N. 64 - Aprile 2013
(XCV)
DINO GRANDI, AMBASCIATORE A LONDRA
L’uomo che cercò di salvare la pace
di Elena Birigozzi
“Un
ambasciatore
che
voglia
difendere
a
tutti
i
costi
l'interesse
del
proprio
paese
deve
essere
pronto,
in
determinate
circostanze
e
sotto
la
sua
personale
responsabilità,
a
disobbedire
alle
istruzioni
del
proprio
governo”.
Questa
è
una
massima
di
Talleyrand
che
l'ambasciatore
italiano
in
missione
a
Londra
sembra
ripetersi
più
volte
durante
il
suo
mandato,
sopratutto
in
quei
momenti
dove
si è
trattato
di
decidere
fra
la
disobbedienza
delle
istruzioni
di
Roma
e
l'interesse
del
proprio
paese.
I
diversi
autori
tracciano
un
quadro
più
o
meno
lusinghiero
di
questo
ambiguo
personaggio
e
non
sempre
è
semplice
comprendere
quanto
ci
sia
del
vero
attraverso
la
documentazione
lasciata
da
Grandi
stesso.
Una
cosa
certa
è
che
Dino
Grandi
è
stato
un
uomo
caparbio
dall'intelligenza
brillante
e ha
saputo
muoversi
negli
ambienti
diplomatici
con
astuzia,
tanto
da
attirare
su
di
sé
la
simpatia
di
chi
ha
creduto
fino
all'ultimo
che
fosse
possibile
mantenere
intatta
la
pace
fra
Londra
e
Roma.
Il
conflitto
italo-etiopico
è
stato
il
primo
grande
banco
di
prova
che
ha
portato
i
rapporti
italo-britannici
a
corrodersi,
salvo
poi
compromettersi
del
tutto
dalla
questione
spagnola.
Dino
Grandi
ha
assunto
un
ruolo
chiave
durante
gli
anni
1935-36
e fu
di
certo
merito
alla
sua
opera
diplomatica
se,
in
qualche
modo,
non
si è
arrivati
immediatamente
ad
una
rottura
definitiva
delle
trattative.
Del
resto,
ogni
sua
mossa
faceva
parte
di
un
progetto
più
ampio
che
Grandi
mise
in
luce
già
da
quando
si
trovava
a
capo
del
Ministero
degli
Esteri,
e
consisteva
principalmente
in
un
graduale
allontanamento
dalla
Germania
a
vantaggio
di
Londra.
Questo
gli
valse
l'odio
da
parte
dei
tedeschi
che
ripetutamente
chiesero
l'allontanamento
del
nostro
ambasciatore
dalla
sede
diplomatica,
appello
tuttavia
al
quale
Mussolini
non
diede
mai
troppo
ascolto
per
tutti
gli
anni
in
cui,
in
effetti,
Dino
Grandi
rimase
nella
sua
sede
a
Grosvenor
Square.
Questo
non
di
certo
perché
Mussolini
si
fidasse
totalmente
dell’ambasciatore,
piuttosto
perché
egli
era
perfettamente
consapevole
del
fatto
che
Grandi
fosse
davvero
l’unica
personalità
in
grado
di
trovare
la
chiave
per
veder
garantita,
all’Italia,
l’amicizia
di
Londra.
Del
resto,
questa
non
è
nemmeno
l’unica
spiegazione
della
rimozione
di
Grandi
dalla
carica
di
Ministro
degli
Esteri
del
Regime:
Mussolini
aveva
bisogno
di
un
fedele
alleato,
non
di
un
critico
di
partito
e
chi,
meglio
di
Galeazzo
Ciano,
avrebbe
potuto
garantire
al
Duce
una
fiducia
tale
da
non
fargli
temere
un
eventuale
doppio
gioco?
La
permanenza
a
Londra
di
Dino
Grandi
ha
attraversato
fasi
con
alti
gradi
di
tensione,
tanto
che
non
sono
mancate
le
dimostrazioni
ostili
di
fronte
all’ambasciata
d’Italia.
Tuttavia,
la
presenza
dell’ambasciatore
è
sempre
stata
accolta
di
buon
grado
da
parte
sia
della
popolazione
sia
del
governo,
e
questo
non
tanto
per
il
Paese
che
rappresentava
quanto
piuttosto
per
il
modo
in
cui
ha
saputo
ergersi
a
“bandiera
del
paese”
piuttosto
che
come
difensore
di
un
regime
non
sempre
condiviso.
Ciò
che
chiedeva
Mussolini
a
Dino
Grandi
era
che
convincesse
gli
alti
esponenti
del
governo
a
promuovere
il
non
intervento
nella
questione
etiopica.
La
politica
britannica
si
identificava
essenzialmente
nella
politica
di
Eden,
al
quale
venivano
attribuite
motivazioni
legate
alle
sue
ambizioni
personali,
in
vista
dell'imminente
crisi
di
governo,
e
data
da
questo
episodio
la
forte
antipatia
del
governo
italiano
nei
confronti
del
futuro
ministro
degli
Esteri
britannico.
Da
più
parti
si
comprese
che
la
contrapposizione
della
istituzione
ginevrina
all'azione,
ormai
inevitabile,
dell'Italia
in
Etiopia
avrebbe
potuto
portare
ad
un
diverso
orientamento
della
politica
estera
italiana.
Che
la
Germania
avesse
già
fatto
tale
ragionamento
e si
apprestasse
a
trarne
vantaggio
era
senza
dubbio
un'idea
diffusa,
alla
quale
diede
corpo
l'ambasciatore
britannico
a
Berlino,
Sir
Eric
Phipps,
quando
riferì,
il
20
maggio,
che
Hitler
dichiarava
apertamente
essere
gli
abissini
una
razza
non
ariana
che
non
lo
interessava
e
che
l'Italia
avrebbe
potuto
inghiottire
se
lo
avesse
desiderato:
“temo
pertanto”,
commentava
l'ambasciatore,
“che
se
ci
opponiamo
con
troppa
forza
all'Italia,
potremo
trovare
il
signor
Hitler
ad
atteggiarsi
quale
miglior
amico
del
signor
Mussolini
con
il
rischio
potenziale
di
un
accordo
italo-tedesco
concluso
dietro
le
nostre
spalle”.
Nel
luglio
1935
si
accentuarono
nel
governo
britannico
preoccupazioni
e
incertezze.
Da
un
lato
il
timore
che
una
troppo
energica
politica
di
contenimento
dell'espansionismo
fascista
potesse
condurre
ad
una
guerra
con
l'Italia,
della
quale
avrebbero
profittato
le
tendenze
egemoniche
tedesche
nell'Europa
centrale
e
l'aggressivo
imperialismo
giapponese
nell'Estremo
Oriente,
consigliava
una
politica
di
appeasement
verso
Mussolini.
Dall'altro,
il
governo
inglese
–
che
a
novembre
doveva
presentarsi
alle
elezioni
–
non
poteva
ignorare
quella
forte
corrente
di
opinione
pubblica
a
favore
della
Società
delle
Nazioni
che
era
stata
clamorosamente
denunziata
dai
risultati
del
“Peace
Ballot”.
Peso
notevole
aveva
pure
l'opinione,
condivisa
da
Churchill,
che
forse
si
poteva
ricavare
dalla
rivendicata
maestà
della
Società
delle
Nazioni
più
di
quanto
l'Italia
potesse
mai
dare,
trattenere
o
trasferire.
Queste
contrastanti
esigenze,
nonché
l'inesperienza
a
trattare
problemi
internazionali
e la
scarsa
attitudine
a
risolverli,
spinsero
il
nuovo
ministro
degli
Esteri.
Hoare,
a
ripiegare
su
quella
che
egli
definì
la
doppia
politica.
Ossia,
fare
ogni
sforzo
per
evitare
un
conflitto
con
l'Italia
e
per
indurre
Mussolini,
a
ripiegare
su
soluzioni
concordate
di
compromesso,
dando
mostra
al
contempo,
di
voler
osservare
lealmente
“gli
obblighi
collettivi
secondo
il
patto,
sulla
base
della
collaborazione
anglo-francese”.
Tuttavia,
il 2
ottobre
1935
alle
ore
15.30
le
sirene
degli
stabilimenti,
le
campane
delle
Chiese
e
delle
torri
civiche
di
tutta
la
penisola
chiamavano
a
raccolta
il
popolo
italiano
per
partecipare
allo
“spettacolo
più
gigantesco
che
si
vide
nella
storia
del
genere
umano”.
Poco
dopo,
alle
17.15,
lo
“spettacolo”
aveva
inizio.
Iniziate
le
operazioni
militare
nel
Tigré
e
presa
Adua,
Grandi
espresse
al
duce
tutta
la
soddisfazione
per
l'avvenuta
vendetta
della
sconfitta
del
'96,
congiuntamente
all'inalterata
preoccupazione
per
la
brutta
piega
assunta
dalle
relazioni
anglo-italiane.
L'ambasciatore
riconobbe,
a
posteriori,
che
Mussolini
aveva
giocato
bene,
disorientando
completamente
la
controparte
britannica,
già
persuasa
che
la
propria
opera
di
“intimidazione”
sarebbe
bastata
ad
evitare
l'attraversamento
del
Mareb
da
parte
italiana.
All'ambasciatore
parve
anche,
però,
che
al
primo
disorientamento
nel
governo
inglese
fosse
succeduto
un
forte
impulso
a
somministrare
una
buona
lezione
all'Italia,
colpevole
d'aver
osato
ergersi
a
interlocutrice
paritaria
dell'impero
britannico.
In
sostanza,
per
Grandi,
Londra
aveva
ormai
trasformato
la
questione
abissina
e
societaria
in
un
confronto
mediterraneo
tra
Roma
e
Albione,
confronto
in
cui
la
prima
doveva
essere
punita
per
la
presuntuosa
fuoruscita
dai
ranghi
subalterni
della
politica
estera
italiana
pre
1922.
La
rivincita
del
Foreign
Office,
come
Grandi
la
definì,
era
stata
certo
facilitata
dal
tono
eccessivamente
aggressivo
della
nostra
propaganda
antinglese,
ma
aveva
d'altronde
radici
oggettive
nell'irrinunciabile
richiesta
italiana
di
parità
imperiale
nel
Mediterraneo.
Perciò,
se
Roma
non
poteva
cedere,
pena
il
fallimento
dell'obbiettivo
fondamentale
della
rivoluzione
fascista,
grandianamente
intesa,
Mussolini
doveva
mostrarsi
tuttavia
ragionevole,
stando
ancora
al
nostro
diplomatico,
accettando
una
soluzione
di
compromesso,
pur
sempre
basata
sul
principio
del
controllo
italiano
dell'Etiopia.
Improvvisamente,
alla
metà
di
ottobre,
lo
stato
d'animo
grandiano
mutò
di
nuovo,
a
causa
del
“cambiamento
di
tono”
nelle
dichiarazioni
governative
inglesi,
tese
ad
assicurare
che
la
Gran
Bretagna
non
aveva
alcuna
intenzione
aggressiva
nei
confronti
dell'Italia.
L'ambasciatore
attribuì
tale
“voltafaccia”
alla
rinnovata
opposizione,
anche
parlamentare,
della
destra
conservatrice
e
imperialista
(pure
“imbeccata”
a
dovere
dalla
nostra
ambasciata),
nonché
al
“panico”
diffusosi
nella
City
per
la
prospettiva
d'una
guerra
coll'Italia.
Ormai
sicuri
della
vittoria
elettorale,
del
resto,
i
“nazionali”-
vista
esaurita
senza
alcun
esito
la
fase
più
acuta
dell'azione
“intimidatrice”
svolta
su
Roma
–
miravano
a
tranquillizzare,
per
Grandi,
l'opinione
pubblica
interna,
che
a
sua
volta,
evaporati
i
fumi
più
intensi
dell'“isteria”
societaria
e
antitaliana,
tendeva
a
ritrarsi,
esausta
e
spaventata,
dall'orlo
del
precipizio
della
guerra.
E,
allora,
giusto
quello
era
il
momento
di
esibire
un'equa
ragionevolezza
e di
intraprendere
trattative
serie,
mostrandosi
al
contempo
fermi
nella
volontà
di
raggiungere
il
traguardo
prefissato,
visto
che
Londra
non
aveva
in
realtà
ancora
deciso
se
scendere
militarmente
in
campo
o
negoziare,
e
dato
che
Hoare
subiva
sempre
più
di
malanimo
la
linea
ministeriale
dell'intransigenza
societaria.
Tornato
a
Londra,
e
ormai
svoltesi
le
elezioni
politiche
inglesi
del
14
novembre,
il
nostro
ambasciatore
assunse
l'iniziativa
di
tentare
l'apertura
di
un
negoziato
diretto
fra
Italia
e
Regno
Unito,
nella
convinzione
che
il
tempo
delle
scelte
britanniche
fosse
ormai
giunto
“all'ultimo
quarto
d'ora”
(con
Eden
favorevole
a
più
drastiche
misure
antitaliane,
fino
all'embargo
sul
petrolio),
e
che
non
potessero
bastare
ad
evitare
una
crisi
irreparabile
né
le
trattative
centrate
su
Parigi
né
le
missioni
“ufficiose”
alla
Ezio
Garibaldi,
sgradite
agli
inglesi.
Approfittando
di
una
riunione
preparatoria
della
conferenza
navale,
Grandi
s'abboccò
dunque
con
Hoare,
e
venne
poi
invitato
ad
un
colloquio
con
Vansittart,
sottosegretario
permanente
al
ministero
degli
esteri.
Il
duce,
che
in
primo
tempo
aveva
ordinato
al
proprio
diplomatico
di
tenersi
alla
larga
dal
Foreign
Office,
gli
permise
stavolta
di
intavolare
un
negoziato,
sia
pure
solo
a
titolo
personale
e
senza
coinvolgere
ufficialmente
il
governo
fascista.
Il
piano
Hoare-Laval
prese
corpo
poco
alla
volta
proprio
da
queste
e da
altre
trattative.
Grandi
riuscì
a
spingere
al
massimo
la
buona
volontà
di
Vansittart
per
raggiungere
ad
ogni
costo
un
accordo
che
comportasse
non
solo
la
soluzione
della
crisi
etiopica
ma
anche
di
quella
mediterranea.
In
ciò
Grandi
fu
anche
aiutato,
indirettamente
e
insperatamente,
da
Hitler,
che,
dopo
aver
attaccato
violentemente
la
politica
sanzionista
e
prospettato
una
guerra
europea
con
suo
ultimo
sbocco,
si
era
decisamente
rifiutato
di
riprendere
con
l'Inghilterra
le
conversazioni
in
merito
al
patto
aereo,
sulla
base
dei
tredici
punti
del
discorso
al
Reichstag
del
31
maggio.
L'esame
della
documentazione
anglo-italiana
relativa
alle
conversazioni
Hoare-Grandi
del
26
novembre,
e
Vansittart-Grandi
del
29
dicembre
e
del
3-5
dicembre,
dimostra
senza
ombra
di
dubbio
che
fu
nel
corso
di
queste
trattative
dirette
fra
Roma
e
Londra,
e
non
dalle
discussioni
ufficiali
che
i
due
esperti
di
problemi
africani,
Peterson
e De
Saint-Quentin,
conducevano
a
Parigi,
che
il
piano
Hoare-Laval
prese
corpo
e
assunse
un
carattere
pressoché
definitivo
sin
dal
4
dicembre.
Infatti,
non
appena
aprì
i
suoi
negoziati
informali
con
Grandi,
Vansittart
raccomandava
a
Peterson
di
segnare
il
passo.
Se
alla
fine
si
raggiunse
un'intesa
fra
il
punto
di
vista
italiano
e
quello
britannico,
ciò
fu
dovuto,
da
un
lato,
all'estrema
abilità
nel
negoziare
di
Grandi,
e
dall'altro,
alla
ferrea
decisione
di
Vansittart
di
raggiungere
un
accordo
con
Roma
che
garantisse,
al
tempo
stesso,
la
soluzione
della
crisi
mediterranea
e la
ricostruzione
di
un
fronte
comune,
italo-franco-britannico,
contro
la
Germania.
Comprendendo
perfettamente
le
difficoltà
in
cui
si
dibatteva
la
politica
britannica,
Grandi
mantenne
incrollabilmente
ferma
la
posizione
italiana
sul
programma
massimo,
che
il
Generale
Garibaldi
aveva
già
esposto,
senza
successo,
a
Hoare.
Come
Grandi
spiegava
a
Mussolini,
questa
sua
pretesa
irriducibilità
mirava
a
forzare
la
mano
alla
Gran
Bretagna,
per
assicurare
all'Italia
un
accordo
rapido
e
conclusivo.
In
poco
più
di
una
settimana,
Vansittart
capitolò
praticamente
davanti
a
tutte
le
richieste
italiane.
Premature
indiscrezioni
di
stampa,
pare
di
fronte
parigina,
sul
piano
Hoare-Laval
indebolirono
alquanto
il
premier
francese
e
costrinsero
il
ministro
inglese
alle
dimissioni.
Toccò
proprio
a
Grandi,
la
notte
del
18
dicembre,
telefonare
a
Roma
la
notizia
del
siluramento
di
Hoare,
provocando
l'aggiornamento
del
Gran
Consiglio
riunito
per
approvare
l'accordo.
L'ambasciatore
attribuì
la
responsabilità
decisiva
del
fallimento
del
compromesso
ai
Die-hards
del
Quai
d'Orsay,
accusati
di
voler
inasprire
la
crisi
anglo-italiana
per
ottenere
infine
l'alleanza
anglo-francese
antitaliana
e
antitedesca.
Poi
Grandi
completò
l'analisi,
evocando
i
contrasti
interni
della
politica
francese
e,
sopratutto,
di
quella
britannica,
traendone
spunto
per
l'ennesima
filippica
ideologica
contro
le
democrazie
parlamentari
e il
sistema
dei
partiti.
Secondo
Grandi,
infatti,
il
piano
sarebbe
stato
ancora
salvabile
se
solo
Balwin
avesse
subito
difeso
Hoare
dai
primi
attacchi
alla
Camera
dei
Comuni
il
10
dicembre.
Ma
Hoare
era
stato
sacrificato
per
un
“triplice
intrigo”.
Tutto
a
favore
dell'Italia
era
il
nuovo
re
britannico,
Edoardo
VIII,
con
cui
Grandi
aveva
ormai
instaurato
un
rapporto
di
amicizia
personale.
Il
sovrano
non
faceva
mistero
delle
sue
simpatie
per
la
dittatura
mussoliniana
e
per
quella
hitleriana,
della
sua
antipatia
per
la
Società
delle
Nazioni,
del
suo
sostegno
alla
nostra
guerra
africana;
e
non
mancò
di
sottolineare
più
volte,
in
pubblico
e in
privato,
la
propria
considerazione
per
Grandi
e
per
il
paese
da
lui
rappresentato.
Persuaso
che
Mussolini
avrebbe
presto
“spezzato
le
reni”
al
negus
(parere
in
genere
non
condiviso
dagli
esperti
militari
britannici),
e
sostenitore
d'una
politica
dell'accordo
fra
la
tradizionale
monarchia
inglese
e i
due
regimi
rivoluzionari
del
Vecchio
Continente
per
la
difesa
della
civiltà
europea,
Edoardo
VIII
stava
svolgendo
un'opera
personale
di
freno
su
Baldwin
e su
Eden,
onde
convincerli
della
necessità
assoluta
d'arrestare
la
macchina
sanzionista.
Quando
poi
la
Germania
procedette
unilateralmente
alla
rimilitarizzazione
della
Renania,
Grandi
votò
di
testa
sua
l'adesione
italiana
alla
condanna
tedesca,
convinto
che
proprio
l'Europa
dovesse
costituire
il
campo
di
manifestazione
per
eccellenza
della
vocazione
societaria
di
Roma,
vocazione
intesa
naturalmente
quale
interesse
comune
delle
tre
potenze
di
Stresa
alla
difesa
della
sicurezza
continentale
dalla
minaccia
del
revanscismo
germanico.
Timoroso
della
rinnovata
disponibilità
inglese
verso
Berlino,
Grandi
giudicò
quindi
la
maggior
duttilità
del
duce
nell'occasione
renana
pericolosa
e
controproducente,
sia
in
riferimento
alla
questione
austriaca
e
dell'Europa
centro-orientale,
sia
in
riferimento
alla
nostra
politica
verso
Londra,
Parigi
e
Ginevra.
La
sicurezza
e
l'autonomia
italiane,
secondo
Grandi,
potevano
infatti
essere
tutelate
insieme
solo
con
la
ricostruzione
d'un
asse
Roma-Londra,
su
cui
poggiassero
gli
assi
Londra-Parigi
e
Parigi-Roma,
in
un
“equilibrato”
fronte
di
Stresa
che
ci
garantisse
dai
tedeschi
marginalizzare
il
nostro
ruolo
diplomatico.
Ripresa
decisivamente
la
marcia
vittoriosa
delle
truppe
italiane
in
Abissinia,
Grandi
segnalò
a
Roma
un
ritorno
di
fiamma
del
sanzionismo
inglese
tra
la
fine
di
marzo
e i
primi
d'aprile.
Secondo
l'ambasciatore,
esisteva
allora
un
preciso
piano
governativo,
ispirato
naturalmente
da
Eden,
finalizzato
a
mobilitare
nuovamente
l'opinione
pubblica
interna
contro
l'Italia,
dopo
le
“distrazioni”
della
vicenda
renana,
onde
preparare
il
terreno
per
l'estremo
tentativo
d'ottenere
a
Ginevra
dalla
Francia
l'assenso
all'embargo
sul
petrolio.
Sia
pure
attribuendo
alla
linea
britannica
una
portata,
una
coerenza
e
un'organicità
anti-italiane
nella
realtà
inesistenti,
Grandi
colpiva
nel
segno
quando
sottolineava
l'effetto
scioccante
provocato
nell'opinione
pubblica
inglese
dall'inattesa
e
rapida
vittoria
totale
del
nostro
esercito
in
Africa.
Notato
con
soddisfazione
il
calando
della
polemica
antibritannica
sulla
nostra
stampa,
e
incaricato
dal
duce
d'incontrarsi
con
re
Edoardo
per
sottolineare
l'inalterata
volontà
italiana
di
ristabilire
cordiali
relazioni
diplomatiche
coll'Inghilterra
in
vista
d'un
accordo
generale
tra
i
due
imperi,
Grandi
confermò
a
Mussolini
che,
nella
sostanza,
Londra
considerava
ormai
di
fatto
chiuso
l'affare
abissino,
al
di
là
della
forma
che
Roma
avrebbe
inteso
dare
alla
sua
conquista
totale
dello
Stato
etiopico.
Anzi:
Grandi
insisté
con
Mussolini
sull'opportunità
della
soluzione
integrale,
presentandola
come
un
suggerimento
dello
stesso
Edoardo
VIII,
convinto
che
una
tale
scelta
avrebbe
ostacolati
i
piani
del
fronte
sanzionista,
voglioso
di
tentare
l'ultima
carta
della
chiusura
del
Canale
di
Suez
e
speranzoso
in
una
prossima
vittoria
elettorale
della
sinistra
francese.
L'Inghilterra,
però,
aveva
aggiunto
Edoardo
VIII,
necessitava
di
tempo,
il
tempo
necessario
al
suo
sistema
politico
per
digerire
la
conquista
italiana
del
Corno
d'Africa
senza
confessare
d'aver
sbagliato
tutto
sin
dall'inizio,
coll'impostazione
in
termini
societari
della
difesa
dei
propri
interessi
nella
regione.
Non
solo:
Grandi
approfittava
della
circostanza
per
ricordare
tra
le
righe
al
duce
che
la
crisi
abissina
stava
cominciando
a
guarire
lo
spirito
pubblico
della
vecchia
Inghilterra
dall'“intossicazione”
del
mito
disarmato
della
sicurezza
collettiva.
L'impotenza
mostrata
nell'occasione
dall'istituto
ginevrino
aveva
infatti
provato
la
realistica
fondatezza
delle
tesi
riarmiste
dei
“profeti
societari”
alla
Churchill,
iniziando
a
determinare,
in
settori
peraltro
ancora
limitati
dell'opinione
pubblica
interna,
una
tendenza
favorevole
al
potenziamento
delle
forze
armate
britanniche.
Grandi,
in
sostanza,
voleva
far
capire
a
Mussolini
che
la
“sberla”
abissina
aveva
avviato
il
risveglio
del
tradizionale
spirito
dell'imperialismo
inglese,
ben
deciso
–
nonostante
l'“ostacolo”
rappresentato
dalla
democrazia
parlamentare
– a
difendere
d'allora
in
poi
ovunque
il
proprio
prestigio
e i
propri
interessi.
Grandi
non
si
stancava
di
ammonire
Mussolini
sul
“doppio
gioco”
dei
nazisti,
che
non
perdevano
occasione
per
mettere
in
cattiva
luce
Roma
agli
occhi
di
Londra;
così
come
non
si
stancava
di
ripetere
fino
all'ossessione
che
si
doveva
subito
lavorare
al
progetto
d'una
nuova
Stresa
fondata
sull'asse
Italia-Inghilterra.
Come
si è
detto,
l'opera
di
Dino
Grandi
è
stata
frutto
di
un
suo
personale
progetto
che
non
sempre
coincideva
con
ciò
che
Mussolini
gli
richiedeva.
Più
volte,
nel
corso
del
suo
mandato
a
Londra
in
qualità
di
ambasciatore
italiano,
ha
cercato
di
portare
avanti
accordi
dei
quali
il
Duce
fu
avvisato
in
un
secondo
momento.
Dal
momento
in
cui
si
era
concluso
il
conflitto
etiopico
Grandi
era
personalmente
tutto
teso
a
ricostruire
l'amicizia
italo-inglese.
Già
l'anno
precedente
egli
aveva
avuto
una
parte
notevole
nel
preparare
il
gentlemen's
agreement,
anche
se
Ciano
aveva
voluto
poi
negoziarlo
personalmente
a
Roma,
tagliando
praticamente
fuori
dalle
trattative
l'ambasciata
di
Londra.
Diventato
primo
ministro
Chamberlain,
Grandi
aveva
già
mosso
le
prime
pedine,
convinto
che
il
momento
favorevole
fosse
finalmente
arrivato.
Si
buttò
a
capofitto
nell'operazione,
pronto
a
servirsi
di
tutti
i
mezzi,
persino
a
far
dire
a
Chamberlain
e
Mussolini
più
di
quanto
erano
disposti
a
dire,
pur
di
creare
tra
loro
quella
fiducia
che
sola
avrebbe
potuto
permettere
l'avvio
di
quel
negoziato
che
entrambi
volevano,
ma
che,
nella
loro
reciproca
diffidenza,
entrambi
temevano
potesse
naufragare
con
gravi
conseguenze
per
il
loro
prestigio
e la
loro
politica.
Lo
dimostrano
le
sue
memorie,
nelle
quali
possiamo
leggere
questo
importante
passaggio
in
riferimento
alla
guerra
di
Spagna
che,
come
sappiamo,
sarà
poi
la
causa
di
una
rottura
definitiva
con
il
governo
inglese:
“Una
sera
del
giugno
1937
aveva
luogo
al
Foreign
Office
il
consueto
pranzo
in
occasione
del
compleanno
del
Sovrano,
pranzo
al
quale
partecipavano,
oltre
i
membri
del
governo,
i
capi
delle
missioni
diplomatiche
a
Londra.
In
quell'occasione
mi
incontrai
a
lungo
con
Neville
Chamberlain
col
quale
finsi
di
aver
ricevuto
una
lettera
di
Mussolini
nella
quale
il
capo
del
governo
italiano
si
esprimeva
con
parole
di
sincera
simpatia
verso
la
persona
del
nuovo
Primo
Ministro,
non
tacendo
il
suo
desiderio
che
fossero
ristabiliti
al
più
presto
rapporti
d'amicizia
e di
collaborazione
tra
i
nostri
due
paesi.
Chamberlain
fu
toccato
da
questa
comunicazione
e mi
pregò
di
ricambiare
a
Mussolini
gli
stessi
sentimenti.
Mi
affrettai
a
informare
Mussolini
dell'espressione
e
delle
parole
di
Chamberlain,
del
che
il
duce
si
mostrò
lusingato
e
soddisfatto.
Così
fu
di
nuovo
rotto
il
ghiaccio
e
l'atmosfera
di
personale
simpatia
si
rinnovò
fra
Chamberlain
e il
duce”.
Renzo
De
Felice
definisce
abilissimi,
se
non
addirittura
mefistotelici,
questi
“giochini”
di
cui
Dino
Grandi
si è
servito
per
raggiungere
i
suoi
scopi
che,
a
dire
del
nostro
ambasciatore,
erano
sempre
uniti
all'interesse
dell'Italia
stessa.
Non
è
opportuno
fare
qui
personali
considerazioni
circa
la
presunta
scorrettezza
di
queste
azioni,
né
tanto
meno
è
possibile
dedurre
se
la
loro
attuazione
fosse
stata
realmente
fondamentale
per
il
mantenimento
dei
buoni
rapporti
fra
i
due
paesi.
I
fatti
ci
dimostrano
che,
alla
fine,
la
guerra
si
ebbe
e
nessuno
poté,
o
volle,
fare
nulla
per
evitarla.
“Il
Duce
diffidava
non
di
me,
ma
delle
mie
idee,
che
erano
quasi
sempre
in
contrasto
con
le
sue.
Fui
sempre
leale
con
lui,
quando
lo
difesi
e
quando
sentii
il
dovere
di
combatterlo.”