N. 72 - Dicembre 2013
(CIII)
La lunga e tortuosa scalata
Storia della donna italiana nel XX secolo
di Giuseppe Formisano
Sarebbe
quasi
un’ovvietà
affermare
che
la
donna
in
Italia
non
abbia
mai
pesato
e
contato
quanto
un
uomo
mentre
in
altri
paesi,
per
esempio
in
quelli
del
nord
Europa,
ha
avuto
ed
ha
tutt’ora
una
considerazione
diversa;
nulla
di
straordinario,
ma
semplicemente
alla
pari
dell’altro
sesso.
Non
considerare
la
donna
dunque
in
quanto
tale
ma
come,
prima
di
tutto,
un
essere
umano.
Sicuramente
il
maschilismo
non
è
un’invenzione
italiana,
ma
perché
nel
nostro
paese
ancora
oggi
il
gentil
sesso
vive
una
condizione
di
svantaggio
rispetto
alle
tedesche,
svedese
o
danese?
Alcune
peculiarità
della
nazione
hanno
influito
certamente
anche
sulla
donna:
in
primis
la
chiesa
cattolica.
È
innegabile
-
senza
voler
muovere
alcun
tipo
di
accusa
-
che
l’idea
della
buona
madre
e
moglie
sia
proprio
della
cattolicità
(la
donna
come
la
Madonna;
o
vergine
o
madre),
idea
patrocinata
anche
dalla
ventennale
dittatura
fascista
(altro
fattore
con
il
suo
maschilismo
e
misoginia)
e
rimasta
impregnata
nelle
zone
più
povere
e
arretrate
del
paese,
quindi,
in
secundis,
il
ritardo
nello
sviluppo
economico
che
ha
portato
la
crescita
dell’Italia
solo
nella
seconda
metà
del
XX
secolo,
in
maniera
squilibrata.
L’Enciclica
pubblicata
da
Pio
XI
nel
1930
Casti
Connubii
è
esplicita:
per
il
corretto
funzionamento
del
matrimonio
è
indispensabile
una
gerarchia
che
prevede
l’uomo,
il
padre,
come
indiscusso
capofamiglia,
e la
donna
e i
figli
a
lui
soggetti.
In
quanto
maschio
lavoratore
e
motore
economico
della
casa,
spettavano
a
lui
le
decisioni
più
importanti.
Il
codice
d’onore
riguardava
la
moralità
sessuale
ma
non
era
una
legge
non
scritta
solo
del
meridione
come
facilmente
spesso
si
crede.
Certamente
con
il
boom
economico
persisteva
nelle
campagne
mentre
spariva
lentamente
dei
centri
urbani,
ma
anche
al
nord
esisteva
il
controllo
dei
maschi
di
casa
sulla
donna:
erano
inusuale,
ad
esempio,
far
uscire
la
donna
di
casa
da
sola
prima
dei
quarant’anni,
doveva
essere
sempre
accompagnata
da
un
fratello
o da
un
genitore;
superata
quell’età,
era
ormai
ritenuta
“vecchia”
per
attrarre
qualche
uomo
malintenzionato
che
potesse
disonorare
la
famiglia
approfittando
di
lei,
rendendola
impura
al
di
fuori
del
matrimonio.
A
quell’età
era
destinata
a
non
sposarsi
e
morire
zitella.
Ciò
poteva
essere
visto
come
un
fallimento.
Come
detto
il
destino
della
donna
era
quello
di
essere
madre
o
vergine,
quindi
le
strade
erano
quelle
che
portavano
sull’altare
con
l’abito
bianco
o
con
la
tunica
nera
della
monaca;
non
essere
né
l’una
né
l’altra
poteva
attrarre
qualche
maldicenza
(nessun
uomo
l’ha
mai
voluta
perché
non
è
vergine;
donna
di
poca
fede
quindi
non
adatta
a
crescere
figli)
che
disonoravano
la
famiglia
e i
maschi
in
particolare
che
non
avevano
vigilato
e/o
educato
la
donna
a
dovere.
Non
era
solo
il
costume
che
relegava
la
donna
in
una
condizione
di
inferiorità
ma
anche
la
legge.
Quattro
anni
dopo
l’Unità,
nel
1865,
il
codice
civile
che
prendeva
il
nome
di
Pisanelli
poneva
l’uomo
un
gradino
più
su,
escludendo
la
donna
dell’impiego
pubblico
e
dal
voto.
L’adulterio,
a
differenza
di
oggi,
era
punibile
ambo
i
sessi
ma
ovviamente
c’erano
della
differenziazioni.
In
caso
di
tradimento
dell’uomo,
almeno
ché
non
si
fosse
consumato
sotto
il
tetto
coniugale,
il
giudice
era
più
clemente,
ma
se
tale
torto
fosse
stato
commesso
dalla
donna
non
c’era
alcuna
attenuante,
infatti
l’omicidio
da
parte
dell’uomo
per
vendicarsi
era
ammesso.
La
superiorità
nel
matrimonio
si
esplicava
nell’obbligo
della
moglie
a
prendere
il
cognome
di
lui
e la
cittadinanza.
Il
luogo
di
residenza
non
era
deciso
congiuntamente
ma
spettava
all’uomo.
La
fedeltà
della
donna
era
tutto.
Lei
non
veniva
vista
altro
come
l’essere
il
cui
compito
era
quello
di
dare
la
vita
ai
figli
e di
educarli,
sotto
l’egida
del
marito-padrone.
Triste
e
diffuse
erano
le
vedove
bianche,
giovani
donne
che
vedevano
i
propri
mariti
partire
per
la
guerra
subito
dopo
il
matrimonio,
con
lui
che
per
salvaguardare
il
proprio
onore
decideva
di
non
dormire
con
la
novella
sposa
così
da
poter
verificare
al
ritorno,
semmai
fosse
tornato,
la
fedeltà
della
donna.
Molte
non
videro
tornare
il
proprio
uomo
divedendo
così
giovani
vedove,
e
bianche
di
verginità.
In
questo
stato
in
cui
versavano
le
nostre
antenate,
non
è
difficile
immaginare
il
loro
livello
d’istruzione.
Era
bassissimo
per
la
stragrande
maggioranza
degli
uomini,
figurarsi
per
donne
le
cui
famiglie
non
avevano
alcun
interesse
a
investire
nel
loro
acculturamento.
La
legge
Casati
che
fu
promulgata
nel
1859
nel
Regno
di
Sardegna
e
che
dopo
l’Unità
fu
attuata
in
tutto
il
nuovo
territorio
nazionale,
non
vietava
espressamente
l’iscrizione
al
liceo
per
le
ragazze
ma
non
lo
autorizzava
neanche
se
non
fino
al
1883.
Ernestina
Peper
fu
la
prima
donna
a
laurearsi
in
Italia,
nel
1877.
Completò
a
Firenze
gli
studi
di
medicina
iniziati
altrove.
Fare
il
medico
(in
particolare
le
ginecologhe
o le
pediatre,
perché
più
in
linea
con
il
loro
destino
di
madre)
era
più
accettabile,
così
come
quello
di
maestra.
L’attività
forense,
invece,
era
ancora
preclusa
all’inizio
del
XX
secolo.
La
mansione
principale
era
ovviamente
il
lavoro
casalingo
ma
ciò
non
significa
che
nessuna
donna
lavorava
fuori
casa.
Non
solo
contadine
ma
anche
operaie.
In
fabbrica
erano
impiegate
per
la
maggiore
donne
nubili.
Dal
1889
per
lavorare
avevano
bisogno
dell’autorizzazione
maritale
mentre
prima
di
quella
data,
se
lavoravano,
una
volta
convogliate
a
nozze
perdevano
il
lavoro
in
modo
che
solo
il
maschio
di
casa
potesse
mantenere
il
monopolio
della
gestione
economica.
Sarebbe
errato
pensare
che
con
la
contestazione
giovanile
a
cavallo
tra
gli
anni
sessanta
e
settanta
del
‘900
le
donne
siano
entrate
solo
allora
in
scena
nella
società
reclamando
diritti.
Certamente
in
quel
periodo
lo
fecero
più
apertamente,
ma
già
tra
i
due
secoli
ci
fu
un
movimento
emancipazionista.
Anna
Maria
Mozzoni
e
Paolina
Schiff
fondarono,
alla
fine
del
1880,
la
Lega
promonitrice
degli
interessi
femminili.
La
fondazione
di
questa
organizzazione
mette
in
mostra
come
una
coscienza
femminista
già
c’era,
però
queste
donne
erano
diverse
nei
modi
e
nei
contenuti
rispetto
alle
nipoti
e
pronipoti
della
seconda
metà
del
secolo
successivo.
La
Lega
aveva
tre
punti
principali
in
comune
con
altre
organizzazioni
(che
pure
si
divedevano
tra
cattoliche
e
laiche):
la
parificazione
della
retribuzione,
l’uguaglianza
nel
matrimonio
e il
diritto
di
voto.
Le
femministe
a
cavallo
tra
i
due
secoli
erano
sommariamente
tutte
maternaliste,
cioè
erano
anche
disposte
ad
accettare
il
loro
destino
materno
in
casa
ma
pretendevano
comunque
più
emancipazione
dall’uomo
padrone,
dal
padre
prima,
dal
marito
poi.
Probabilmente
rispetto
alle
femministe
successive
(che
per
comodità
qui
chiameremo
sessantottine,
senza
voler
trascurare
quelle
che
hanno
manifestato
il
loro
dissenso
degli
anni
’70)
non
avrebbero
mai
messo
in
discussione
la
pratica
di
non
mangiare
a
tavola
con
i
maschi
di
casa
(com’era
in
uso
soprattutto
in
campagna)
ma
“accomodarsi”
in
cucina
o
nella
stalla
con
gli
animali.
Le
donne
fin
qui
citate
(Paper,
Mozzoni,
Schiff)
quando
cominciarono
a
ottenere
notorietà
già
non
erano
più
giovanissime,
e in
molti
casi
avevano
un
origine
straniera
e
non
cattolica
quindi
non
impregnate
della
cultura
che
la
chiesa
di
Roma
predicava.
Le
sessantottine,
invece,
cresciute
mentre
l’Europa
economicamente
facevano
passi
da
giganti
dopo
la
tremenda
guerra,
grazie
a
quel
benessere
ebbero
più
possibilità
di
studiare,
quindi
acculturarsi
e di
conseguenza
osservare
in
modo
più
critico
il
mondo
in
cui
erano
state
relegate
le
loro
mamme
e
nonne.
Proprio
in
quegli
anni
alcune
norme
del
codice
Pisanelli
furono
abrogate.
Se
le
emancipazioniste
tra
i
due
secoli
facevano
sì
una
battaglia
politica,
nei
partiti
politici
avevano
ancora
poco
spazio
mentre
si
iscrivevano
più
ai
sindacati.
In
teoria
avrebbero
dovuto
avere
più
appoggio
dai
partiti
di
sinistra,
quello
socialista
e
quello
repubblicano,
cosa
che
in
effetti
avvenne
ma
soprattutto
nel
primo
c’era
diffidenza
verso
le
loro
istanze.
Il
PSI
di
allora,
battagliero
e
marxisista,
prefiggeva
la
lotta
di
classe
a
quella
di
genere,
bollando
questa
come
una
mania
borghese:
per
i
socialisti
i
lavoratori
non
dovevano
essere
divisi
tra
uomini
e
donne
perché
tutti
in
egual
modo
erano
sfruttati
dai
borghesi
ma
in
effetti
anche
loro,
uomini
del
proprio
tempo,
non
immaginavano
il
ruolo
della
donna
tanto
diverso
da
quello
svolto
allora.
Proprio
dal
Partito
Repubblicano,
nel
1904,
il
deputato
Mirabelli
aprì
per
il
suffragio.
Divenne
allora
l’argomento
principale
delle
emancipazioniste,
laiche
o
cattoliche.
Nel
1912
ci
provarono
i
socialisti
che
videro
impegnarsi
in
prima
persona
il
proprio
leader,
Filippo
Turati,
ma
la
proposta
di
legge
non
ottenne
i
voti
necessari
per
l’approvazione.
Forse
il
tema
e il
periodo
sul
quale
la
storiografia
di
genere
ha
posto
più
attenzione
è la
Grande
Guerra.
Il
primo
grande
conflitto
moderno
è
notoriamente
definito
“guerra
totale”
per
aver
investito
tutta
la
società
di
una
nazione
e
non
solo
l’ambito
politico-militare.
Si è
scritto
già
diffusamente
dell’impiego
delle
donne
nel
lavori
svolti
principalmente
dai
propri
padri,
mariti
o
fratelli
partiti
per
il
fronte.
Queste
li
sostituirono
nella
guida
dei
tram,
nella
consegna
della
posta,
nel
settore
impiegatizio
e
nelle
fabbriche
belliche
per
la
costruzione
di
armi.
Fecero
cose
–
soprattutto
lavorando
nella
pubblica
amministrazione
–
che
fino
ad
allora
non
avevano
mai
fatto.
Oltre
a
sostituire
gli
uomini,
alleviarono
anche
le
loro
sofferenze.
Come
in
Italia
molti
diciassettenni
nel
1915,
convinti
dalla
propaganda
di
guerra,
partirono
come
volontari
per
difendere
la
patria,
le
donne
diedero
anima,
corpo
e
mente
per
l’Italia
arruolandosi
nell’esercito
delle
crocerossine
curando
i
soldati
feriti
(dal
1916
partirono
anche
per
i
fronti
a
lavorare
negli
ambulatori),
preparavano
loro
un
pasto
caldo
nelle
stazioni
ferroviarie
cui
transitavano
e
imballavano
coperte
e
viveri
da
inviare
nei
teatri
di
guerra.
L’assistenza
organizzata
era
rivolta
anche
verso
altre
donne
che
attendevano
una
lettere
dell’uomo
dal
fronte
o il
suo
ritorno;
queste
erano
le
destinatarie
dei
sussidi
economici
e
delle
derrate
alimentari.
Donne
che
aiutavano
altre
donne.
L’inasprimento
della
guerra
convinse
molte
donne
che
la
vittoria
finale
contro
austriaci
e
tedeschi
fosse
indispensabile,
costi
quel
che
costi.
Nell’aprile
1917
la
scrittrice
milanese
Sofia
Bisi
Albini
fondò
la
Lega
delle
seminatrici
di
Coraggio;
con
volantini
e
opuscoli
propagandavano
ad
impegnarsi
nel
conflitto.
Fu
così
che
in
molte
vennero
a
contatti
con
ambienti
nazionalisti
dal
quale
nacque
il
fascismo
che
abbracciarono
dopo
la
guerra.
Non
solo
sacrifici
per
la
patria,
ma
anche
proteste
dovute
all’esasperazione
e
alla
mancanza
di
cibo
come
la
rivolta
che
vide
teatro
i
quartieri
proletari
di
Torino
nell’agosto
1917:
decine
e
decine
furono
le
donne
uccise,
ferite
o
arrestate.
L’immenso
lavora
svolto
durante
il
conflitto,
alla
fine
ripagò.
Sia
nel
1919
sia
nel
1920,
le
italiane
arrivarono
vicino
all’ottenimento
del
voto,
pur
se
solo
amministrativo.
In
entrambi
i
casi
la
legge
su
approvata
da
un
solo
ramo
del
parlamento
che
fu
sciolto
anticipatamente
prima
che
potesse
essere
discusso
e
approvato
dall’altra
camera.
Nell’estate
del
1919,
a
pochi
mesi
dalla
fine
delle
ostilità,
la
legge
voluta
da
Ettore
Sacchi
fu
promulgata:
abrogava
l’autorizzazione
maritale
e
consentiva
l’accesso
nei
pubblici
impieghi,
avvocatura
inclusa.
Restarono
però
precluse
la
polizia
e la
magistratura.
Nelle
forze
armate
potranno
entrare
solo
nel
2000,
in
magistratura
dal
1963.
Durante
la
dittatura
di
Mussolini
ovviamente
le
condizioni
non
potevano
migliorare
essendo
un
regime
maschilista
che
esaltava
la
virilità
e la
forza
del
maschio
italico.
«Sposa
e
madre
esemplare»
si
diceva
allora.
La
patria
doveva
essere
servita
mettendo
al
mondo
maschi
sani
per
la
costruzione
dell’impero.
La
discriminazione
sulla
tasse
della
scuola
secondaria
mirava
a
non
far
iscrivere
le
razze
a
scuole
se
non
a
quella
femminili
triennali
creati
nel
1939
dove
imparavano
a
cucire,
cucinare
e a
gestire
la
casa.
Il
regime
continuò
a
sfruttare
le
attività
assistenziali.
A
loro
spettava
educare
le
giovani
a
diventare
le
donne
come
la
dittatura
le
desiderava
e a
loro
affidò
i
compiti
di
portare
latte
in
polvere
e
tutine
per
i
neonati
alle
madri,
pratiche
che
rientravano
nella
battaglia
demografica.
Nei
primi
anni
di
vita
dei
fasci
di
combattimento,
furono
istituite
anche
delle
sezioni
femminili
che
presero
appunto
il
nome
di
fasci
femminili.
Potere
decisionale
non
ne
ebbero
mai,
il
loro
impiego
in
società
– e
al
di
fuori
della
mura
domestiche
– fu
poi
portato
avanti
dai
partiti
repubblicani.
Durante
il
secondo
conflitto
mondiale
le
donne
interpretarono
i
nuovi
i
ruoli
assunti
nel
‘15-’18.
Se
per
la
prima
guerra
furono
attive
nell’assistenza
ai
militari
e ad
altre
donne,
durante
la
seconda
guerra
si
diedero
molto
da
fare
certamente
ancora
in
questi
campi
ma
furono
attive
soprattutto
nella
guerra
di
Resistenza
dal
1943
al
1945.
È
doverono
un
cenno
agli
stupri
e
sevizie
subito
durante
le
occupazioni
degli
eserciti
avversari
che
si
fronteggiarono
sulla
penisola.
Particolarmente
note
ed
efferate
furono
gli
episodi
avvenuti
nel
basso
Lazio
ad
opera
delle
truppe
composte
dalle
colonie
africane
della
Francia.
Le
staffette
per
trasportare
messaggi
e
armi
da
un
gruppo
di
partigiani
a un
altro,
l’appoggio,
di
ogni
tipo,
a
chi
combatteva
nazisti
e
fascisti,
fu
esaltato
nel
dopo
guerra
dalla
sinistra
italiana.
Se
dopo
il
conflitto
nel
1919
ottennero
qualcosa,
lo
stesso
avvenne
nel
secondo
dopoguerra,
colmando
una
mancanza
italiana:
il
diritto
di
voto.
L’impulso
di
concedere
questo
sacrosanto
diritto-dovere
di
ogni
buon
cittadino
alle
donne
fu
dato
non
solo
da i
sacrifici
fatti
durante
la
resistenza
diede,
ma
fu
dovuto
anche
perché
era
ormai
una
tendenza
europea
e il
fatto
che
lo
stavano
quasi
per
ricevere
nel
primo
dopoguerra
fece
propendere
per
questa
decisione.
Già
nel
febbraio
1945
il
governo
Bonomi
approvò
quest’importante
provvedimento
e la
prima
volta
che
votarono
non
fu,
come
spesso
viene
ricordato,
in
occasione
del
referendum
sulla
forma
dello
Stato
del
2
giugno
1946
ma
per
le
elezioni
amministrative
del
marzo
dello
stesso
anno.
Non
solo
ebbero
lo
possibilità
di
eleggere
ma
anche
di
essere
elette.
Le
trasformazioni
dal
dopoguerra
furono
significativi,
come
per
tutti
gli
italiani,
particolarmente
durante
il
boom
tra
la
fine
degli
anni
’50
e i
primi
’60.
Se
l’automobile
FIAT
500
è il
simbolo
dell’Italia
che
cresce,
si
diverte
con
le
gite
fuori
casa
la
domenica
e
non
vive
più
di
stenti
che
la
guerra
voluto
da
Mussolini
l’aveva
data,
la
lavatrice
rappresenta
lo
strumento
simbolo
del
miglioramento
della
vita
della
donna
domestica.
Fare
il
bucato
prima
era
un
lavoro
faticosissimo,
con
la
lavatrice
invece
le
fatiche
furono
più
che
dimezzate.
Il
sogno
di
molte
donne
del
sud
era
che
il
marito
trovasse
un
buon
lavoro
al
nord
che
si
stava
riprendendo
e
costruendo
a
dismisura
infrastrutture
e
servizi
e
trasferirsi
con
lui,
lasciando
così
le
campagne
(nelle
quali
molte
donne
ancora
lavoravano)
e
fare
la
vita
urbana.
Andare
al
cinema,
al
teatro
o
nei
grandi
negozi;
piccole
attività
oggi
normali,
allora
erano
un
miraggio.
Con
la
nascita
della
televisione
fecero
altri
lavori:
presentatrici,
truccatrici,
ballerine,
attrici,
costumiste,
mentre
la
politica,
man
mano,
liberava
le
donne
dalla
vecchia
società.
Nel
1950
passò
la
legge
voluta
dalla
deputata
comunista
Teresa
Noce:
se
dal
1902,
anno
in
cui
risale
il
primo
provvedimento
protettivo
per
le
donne
nel
lavoro,
non
dovevano
lavorare
più
di
dieci
ore
al
giorno,
non
svolgere
lavori
notturni,
particolarmente
pericolosi
e
avere
una
maternità
della
durata
di
ventotto
giorni
(seppur
non
retribuiti),
grazie
alla
legge
Noce
la
maternità
fu
allungata
e
proibiva
il
licenziamento
delle
donne
gravide
(licenziamenti
di
tali
tipi
ancora
oggi,
purtroppo,
avvengono,
eludendo
le
normative
vigenti).
Altro
importante
provvedimento
giuridico
fu
la
sentenza
nel
1968
della
Corte
costituzionale
che
non
legittimava
più
la
disparità
di
trattamento
tra
l’uomo
e la
donna
in
caso
di
adulterio.
In
questa
Italia
descritta
che
stava
cambiando,
il
matrimonio
“riparatore”,
ciò
sposare
l’uomo
che
aveva
stuprato
la
donna,
era
ancora
diffuso,
in
modo
che
lei,
per
tutta
la
vita,
avesse
rapporti
sessuali
con
una
sola
persona.
Oggi
nel
mondo
occidentale
(e
in
Italia
con
i
superficiali
pregiudizi
discriminatori
dell’ultim’ora)
si
sente
dire
che
i
paesi
dove
l’Islam
fa
da
padrona
costringono
le
donne
ad
una
condizione
inaccettabile.
Così
come
per
quanto
riguarda
la
tolleranza
religiosa
(frutto
per
lo
più
di
ignoranza
della
religione
stessa
da
parte
di
chi
la
pratica)
entrambi
gli
aspetti
sono
stati
fino
a
decenni
fa
peculiarità
anche
della
nostra
società.
Con
la
speranza
che
anche
le
donne
che
vivono
in
determinati
paesi
possano
un
giorno
scrivere
la
storia
della
loro
emancipazione,
è
giusto
ricordare
come
anche
quei
paesi
stanno
semplicemente
vivendo
i
tempi
in
Italia
già
passati,
anche
se
ancora
non
del
tutto,
e
che
allora
ciò
non
è
dovuto
ad
arretratezza
imputabile
all’etnia.
Un
esempio
indicativo
può
essere
il
comportamento
della
donna
durante
l’atto
sessuale:
ancora
oggi
è
praticata
in
alcune
parti
del
mondo
l’infibulazione
(mutazione
dell’organo
genitale
femminile
il
cui
fine
è
quello
di
non
far
provare
piacere
sessuale),
tradizione
diffusa
più
nel
mondo
islamico
ma
che
in
esso
non
trova
origine
essendo
nata
già
molti
secoli
prima,
almeno
dall’età
dei
faraoni
egiziani.
Nell’Italia
moderna
non
è
mai
stata
diffusa
una
pratica
del
genere,
però
ancora
nel
dopoguerra
per
una
donna
mostrare
piacere
durante
l’atto
sessuale
poteva
attirare
i
sospetti
del
marito
sulla
sua
verginità
e
sul
fatto
che,
provando
piacere,
poteva
essere
una
potenziale
traditrice.
La
fine
della
guerra
portò
all’inizio
di
un’altra,
quella
tra
le
due
superpotenze
che
si
“combatté”
anche
in
Italia
in
quanto
paese
di
frontiera.
Si
fronteggiarono
anche
le
donne
impegnate
in
politica:
le “udine”,
cioè
le
aderenti
all’UDI
(Unione
Donne
Italiane)
di
ispirazione
social-comunista
e
quelle
iscritte
al
CIF
(Centro
Italiano
Femminile)
costola
della
Democrazia
Cristiana.
Entrambe
le
organizzazioni
erano
rivolte
alle
donne
e ai
loro
problemi.
Mentre
l’UDI
era
più
impegnata
ad
assistere
le
donne
del
proletariato,
le
ragazze-madri
e le
operaie,
quelle
del
CIF
erano
anch’esse
impegnate
nelle
attività
assistenziali
(iniziate,
come
visto
già
prima
della
Grande
guerra
e
proseguite
anche
durante
il
fascismo),
e
contemporaneamente
diffondere
la
morale
cattolica
e il
modello
di
donna
voluta
dalla
chiesa.
Il
1968
è
l’anno
della
contestazione
mondiale.
Se
allora
si
predicava
il
libero
sesso,
la
rottura
con
la
tradizione
religiosa
e
partitica
dei
genitori
e
tutto
ciò
che
aveva
caratterizzato
la
loro
epoca,
questo
clima
di
cambiamento
in
Italia
si
protrasse
per
tutti
gli
anni
settanta
però
in
maniera
più
radicale
e
violenta
rispetto
ai
cosiddetti
figli
dei
fiori.
In
quest’arco
di
tempo
(1968-1980)
si
concentrano
i
tanti
cambiamenti
giuridici
che
toccano
la
donna,
sia
come
giovane
che
donna
madre.
In
questi
anni
nacque
anche
tante
organizzazioni
femministe.
Il
primo
importante
provvedimento
che
portò
l’Italia
verso
la
strada
della
laicizzazione
della
società
fu
la
legge
proposta
(poi
approvata
dal
parlamento)
dal
deputato
socialista
Loris
Fortuna
che
indusse
il
divorzio.
Quattro
anni
dopo
i
cittadini
votarono
contrario,
tramite
un
referendum,
all’abrogazione
della
legge.
Nel
1971
furono
abolite
le
norme
fasciste
che
proibivano
l’informazione
sulla
contraccezione
e la
legge
Noce
su
estesa
anche
alle
lavoratrici
a
domicilio.
Nel
1975,
invece,
furono
abolite
le
disposizioni
previste
dal
codice
civile
Pisanelli;
la
donna
non
era
più
obbligata
con
il
matrimonio
a
prendere
il
cognome
e la
cittadinanza
del
marito
e
non
spettava
più
a
lui
decidere
il
luogo
di
residenza.
Il
Partito
Radicale
portò
avanti
la
battaglia
per
legalizzare
l’aborto
ma
quando
il
parlamento
approvò,
nel
1978,
gli
stessi
radicali
furono
insoddisfatti
dei
contenuti
e
quindi
votarono
addirittura
contro.
L’aborto
volontario
era
consentito
solo
entro
i
primi
tre
mesi
e da
effettuare
all’interno
di
strutture
pubbliche.
Dopo
novanta
giorni
si
poteva
abortire
solo
per
salvaguardare
la
salute
della
madre.
Come
con
il
divorzio,
la
Democrazia
Cristiana
portò
alle
urne
un
referendum
abrogativo
nel
1981,
ma
fu
ancora
una
volta
respinto,
sancendo
una
vera
rottura
con
il
passato.
L’ultimo
importantissimo
provvedimento
a
favore
della
donne
è
stato
preso
nel
solo
1996:
lo
stupro
da
reato
contro
la
morale
pubblica
fu
fatto
rientrare
tra
i
reati
contro
la
persona.
Che
tale
decisione
sia
stata
presa
meno
di
vent’anni
fa,
è
eloquente
di
come
l’Italia
abbia
faticato
a
tutelare
giuridicamente
le
donne.
Oggi
esse
sulla
carta
sono
finalmente
pari
agli
uomini,
ma
solo
sulla
carta.
È
facilmente
riscontrabile
come
ancora
oggi
in
Italia
le
donne
siano
discriminate,
con
tanto
di
giudizi
e
pregiudizi,
nella
retribuzione
sul
lavoro,
nei
ruoli
nella
società
e a
casa.
Per
superare
tali
barriere
non
servono
leggi,
bensì
educazione.