’improvvisa mancanza di comunicazioni telefoniche, nel frattempo i reparti di von Below, si avvicinarono notevolmente alle posizioni italiane, e alle ore 8:00, senza neanche aspettare la fine dei bombardamenti, andarono all’assalto delle trincee italiane.


Le truppe alpine che si trovavano a difendere il Rombon riuscirono a respingere in parte l’assalto delle truppe di Below mentre l’altra parte delle truppe tedesche riuscì a superare gli ostacoli nel punto dove era stato lanciato il gas, ma vennero fermate dopo pochi chilometri dall’estrema linea difensiva italiana posta a protezione di Saga.


L’avanzata decisiva che provocò il crollo delle difese italiane fu effettuata dagli slesiani che progredirono in poche ore lungo il fondovalle dell’Isonzo praticamente senza essere vista dalle posizioni italiane in quota sulle montagne, distruggendo, durante la marcia lungo le due sponde del fiume, una serie di reparti italiani colti completamente impreparati. L’avanzata dei tedeschi ebbe inizio nei pressi di Tolmino, dove cinque battaglioni slesiani ebbero facilmente la meglio sui reparti della testa di ponte italiana sulla sponda sinistra dell’Isonzo, scossi dal bombardamento, e subito cominciò la loro avanzata.

Intorno alle 15:00, sette ore dopo l’inizio dell’offensiva, i reparti austro-tedeschi avevano raggiunto Caporetto.

Durante il primo giorno di battaglia le perdite italiane ammontarono circa a 40.000 effettivi (morti e feriti) mentre i loro avversari lamentavano perdite che oscillavano dalle 6.000 alle 7.000 unità. Tra Caporetto e Tolmino nel frattempo la brigata “Arno”, arrivata in zona tre giorni prima, stava difendendo il monte Colovrat e le creste circostanti quando contro di loro mosse il battaglione da montagna del Württemberg, assegnato di rinforzo all’Alpenkorps; il tenente Erwin Rommel era a capo di uno dei tre distaccamenti in cui era stato diviso il suo battaglione. Insieme a 500 uomini, il futuro feldmaresciallo cominciò a scalare le pendici del Colovrat catturando in silenzio centinaia di italiani presi alla sprovvista. Gli uomini di Rommel conquistarono senza troppe fatiche il monte Nagnoj, dove presero posizione i cannoni tedeschi che cominciarono a prendere di mira il monte Cucco di Luico, aggirato da Rommel per non perdere tempo e preso nel pomeriggio da truppe dell’Alpenkorps.

Una volta distrutta la brigata Arno, Rommel puntò contro il Matajur dove stazionava la brigata “Salerno” del generale Gaetano Zoppi, che lasciò il suo posto al colonnello Antonicelli.

Alle prime luci del 26 ottobre ad Antonicelli giunse l’ordine da un tenente di abbandonare la posizione entro la mattina del 27. Sorpreso per una ritirata ordinata ben un giorno prima, il nuovo capo della “Salerno” chiese informazioni al portaordini il quale disse che probabilmente si trattava di un errore del comando di divisione, ma Antonicelli volle essere sicuro e obbligò il tenente a ritornare con l’ordine corretto. Quando questo arrivò a destinazione, Rommel nel frattempo aveva circondato il Matajur e dopo duri scontri, la Salerno si arrese a Rommel che chiuse la conquista lamentando solo sei morti e trenta feriti.

Mentre Rommel conquistava il Matajur, Below spingeva la sua offensiva, in direzione del fiume Torre, Cividale del Friuli, Udine e la Carnia.

Contrariamente alle previsioni del generale tedesco però, l’esercito italiano, anche se in preda al caos, non era in completo sfacelo, e oppose in alcuni punti una valida resistenza; inoltre la situazione delle artiglierie si era parzialmente livellata tra i due schieramenti, se da una parte è vero che gli italiani avevano perso molti dei loro cannoni nei primi giorni dell’offensiva, gli austro-tedeschi non riuscirono a portare in batteria le loro artiglierie a causa della rapida avanzata delle fanterie.

A detta del Generale Caviglia, alla guida del XXIV Corpo d’armata, il successo di quel disordinato ma cruciale ripiegamento oltre l’Isonzo era nelle mani di alcune unità chiamate dalla riserva ad arginare la caduta. Così nelle sue memorie del 26 e del 27 ottobre: «La situazione più pericolosa è quella della destra del XXIV Corpo (Brigata Venezia) a cavallo dell’Isonzo: dalla sua resistenza dipende la sicurezza di tutti i Corpi d’armata, più a Sud. La sera del 27, ritirai dalla sinistra dell’Isonzo, tutta la Brigata Venezia, perché già il II corpo, che essa proteggeva, era tutto passato sulla destra dell’Isonzo. In presenza dei due reggimenti abbracciai il loro Comandante Raffaello Reghini […]».

Cadorna, nel mente, vagliò l’idea di ordinare una ritirata generale, ne discusse nel pomeriggio stesso con Montuori, succeduto definitivamente a Capello a causa dei continui malori di quest’ultimo. Avendo constatato l’incapacità dei reparti di riprendere l’iniziativa, i due alti ufficiali diramarono l’ordine di ritirata, ma dopo poco tempo Cadorna ebbe un ripensamento e propose a Montuori di tentare una resistenza sulla linea monte Kuk – monte Vodice – sella di Dol – monte Santo – Salcano.

La maggioranza delle postazioni comunque non tennero e il 27 ottobre il comandante supremo del Regio Esercito diede disposizioni all’esercito di riparare dietro la linea del Tagliamento, mentre alla 4ª Armata in linea sul Cadore, gli ordinò di spostarsi sulla linea di difesa sul Piave.

Senza incontrare ostacoli significativi, i tedeschi occuparono Cividale del Friuli e Udine, misero in serio pericolo da nord-ovest la 3ª Armata, che era rimasta troppo a Oriente. I tedeschi però si accorsero troppo tardi della possibilità di accerchiamento, e così, grazie anche all’inaspettata resistenza di alcune unità italiane, il duca d’Aosta e le sue truppe riuscirono a mettersi in salvo.

In generale la ritirata avvenne in una situazione caotica, caratterizzata da diserzioni e fughe che sfociarono in alcune fucilazioni, mista a episodi di valore e disciplina durante i quali molti ufficiali inferiori, rimasti isolati dai comandi, acquisirono notevole esperienza di un nuovo modo di fare la guerra, ora più rapida. Un episodio tragico per i soldati italiani si verificò nei ponti vicino a Casarsa della Delizia il 30 ottobre, quando soldati tedeschi piombarono sulle colonne di mezzi e uomini che intasavano le strade facendo 60.000 prigionieri e catturando 300 cannoni. Più difficile fu invece infrangere le posizioni italiane, lo stesso giorno, a Mortegliano, Pozzuolo del Friuli, Basiliano e alla frazione di Galleriano che consentirono il ripiegamento in corso.

Il neopresidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando rimase sbalordito dallo spirito della truppa in ritirata: «È qualche cosa d’inverosimile, che non si spiega in alcun modo, che cioè nella testa di centinaia di migliaia di uomini, a un tratto sia sorta e si sia imposta una sola idea: tornare a casa. Non c’è, nelle torme in ritirata, nessuno spirito di ribellione e sedizione».

Il futuro deputato democratico Giovanni Amendola concluse: «Si erano immaginati che in quel modo finiva la guerra, e che anzi la guerra era finita. Le grida più frequenti erano: “Viva la pace, viva il Papa, viva Giolitti”».

L’ultimo episodio di resistenza italiana sul Tagliamento ebbe inizio, anch’esso, il 30 ottobre presso il comune di Ragogna: gli austro-ungarici, temporaneamente bloccati dal fuoco avversario, non riuscirono a impadronirsi dell’importante ponte di Pinzano al Tagliamento, ma si riscattarono il 3 novembre quando attraversarono il ponte di Cornino (una frazione di Forgaria nel Friuli) poco più a nord, rimasto solo danneggiato dalle cariche esplosive dei genieri italiani.

Cadorna, venuto a sapere dell’attraversamento del ponte di Cornino il 3 novembre, ordinò all’intero esercito di ritirarsi sul fiume Piave, sul quale nel frattempo si erano fatti significativi passi avanti nell’impostazione di una linea difensiva. A questo punto von Below aveva fretta, sia per il timore di ritornare a una guerra di posizione, sia perché temeva l’invio di aiuti militari da parte dei francesi e degli inglesi. I suoi generali sfruttarono tutte le occasioni possibili per accerchiare le truppe italiane in ritirata: a Longarone il 9 novembre furono catturati 10.000 uomini e 94 cannoni appartenenti alla 4ª Armata e in un’altra occasione la 33ª e 63ª Divisione italiana consegnarono, dopo aver tentato di uscire dall’accerchiamento, 20.000 uomini.

In pianura però gli austro-tedeschi non ebbero lo stesso successo dell’inizio dell’offensiva molte unità italiane riuscirono a riorganizzarsi per raggiungere il Piave, l’ultima unità arrivò sul Piave il 12 novembre. Dall’inizio delle operazioni il 24 ottobre all’8 novembre i bollettini di guerra tedeschi avevano contato un bottino di quasi 300’000 prigionieri e 2.300 cannoni.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]