SULLA
DISFATTa DI CAPORETto
EVENTI, PERSONAGGI, CONSEGUENZE
/ PARTE i
di
Luca Mannucci
Nell’immaginario
collettivo, la parola Caporetto
evoca la disastrosa disfatta
dell’esercito italiano, avvenuta
alla fine dell’ottobre del 1917, a
seguito di una controffensiva
attuata dagli eserciti
austro-ungarico-tedesco contro le
linee del regio esercito, causando
il crollo e la successiva ritirata
dei reparti di Luigi Cadorna e
consegnando al nemico quasi 300.000
prigionieri dei quali, molti, non
torneranno in patria.
Il primo confilitto mondiale,
scatenato dall’uccisione
dell’Arciduca Francesco Ferninando I
d’Austria, avvenuto il 8 giugno 1914
coinvolse immediatamente gli imperi
secolari europei, Austria e Germania
da una parte e Francia, Inghilterra
e Russia dall’altra, coinvolgimento
dettato da tutta una serie di
alleanze che governavano la politica
europea di fine ‘800 e inizio ‘900.
Con lo scoppio del conflitto
l’Europa viene sconvolta dalle
grandi battaglie che segneranno il
conflitto per numero di perdite e
per le proporzioni titaniche che
ebbero, Tannenberg agosto 1914, La
Marna settembre 1914, Verdun
febbraio 1916, La Somme
settembre-novembre 1916.
Mentre gli anglo-francesci si
confrontano con i tedeschi sul
fronte franco-tedesco, i russi e i
tedeschi si danno battaglia a est
mentre l’Austria è impegnata in
Galizia contro i russi, dopo aver
sconfitto la Serbia nel 1915 grazie
all’appoggio tedesco, colpevole di
aver tramato per l’uccisione
dell’Arciduca. L’Italia, facendo
fede a un articolo presente dei
trattati di alleanza stipulati in
passato con la Germania e l’Austria,
invece, decise di rimanere fuori dal
conflitto, facendo a suo tempo
fronte allo scontro tra neutralisti
e interventisti che spingevano, i
primi, alla neutralità dello stato
in questa guerra (capitanati dalla
figura di Giolitti), mentre i
secondi volevano l’intervento
militare contro il nemico secolare
per poter condurre a compimento
l’unificazione italiana (per molti
la prima guerra mondiale era
considerata come la quarta guerra
d’indipendenza contro l’Austria). Il
confronto fra neutralisti e
interventisti si concluse con la
vittoria di quest’ultimi, fra i
quali spiccano figure quali
Mussolini e più di tutti Gabriele
D’Annunzio, vittoria seguita poi da
una serie di incontri con le potenze
dell’Intesa per decidere i dettagli
della nuova alleanza.
A seguito dei famosi “Patti di
Londra” dell’aprile del 1915, una
serie di accordi politico-militari
che portarono a un sensazionale
cambio di alleanze, l’Italia entrò
in guerra a fianco di Inghilterra,
Francia e Russia contro i vecchi
alleati pre 1914. Allo scoppio dello
conflitto con l’Austria e la
Germania, il Regio esercito, anche
se militarmente ed economicamente
più debole del suo avversario, in
quel momento poteva vantare di un
esercito con ancora tutti gli
effettivi e con un economia
supportata dagli aiuti degli
alleati, a differenza invece
dell’esercito austriaco che, non
solo nel primo anno di guerra aveva
perso circa un milione di effettivi
(morti, feriti, dispersi) ma aveva
un economia bloccata, in quanto il
mediterraneo era sotto controllo
delle marine dell’Intesa e non
arrivava nulla dalle colonie.
La strategia del Generale Cadorna,
capo supremo delle forze armate
italiane si basava su una duplice
strategia: dalla parte del trentino,
Cadorna aveva intenzione di
contenere le truppe austriache con
azioni di natura offensiva e
difensiva, per contenere gli
austriaci nel loro saliente che
aveva uno dei punti forti sulla
citta di Trento e sull’Adige.
Dall’altra parte, sul fronte
isontino invece Cadorna aveva
intenzione di concentrare lo sforzo
offensivo per poter conquistare nel
breve periodo Gorizia e nel lungo
periodo, arrivare a Vienna
utilizzando Trieste come passaggio.
Dal 1915 al 1917, l’esercito
italiano intraprende una serie di
offensive sul fronte isontino e nel
1916, dopo quasi un anno di
combattimenti, si conquista Gorizia
(sesta battaglia dell’Isonzo) e si
riprende a spingere verso Trieste,
non solo unico porto rimasto
all’Austria ma anche città simbolo,
che verrà difesa fino alla fine,
nella quale gli italiani riusciranno
a entravi solo dopo la fine del
conflitto.
Nel 1917, anno in cui nella valle
dell’Isonzo si contarono un totale
di undici battaglie, la situazione
austriaca era drammatica; l’esercito
di Borojević era ridotto all’osso,
mancavano gli uomini, mancava il
materiale militare, mancavano le
provviste per l’esercito che però,
nonostante tutte queste privazioni,
si batté con una tenacia degna di
nota contro l’esercito di Cadorna.
La strenua resistenza dell’esercito
austriaco si basava principalmente
su due punti cardine fondamentali:
- gli austriaci sapevano bene quali
sono gli obiettivi di Cadorna
(Trieste, Brennero,Istria, Dalmazia)
e si ritrovano a fronteggiare
l’imperialismo italiano che voleva
annettere quelle terre;
- gli austriaci in questa guerra
contro l’Italia ci credevano, perche
combattendo sull’isonzo e sui fronti
annessi, non solo stavano difendendo
il confine austro-ungherese ma,
dettaglio molto importante, stavano
difendendo le loro case, particolare
che spronò i soldati (soprattutto
sloveni e croati) a far fronte agli
attacchi italiani con forza e
vigore.
Come accennato sopra, nel 1917 la
situazione militare per gli
austriaci era drammatica: il fronte
era difeso e tenuto solo da poche
truppe, mancavano i rifornimenti di
uomini e materiale e l’alto comando
non riusciva a frenare i continui
assalti italiani che costavano
ingenti perdite da entrambe le
parti.
A metà del 1917, dopo l’undicesima
battaglia dell’Isonzo (agosto 1917),
gli austriaci tirarono le somme
delle perdite e si accorsero di
essere arrivati al capolinea, non
avevano più le risorse militari e
umane per riempire le voragini
aperte dopo l’ultimo attacco
italiano, avevano letteralmente
esaurito tutto, uomini e munizioni.
Constatando questa imponente
mancanza di risorse e sapendo che
sicuramente Cadorna avrebbe
riattaccato di nuovo appena fosse
riuscito a mettere insieme forze
sufficienti, gli austriaci decisero
di chiedere aiuto all’alleato
tedesco che, nonostante fosse anche
lui alle prese con i vari problemi
di natura militare e sociale come
l’Austria, militarmente ed
economicamente versava in condizioni
migliori.
Avvenuto l’incontro fra i comandanti
austriaci e quelli tedeschi il capo
di Stato Maggiore tedesco, Paul von
Hindenburg, e il suo vice Erich
Ludendorff, acconsentirono a inviare
al fronte italiano il generale
Konrad Krafft von Dellmensingen,
esperto della guerra in montagna che
ebbe l’ordine di vagliare la
fattibilità dell’attacco. Il
sopralluogo di Dellmensingen durò
dal 2 al 6 settembre e una volta
terminate le varie verifiche, tornò
in Germania per approvare l’invio
degli aiuti agli austriaci.
Nell’ottica militare austro-tedesca
un attacco come quello su Caporetto
doveva avere una doppia funzione:
- far indietreggiare il regio
esercito per favorire la ripresa
dell’esercito austro-ungarico,
riconquistare le terre perdute e
consolidare le proprie difese;
- infliggere una sconfitta militare
di tale portata da spingere l’italia
a uscire dal conflitto, liberando
cosi l’Austria dal peso di un fronte
per poter concentrare le proprie
forze sul fronte balcanico.
Dellmensigen e i vari specialisti
dell’esercito tedesco e austriaco,
chiesero e ottennero il
dispiegamento di un’ingente forza
d’attacco, costituita da circa
350’000 soldati e 2500 cannoni di
vario calibro, dispiegati sul fronte
dinanzi Caporetto e che verranno
impiegati per sfondare le difese
degli italiani.
L’11 settembre, il generale tedesco
Otto von Below venne messo a capo
della nuova 14ª Armata mentre il
generale Dellmensingen fu nomimato
capo di stato maggiore per le
operazioni sul fronte italiano. Nel
mentre venne strutturata con
l’alleato austriaco la strategia da
adottare per sconfiggere gli
italiani, strategia che aveva i suoi
cardini di forza su tre punti
fondamentali: un primo attacco
sarebbe dovuto avvenire a Plezzo con
obiettivo Caporetto, per conquistare
monte Stol che si trovava nei pressi
della suddetta città e
successivamente muovere verso il
Tagliamento, obiettivo iniziale nei
piani tedeschi e mentre una parte
delle truppe attaccava sulla
direttrice Plezzo-Caporetto, l’altra
parte dell’avanzata sarebbe dovuta
partire da Tolmino, procedere
seguendo l’isonzo fino a Caporetto e
successivamente entrare nella valle
del Natisone fino a Cividale del
Friuli; un altro attacco frontale
sarebbe partito invece per
impossessarsi del Colovrat, da cui
era possibile dominare la valle
dello Judrio, accerchiando
l’altopiano della Bainsizza e
spingendosi fino al monte Corada.
Naturalmente nacque il bisogno di
strutturare, non solo le direttrici
di attacco, ma anche gli spostamenti
della truppa che dovevano avvenire
con la massima segretezza, facendo
marciare le truppe e il materiale
solo di notte per evitare di essere
scoperti dall’aviazione italiana.
Mentre sul fronte italiano gli
austro-tedeschi facevano affluire
truppe, cannoni e materiale per
l’imminente attacco, a metà
settembre Cadorna ordinò alla 2ª
armata (Luigi Capello) e alla 3ª
Armata (Duca d’aosta) di stabilire
posizioni difensive, in previsione
di una futura defezione della Russia
dal conflitto (per via della
rivoluzione che attanavagliava il
paese) e di un successivo
spostamento di forse
austro-ungheresi sul fronte isontino.
Il giorno dopo il duca d’Aosta diede
ordine ai suoi uomini, ma specificò
di prepararsi al contrattacco se
questo si fosse reso necessario per
prevenire le mosse del nemico,
imitato in questo da Capello il
quale però, a differenza di lui, non
diede ordine di far arretrare le sue
artiglierie. Cadorna, accortosi
dell’errore di Capello solamente il
18 ottobre, lo ricevette a Udine,
sede del comando supremo, solo il 19
ottobre ribadendogli di eseguire il
suo ordine con più decisione e
velocità, mentre nel frattempo inviò
due ufficiali presso Cavaciocchi e
Badoglio per decidere se e quando
inviare rinforzi, ma entrambi i
comandanti risposero che non ve ne
era bisogno, data la loro fiducia di
mantenere le posizioni.
Mentre i tedeschi e gli austriaci
tentavano (invano) di mantenere
segreto gli spostamenti delle loro
truppe, il servizio di intelligence
italiano intanto monitorava
l’accrescersi degli eserciti
avversari, e ne teneva informato
costantemente Cadorna, anche se non
riuscì a stabilire con certezza il
luogo dell’offensiva, ipotizzando
però che sarebbe partita tra Plezzo
e Tolmino, come effettivamente fu.
Il 20 ottobre un tenente boemo si
presentò al comando del IV Corpo
d’armata con informazioni
dettagliate sul piano d’attacco di
von Below, che per lui sarebbe
cominciato, forse, sei giorni dopo.
Il 21 ottobre due disertori rumeni
informarono gli italiani che gli
austro-ungarici avrebbero attaccato
presto prima a Caporetto e poi a
Cividale del Friuli, specificando
anche la preparazione di artiglieria
che avrebbe preceduto l’attacco, ma
i comandi italiani non ritennero
affidabili le loro informazioni.
Si arrivò infine al 24 ottobre 1917,
nella notte alle ore 02:00 le
artiglierie austro-germaniche
cominciarono a colpire le posizioni
italiane dal monte Rombon, sopra
Plezzo, alternando lanci di gas a
granate convenzionali, colpendo in
particolare tra Plezzo e l’Isonzo.
Dopo quattro ore di tiro di
artiglieria, i cannoni
austro-tedeschi sospesero l’attacco,
per riprenderlo solo mezz’ora dopo.
Mentre l’artiglieria bombardava le
posizione italiane la cui
artiglieria non riuscì a fornire un
adeguato tiro di contro-batteria sia
per mancanza di informazioni sia per
l’improvvisa mancanza di
comunicazioni telefoniche, nel
frattempo i reparti di von Below, si
avvicinarono notevolmente alle
posizioni italiane, e alle ore 8:00,
senza neanche aspettare la fine dei
bombardamenti, andarono all’assalto
delle trincee italiane.
Le truppe alpine che si trovavano a
difendere il Rombon riuscirono a
respingere in parte l’assalto delle
truppe di Below mentre l’altra parte
delle truppe tedesche riuscì a
superare gli ostacoli nel punto dove
era stato lanciato il gas, ma
vennero fermate dopo pochi
chilometri dall’estrema linea
difensiva italiana posta a
protezione di Saga.
L’avanzata decisiva che provocò il
crollo delle difese italiane fu
effettuata dagli slesiani che
progredirono in poche ore lungo il
fondovalle dell’Isonzo praticamente
senza essere vista dalle posizioni
italiane in quota sulle montagne,
distruggendo, durante la marcia
lungo le due sponde del fiume, una
serie di reparti italiani colti
completamente impreparati.
L’avanzata dei tedeschi ebbe inizio
nei pressi di Tolmino, dove cinque
battaglioni slesiani ebbero
facilmente la meglio sui reparti
della testa di ponte italiana sulla
sponda sinistra dell’Isonzo, scossi
dal bombardamento, e subito cominciò
la loro avanzata.
Intorno alle 15:00, sette ore dopo
l’inizio dell’offensiva, i reparti
austro-tedeschi avevano raggiunto
Caporetto.
Durante il primo giorno di battaglia
le perdite italiane ammontarono
circa a 40.000 effettivi (morti e
feriti) mentre i loro avversari
lamentavano perdite che oscillavano
dalle 6.000 alle 7.000 unità. Tra
Caporetto e Tolmino nel frattempo la
brigata “Arno”, arrivata in zona tre
giorni prima, stava difendendo il
monte Colovrat e le creste
circostanti quando contro di loro
mosse il battaglione da montagna del
Württemberg, assegnato di rinforzo
all’Alpenkorps; il tenente Erwin
Rommel era a capo di uno dei tre
distaccamenti in cui era stato
diviso il suo battaglione. Insieme a
500 uomini, il futuro
feldmaresciallo cominciò a scalare
le pendici del Colovrat catturando
in silenzio centinaia di italiani
presi alla sprovvista. Gli uomini di
Rommel conquistarono senza troppe
fatiche il monte Nagnoj, dove
presero posizione i cannoni tedeschi
che cominciarono a prendere di mira
il monte Cucco di Luico, aggirato da
Rommel per non perdere tempo e preso
nel pomeriggio da truppe dell’Alpenkorps.
Una volta distrutta la brigata Arno,
Rommel puntò contro il Matajur dove
stazionava la brigata “Salerno” del
generale Gaetano Zoppi, che lasciò
il suo posto al colonnello
Antonicelli.
Alle prime luci del 26 ottobre ad
Antonicelli giunse l’ordine da un
tenente di abbandonare la posizione
entro la mattina del 27. Sorpreso
per una ritirata ordinata ben un
giorno prima, il nuovo capo della
“Salerno” chiese informazioni al
portaordini il quale disse che
probabilmente si trattava di un
errore del comando di divisione, ma
Antonicelli volle essere sicuro e
obbligò il tenente a ritornare con
l’ordine corretto. Quando questo
arrivò a destinazione, Rommel nel
frattempo aveva circondato il
Matajur e dopo duri scontri, la
Salerno si arrese a Rommel che
chiuse la conquista lamentando solo
sei morti e trenta feriti.
Mentre Rommel conquistava il Matajur,
Below spingeva la sua offensiva, in
direzione del fiume Torre, Cividale
del Friuli, Udine e la Carnia.
Contrariamente alle previsioni del
generale tedesco però, l’esercito
italiano, anche se in preda al caos,
non era in completo sfacelo, e
oppose in alcuni punti una valida
resistenza; inoltre la situazione
delle artiglierie si era
parzialmente livellata tra i due
schieramenti, se da una parte è vero
che gli italiani avevano perso molti
dei loro cannoni nei primi giorni
dell’offensiva, gli austro-tedeschi
non riuscirono a portare in batteria
le loro artiglierie a causa della
rapida avanzata delle fanterie.
A detta del Generale Caviglia, alla
guida del XXIV Corpo d’armata, il
successo di quel disordinato ma
cruciale ripiegamento oltre l’Isonzo
era nelle mani di alcune unità
chiamate dalla riserva ad arginare
la caduta. Così nelle sue memorie
del 26 e del 27 ottobre: «La
situazione più pericolosa è quella
della destra del XXIV Corpo (Brigata
Venezia) a cavallo dell’Isonzo:
dalla sua resistenza dipende la
sicurezza di tutti i Corpi d’armata,
più a Sud. La sera del 27, ritirai
dalla sinistra dell’Isonzo, tutta la
Brigata Venezia, perché già il II
corpo, che essa proteggeva, era
tutto passato sulla destra
dell’Isonzo. In presenza dei due
reggimenti abbracciai il loro
Comandante Raffaello Reghini […]».
Cadorna, nel mente, vagliò l’idea di
ordinare una ritirata generale, ne
discusse nel pomeriggio stesso con
Montuori, succeduto definitivamente
a Capello a causa dei continui
malori di quest’ultimo. Avendo
constatato l’incapacità dei reparti
di riprendere l’iniziativa, i due
alti ufficiali diramarono l’ordine
di ritirata, ma dopo poco tempo
Cadorna ebbe un ripensamento e
propose a Montuori di tentare una
resistenza sulla linea monte Kuk –
monte Vodice – sella di Dol – monte
Santo – Salcano.
La maggioranza delle postazioni
comunque non tennero e il 27 ottobre
il comandante supremo del Regio
Esercito diede disposizioni
all’esercito di riparare dietro la
linea del Tagliamento, mentre alla
4ª Armata in linea sul Cadore, gli
ordinò di spostarsi sulla linea di
difesa sul Piave.
Senza incontrare ostacoli
significativi, i tedeschi occuparono
Cividale del Friuli e Udine, misero
in serio pericolo da nord-ovest la
3ª Armata, che era rimasta troppo a
Oriente. I tedeschi però si
accorsero troppo tardi della
possibilità di accerchiamento, e
così, grazie anche all’inaspettata
resistenza di alcune unità italiane,
il duca d’Aosta e le sue truppe
riuscirono a mettersi in salvo.
In generale la ritirata avvenne in
una situazione caotica,
caratterizzata da diserzioni e fughe
che sfociarono in alcune
fucilazioni, mista a episodi di
valore e disciplina durante i quali
molti ufficiali inferiori, rimasti
isolati dai comandi, acquisirono
notevole esperienza di un nuovo modo
di fare la guerra, ora più rapida.
Un episodio tragico per i soldati
italiani si verificò nei ponti
vicino a Casarsa della Delizia il 30
ottobre, quando soldati tedeschi
piombarono sulle colonne di mezzi e
uomini che intasavano le strade
facendo 60.000 prigionieri e
catturando 300 cannoni. Più
difficile fu invece infrangere le
posizioni italiane, lo stesso
giorno, a Mortegliano, Pozzuolo del
Friuli, Basiliano e alla frazione di
Galleriano che consentirono il
ripiegamento in corso.
Il neopresidente del Consiglio
Vittorio Emanuele Orlando rimase
sbalordito dallo spirito della
truppa in ritirata: «È qualche
cosa d’inverosimile, che non si
spiega in alcun modo, che cioè nella
testa di centinaia di migliaia di
uomini, a un tratto sia sorta e si
sia imposta una sola idea: tornare a
casa. Non c’è, nelle torme in
ritirata, nessuno spirito di
ribellione e sedizione».
Il futuro deputato democratico
Giovanni Amendola concluse: «Si
erano immaginati che in quel modo
finiva la guerra, e che anzi la
guerra era finita. Le grida più
frequenti erano: “Viva la pace, viva
il Papa, viva Giolitti”».
L’ultimo episodio di resistenza
italiana sul Tagliamento ebbe
inizio, anch’esso, il 30 ottobre
presso il comune di Ragogna: gli
austro-ungarici, temporaneamente
bloccati dal fuoco avversario, non
riuscirono a impadronirsi
dell’importante ponte di Pinzano al
Tagliamento, ma si riscattarono il 3
novembre quando attraversarono il
ponte di Cornino (una frazione di
Forgaria nel Friuli) poco più a
nord, rimasto solo danneggiato dalle
cariche esplosive dei genieri
italiani.
Cadorna, venuto a sapere
dell’attraversamento del ponte di
Cornino il 3 novembre, ordinò
all’intero esercito di ritirarsi sul
fiume Piave, sul quale nel frattempo
si erano fatti significativi passi
avanti nell’impostazione di una
linea difensiva. A questo punto von
Below aveva fretta, sia per il
timore di ritornare a una guerra di
posizione, sia perché temeva l’invio
di aiuti militari da parte dei
francesi e degli inglesi. I suoi
generali sfruttarono tutte le
occasioni possibili per accerchiare
le truppe italiane in ritirata: a
Longarone il 9 novembre furono
catturati 10.000 uomini e 94 cannoni
appartenenti alla 4ª Armata e in
un’altra occasione la 33ª e 63ª
Divisione italiana consegnarono,
dopo aver tentato di uscire
dall’accerchiamento, 20.000 uomini.
In pianura però gli austro-tedeschi
non ebbero lo stesso successo
dell’inizio dell’offensiva molte
unità italiane riuscirono a
riorganizzarsi per raggiungere il
Piave, l’ultima unità arrivò sul
Piave il 12 novembre. Dall’inizio
delle operazioni il 24 ottobre all’8
novembre i bollettini di guerra
tedeschi avevano contato un bottino
di quasi 300’000 prigionieri e 2.300
cannoni.