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N. 64 - Aprile 2013 (XCV)

DINO GRANDI, AMBASCIATORE A LONDRA
L’uomo che cercò di salvare la pace

di Elena Birigozzi

 

“Un ambasciatore che voglia difendere a tutti i costi l'interesse del proprio paese deve essere pronto, in determinate circostanze e sotto la sua personale responsabilità, a disobbedire alle istruzioni del proprio governo”.


Questa è una massima di Talleyrand che l'ambasciatore italiano in missione a Londra sembra ripetersi più volte durante il suo mandato, sopratutto in quei momenti dove si è trattato di decidere fra la disobbedienza delle istruzioni di Roma e l'interesse del proprio paese.

 

I diversi autori tracciano un quadro più o meno lusinghiero di questo ambiguo personaggio e non sempre è semplice comprendere quanto ci sia del vero attraverso la documentazione lasciata da Grandi stesso.

 

Una cosa certa è che Dino Grandi è stato un uomo caparbio dall'intelligenza brillante e ha saputo muoversi negli ambienti diplomatici con astuzia, tanto da attirare su di sé la simpatia di chi ha creduto fino all'ultimo che fosse possibile mantenere intatta la pace fra Londra e Roma. Il conflitto italo-etiopico è stato il primo grande banco di prova che ha portato i rapporti italo-britannici a corrodersi, salvo poi compromettersi del tutto dalla questione spagnola.


Dino Grandi ha assunto un ruolo chiave durante gli anni 1935-36 e fu di certo merito alla sua opera diplomatica se, in qualche modo, non si è arrivati immediatamente ad una rottura definitiva delle trattative.

 

Del resto, ogni sua mossa faceva parte di un progetto più ampio che Grandi mise in luce già da quando si trovava a capo del Ministero degli Esteri, e consisteva principalmente in un graduale allontanamento dalla Germania a vantaggio di Londra. Questo gli valse l'odio da parte dei tedeschi che ripetutamente chiesero l'allontanamento del nostro ambasciatore dalla sede diplomatica, appello tuttavia al quale Mussolini non diede mai troppo ascolto per tutti gli anni in cui, in effetti, Dino Grandi rimase nella sua sede a Grosvenor Square.

 

Questo non di certo perché Mussolini si fidasse totalmente dell’ambasciatore, piuttosto perché egli era perfettamente consapevole del fatto che Grandi fosse davvero l’unica personalità in grado di trovare la chiave per veder garantita, all’Italia, l’amicizia di Londra. Del resto, questa non è nemmeno l’unica spiegazione della rimozione di Grandi dalla carica di Ministro degli Esteri del Regime: Mussolini aveva bisogno di un fedele alleato, non di un critico di partito e chi, meglio di Galeazzo Ciano, avrebbe potuto garantire al Duce una fiducia tale da non fargli temere un eventuale doppio gioco?


La permanenza a Londra di Dino Grandi ha attraversato fasi con alti gradi di tensione, tanto che non sono mancate le dimostrazioni ostili di fronte all’ambasciata d’Italia. Tuttavia, la presenza dell’ambasciatore è sempre stata accolta di buon grado da parte sia della popolazione sia del governo, e questo non tanto per il Paese che rappresentava quanto piuttosto per il modo in cui ha saputo ergersi a “bandiera del paese” piuttosto che come difensore di un regime non sempre condiviso.

 

Ciò che chiedeva Mussolini a Dino Grandi era che convincesse gli alti esponenti del governo a promuovere il non intervento nella questione etiopica. La politica britannica si identificava essenzialmente nella politica di Eden, al quale venivano attribuite motivazioni legate alle sue ambizioni personali, in vista dell'imminente crisi di governo, e data da questo episodio la forte antipatia del governo italiano nei confronti del futuro ministro degli Esteri britannico.

 

Da più parti si comprese che la contrapposizione della istituzione ginevrina all'azione, ormai inevitabile, dell'Italia in Etiopia avrebbe potuto portare ad un diverso orientamento della politica estera italiana. Che la Germania avesse già fatto tale ragionamento e si apprestasse a trarne vantaggio era senza dubbio un'idea diffusa, alla quale diede corpo l'ambasciatore britannico a Berlino, Sir Eric Phipps, quando riferì, il 20 maggio, che Hitler dichiarava apertamente essere gli abissini una razza non ariana che non lo interessava e che l'Italia avrebbe potuto inghiottire se lo avesse desiderato: “temo pertanto”, commentava l'ambasciatore, “che se ci opponiamo con troppa forza all'Italia, potremo trovare il signor Hitler ad atteggiarsi quale miglior amico del signor Mussolini con il rischio potenziale di un accordo italo-tedesco concluso dietro le nostre spalle”.


Nel luglio 1935 si accentuarono nel governo britannico preoccupazioni e incertezze. Da un lato il timore che una troppo energica politica di contenimento dell'espansionismo fascista potesse condurre ad una guerra con l'Italia, della quale avrebbero profittato le tendenze egemoniche tedesche nell'Europa centrale e l'aggressivo imperialismo giapponese nell'Estremo Oriente, consigliava una politica di appeasement verso Mussolini. Dall'altro, il governo inglese – che a novembre doveva presentarsi alle elezioni – non poteva ignorare quella forte corrente di opinione pubblica a favore della Società delle Nazioni che era stata clamorosamente denunziata dai risultati del “Peace Ballot”.

 

Peso notevole aveva pure l'opinione, condivisa da Churchill, che forse si poteva ricavare dalla rivendicata maestà della Società delle Nazioni più di quanto l'Italia potesse mai dare, trattenere o trasferire. Queste contrastanti esigenze, nonché l'inesperienza a trattare problemi internazionali e la scarsa attitudine a risolverli, spinsero il nuovo ministro degli Esteri. Hoare, a ripiegare su quella che egli definì la doppia politica. Ossia, fare ogni sforzo per evitare un conflitto con l'Italia e per indurre Mussolini, a ripiegare su soluzioni concordate di compromesso, dando mostra al contempo, di voler osservare lealmente “gli obblighi collettivi secondo il patto, sulla base della collaborazione anglo-francese”.


Tuttavia, il 2 ottobre 1935 alle ore 15.30 le sirene degli stabilimenti, le campane delle Chiese e delle torri civiche di tutta la penisola chiamavano a raccolta il popolo italiano per partecipare allo “spettacolo più gigantesco che si vide nella storia del genere umano”. Poco dopo, alle 17.15, lo “spettacolo” aveva inizio. Iniziate le operazioni militare nel Tigré e presa Adua, Grandi espresse al duce tutta la soddisfazione per l'avvenuta vendetta della sconfitta del '96, congiuntamente all'inalterata preoccupazione per la brutta piega assunta dalle relazioni anglo-italiane.

 

L'ambasciatore riconobbe, a posteriori, che Mussolini aveva giocato bene, disorientando completamente la controparte britannica, già persuasa che la propria opera di “intimidazione” sarebbe bastata ad evitare l'attraversamento del Mareb da parte italiana. All'ambasciatore parve anche, però, che al primo disorientamento nel governo inglese fosse succeduto un forte impulso a somministrare una buona lezione all'Italia, colpevole d'aver osato ergersi a interlocutrice paritaria dell'impero britannico.

 

In sostanza, per Grandi, Londra aveva ormai trasformato la questione abissina e societaria in un confronto mediterraneo tra Roma e Albione, confronto in cui la prima doveva essere punita per la presuntuosa fuoruscita dai ranghi subalterni della politica estera italiana pre 1922.

 

La rivincita del Foreign Office, come Grandi la definì, era stata certo facilitata dal tono eccessivamente aggressivo della nostra propaganda antinglese, ma aveva d'altronde radici oggettive nell'irrinunciabile richiesta italiana di parità imperiale nel Mediterraneo.

 

Perciò, se Roma non poteva cedere, pena il fallimento dell'obbiettivo fondamentale della rivoluzione fascista, grandianamente intesa, Mussolini doveva mostrarsi tuttavia ragionevole, stando ancora al nostro diplomatico, accettando una soluzione di compromesso, pur sempre basata sul principio del controllo italiano dell'Etiopia.


Improvvisamente, alla metà di ottobre, lo stato d'animo grandiano mutò di nuovo, a causa del “cambiamento di tono” nelle dichiarazioni governative inglesi, tese ad assicurare che la Gran Bretagna non aveva alcuna intenzione aggressiva nei confronti dell'Italia. L'ambasciatore attribuì tale “voltafaccia” alla rinnovata opposizione, anche parlamentare, della destra conservatrice e imperialista (pure “imbeccata” a dovere dalla nostra ambasciata), nonché al “panico” diffusosi nella City per la prospettiva d'una guerra coll'Italia.

 

Ormai sicuri della vittoria elettorale, del resto, i “nazionali”- vista esaurita senza alcun esito la fase più acuta dell'azione “intimidatrice” svolta su Roma – miravano a tranquillizzare, per Grandi, l'opinione pubblica interna, che a sua volta, evaporati i fumi più intensi dell'“isteria” societaria e antitaliana, tendeva a ritrarsi, esausta e spaventata, dall'orlo del precipizio della guerra. E, allora, giusto quello era il momento di esibire un'equa ragionevolezza e di intraprendere trattative serie, mostrandosi al contempo fermi nella volontà di raggiungere il traguardo prefissato, visto che Londra non aveva in realtà ancora deciso se scendere militarmente in campo o negoziare, e dato che Hoare subiva sempre più di malanimo la linea ministeriale dell'intransigenza societaria.


Tornato a Londra, e ormai svoltesi le elezioni politiche inglesi del 14 novembre, il nostro ambasciatore assunse l'iniziativa di tentare l'apertura di un negoziato diretto fra Italia e Regno Unito, nella convinzione che il tempo delle scelte britanniche fosse ormai giunto “all'ultimo quarto d'ora” (con Eden favorevole a più drastiche misure antitaliane, fino all'embargo sul petrolio), e che non potessero bastare ad evitare una crisi irreparabile né le trattative centrate su Parigi né le missioni “ufficiose” alla Ezio Garibaldi, sgradite agli inglesi.


Approfittando di una riunione preparatoria della conferenza navale, Grandi s'abboccò dunque con Hoare, e venne poi invitato ad un colloquio con Vansittart, sottosegretario permanente al ministero degli esteri. Il duce, che in primo tempo aveva ordinato al proprio diplomatico di tenersi alla larga dal Foreign Office, gli permise stavolta di intavolare un negoziato, sia pure solo a titolo personale e senza coinvolgere ufficialmente il governo fascista.


Il piano Hoare-Laval prese corpo poco alla volta proprio da queste e da altre trattative. Grandi riuscì a spingere al massimo la buona volontà di Vansittart per raggiungere ad ogni costo un accordo che comportasse non solo la soluzione della crisi etiopica ma anche di quella mediterranea.

 

In ciò Grandi fu anche aiutato, indirettamente e insperatamente, da Hitler, che, dopo aver attaccato violentemente la politica sanzionista e prospettato una guerra europea con suo ultimo sbocco, si era decisamente rifiutato di riprendere con l'Inghilterra le conversazioni in merito al patto aereo, sulla base dei tredici punti del discorso al Reichstag del 31 maggio.

 

L'esame della documentazione anglo-italiana relativa alle conversazioni Hoare-Grandi del 26 novembre, e Vansittart-Grandi del 29 dicembre e del 3-5 dicembre, dimostra senza ombra di dubbio che fu nel corso di queste trattative dirette fra Roma e Londra, e non dalle discussioni ufficiali che i due esperti di problemi africani, Peterson e De Saint-Quentin, conducevano a Parigi, che il piano Hoare-Laval prese corpo e assunse un carattere pressoché definitivo sin dal 4 dicembre. Infatti, non appena aprì i suoi negoziati informali con Grandi, Vansittart raccomandava a Peterson di segnare il passo.


Se alla fine si raggiunse un'intesa fra il punto di vista italiano e quello britannico, ciò fu dovuto, da un lato, all'estrema abilità nel negoziare di Grandi, e dall'altro, alla ferrea decisione di Vansittart di raggiungere un accordo con Roma che garantisse, al tempo stesso, la soluzione della crisi mediterranea e la ricostruzione di un fronte comune, italo-franco-britannico, contro la Germania.

 

Comprendendo perfettamente le difficoltà in cui si dibatteva la politica britannica, Grandi mantenne incrollabilmente ferma la posizione italiana sul programma massimo, che il Generale Garibaldi aveva già esposto, senza successo, a Hoare. Come Grandi spiegava a Mussolini, questa sua pretesa irriducibilità mirava a forzare la mano alla Gran Bretagna, per assicurare all'Italia un accordo rapido e conclusivo. In poco più di una settimana, Vansittart capitolò praticamente davanti a tutte le richieste italiane. Premature indiscrezioni di stampa, pare di fronte parigina, sul piano Hoare-Laval indebolirono alquanto il premier francese e costrinsero il ministro inglese alle dimissioni.

 

Toccò proprio a Grandi, la notte del 18 dicembre, telefonare a Roma la notizia del siluramento di Hoare, provocando l'aggiornamento del Gran Consiglio riunito per approvare l'accordo. L'ambasciatore attribuì la responsabilità decisiva del fallimento del compromesso ai Die-hards del Quai d'Orsay, accusati di voler inasprire la crisi anglo-italiana per ottenere infine l'alleanza anglo-francese antitaliana e antitedesca. Poi Grandi completò l'analisi, evocando i contrasti interni della politica francese e, sopratutto, di quella britannica, traendone spunto per l'ennesima filippica ideologica contro le democrazie parlamentari e il sistema dei partiti. Secondo Grandi, infatti, il piano sarebbe stato ancora salvabile se solo Balwin avesse subito difeso Hoare dai primi attacchi alla Camera dei Comuni il 10 dicembre. Ma Hoare era stato sacrificato per un “triplice intrigo”.


Tutto a favore dell'Italia era il nuovo re britannico, Edoardo VIII, con cui Grandi aveva ormai instaurato un rapporto di amicizia personale. Il sovrano non faceva mistero delle sue simpatie per la dittatura mussoliniana e per quella hitleriana, della sua antipatia per la Società delle Nazioni, del suo sostegno alla nostra guerra africana; e non mancò di sottolineare più volte, in pubblico e in privato, la propria considerazione per Grandi e per il paese da lui rappresentato. Persuaso che Mussolini avrebbe presto “spezzato le reni” al negus (parere in genere non condiviso dagli esperti militari britannici), e sostenitore d'una politica dell'accordo fra la tradizionale monarchia inglese e i due regimi rivoluzionari del Vecchio Continente per la difesa della civiltà europea, Edoardo VIII stava svolgendo un'opera personale di freno su Baldwin e su Eden, onde convincerli della necessità assoluta d'arrestare la macchina sanzionista.


Quando poi la Germania procedette unilateralmente alla rimilitarizzazione della Renania, Grandi votò di testa sua l'adesione italiana alla condanna tedesca, convinto che proprio l'Europa dovesse costituire il campo di manifestazione per eccellenza della vocazione societaria di Roma, vocazione intesa naturalmente quale interesse comune delle tre potenze di Stresa alla difesa della sicurezza continentale dalla minaccia del revanscismo germanico. Timoroso della rinnovata disponibilità inglese verso Berlino, Grandi giudicò quindi la maggior duttilità del duce nell'occasione renana pericolosa e controproducente, sia in riferimento alla questione austriaca e dell'Europa centro-orientale, sia in riferimento alla nostra politica verso Londra, Parigi e Ginevra. La sicurezza e l'autonomia italiane, secondo Grandi, potevano infatti essere tutelate insieme solo con la ricostruzione d'un asse Roma-Londra, su cui poggiassero gli assi Londra-Parigi e Parigi-Roma, in un “equilibrato” fronte di Stresa che ci garantisse dai tedeschi marginalizzare il nostro ruolo diplomatico.


Ripresa decisivamente la marcia vittoriosa delle truppe italiane in Abissinia, Grandi segnalò a Roma un ritorno di fiamma del sanzionismo inglese tra la fine di marzo e i primi d'aprile. Secondo l'ambasciatore, esisteva allora un preciso piano governativo, ispirato naturalmente da Eden, finalizzato a mobilitare nuovamente l'opinione pubblica interna contro l'Italia, dopo le “distrazioni” della vicenda renana, onde preparare il terreno per l'estremo tentativo d'ottenere a Ginevra dalla Francia l'assenso all'embargo sul petrolio. Sia pure attribuendo alla linea britannica una portata, una coerenza e un'organicità anti-italiane nella realtà inesistenti, Grandi colpiva nel segno quando sottolineava l'effetto scioccante provocato nell'opinione pubblica inglese dall'inattesa e rapida vittoria totale del nostro esercito in Africa.


Notato con soddisfazione il calando della polemica antibritannica sulla nostra stampa, e incaricato dal duce d'incontrarsi con re Edoardo per sottolineare l'inalterata volontà italiana di ristabilire cordiali relazioni diplomatiche coll'Inghilterra in vista d'un accordo generale tra i due imperi, Grandi confermò a Mussolini che, nella sostanza, Londra considerava ormai di fatto chiuso l'affare abissino, al di là della forma che Roma avrebbe inteso dare alla sua conquista totale dello Stato etiopico. Anzi: Grandi insisté con Mussolini sull'opportunità della soluzione integrale, presentandola come un suggerimento dello stesso Edoardo VIII, convinto che una tale scelta avrebbe ostacolati i piani del fronte sanzionista, voglioso di tentare l'ultima carta della chiusura del Canale di Suez e speranzoso in una prossima vittoria elettorale della sinistra francese.


L'Inghilterra, però, aveva aggiunto Edoardo VIII, necessitava di tempo, il tempo necessario al suo sistema politico per digerire la conquista italiana del Corno d'Africa senza confessare d'aver sbagliato tutto sin dall'inizio, coll'impostazione in termini societari della difesa dei propri interessi nella regione. Non solo: Grandi approfittava della circostanza per ricordare tra le righe al duce che la crisi abissina stava cominciando a guarire lo spirito pubblico della vecchia Inghilterra dall'“intossicazione” del mito disarmato della sicurezza collettiva.

 

L'impotenza mostrata nell'occasione dall'istituto ginevrino aveva infatti provato la realistica fondatezza delle tesi riarmiste dei “profeti societari” alla Churchill, iniziando a determinare, in settori peraltro ancora limitati dell'opinione pubblica interna, una tendenza favorevole al potenziamento delle forze armate britanniche. Grandi, in sostanza, voleva far capire a Mussolini che la “sberla” abissina aveva avviato il risveglio del tradizionale spirito dell'imperialismo inglese, ben deciso – nonostante l'“ostacolo” rappresentato dalla democrazia parlamentare – a difendere d'allora in poi ovunque il proprio prestigio e i propri interessi.

 

Grandi non si stancava di ammonire Mussolini sul “doppio gioco” dei nazisti, che non perdevano occasione per mettere in cattiva luce Roma agli occhi di Londra; così come non si stancava di ripetere fino all'ossessione che si doveva subito lavorare al progetto d'una nuova Stresa fondata sull'asse Italia-Inghilterra.


Come si è detto, l'opera di Dino Grandi è stata frutto di un suo personale progetto che non sempre coincideva con ciò che Mussolini gli richiedeva. Più volte, nel corso del suo mandato a Londra in qualità di ambasciatore italiano, ha cercato di portare avanti accordi dei quali il Duce fu avvisato in un secondo momento. Dal momento in cui si era concluso il conflitto etiopico Grandi era personalmente tutto teso a ricostruire l'amicizia italo-inglese. Già l'anno precedente egli aveva avuto una parte notevole nel preparare il gentlemen's agreement, anche se Ciano aveva voluto poi negoziarlo personalmente a Roma, tagliando praticamente fuori dalle trattative l'ambasciata di Londra.


Diventato primo ministro Chamberlain, Grandi aveva già mosso le prime pedine, convinto che il momento favorevole fosse finalmente arrivato. Si buttò a capofitto nell'operazione, pronto a servirsi di tutti i mezzi, persino a far dire a Chamberlain e Mussolini più di quanto erano disposti a dire, pur di creare tra loro quella fiducia che sola avrebbe potuto permettere l'avvio di quel negoziato che entrambi volevano, ma che, nella loro reciproca diffidenza, entrambi temevano potesse naufragare con gravi conseguenze per il loro prestigio e la loro politica.


Lo dimostrano le sue memorie, nelle quali possiamo leggere questo importante passaggio in riferimento alla guerra di Spagna che, come sappiamo, sarà poi la causa di una rottura definitiva con il governo inglese: “Una sera del giugno 1937 aveva luogo al Foreign Office il consueto pranzo in occasione del compleanno del Sovrano, pranzo al quale partecipavano, oltre i membri del governo, i capi delle missioni diplomatiche a Londra. In quell'occasione mi incontrai a lungo con Neville Chamberlain col quale finsi di aver ricevuto una lettera di Mussolini nella quale il capo del governo italiano si esprimeva con parole di sincera simpatia verso la persona del nuovo Primo Ministro, non tacendo il suo desiderio che fossero ristabiliti al più presto rapporti d'amicizia e di collaborazione tra i nostri due paesi. Chamberlain fu toccato da questa comunicazione e mi pregò di ricambiare a Mussolini gli stessi sentimenti. Mi affrettai a informare Mussolini dell'espressione e delle parole di Chamberlain, del che il duce si mostrò lusingato e soddisfatto. Così fu di nuovo rotto il ghiaccio e l'atmosfera di personale simpatia si rinnovò fra Chamberlain e il duce”.


Renzo De Felice definisce abilissimi, se non addirittura mefistotelici, questi “giochini” di cui Dino Grandi si è servito per raggiungere i suoi scopi che, a dire del nostro ambasciatore, erano sempre uniti all'interesse dell'Italia stessa. Non è opportuno fare qui personali considerazioni circa la presunta scorrettezza di queste azioni, né tanto meno è possibile dedurre se la loro attuazione fosse stata realmente fondamentale per il mantenimento dei buoni rapporti fra i due paesi. I fatti ci dimostrano che, alla fine, la guerra si ebbe e nessuno poté, o volle, fare nulla per evitarla.

“Il Duce diffidava non di me, ma delle mie idee, che erano quasi sempre in contrasto con le sue. Fui sempre leale con lui, quando lo difesi e quando sentii il dovere di combatterlo.”



 

 

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