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N. 25 - Gennaio 2010 (LVI)

quando il diavolo entra duro

Destino e mito di due squadre di calcio
di Giuseppe Tramontana

 

Il ballo prende avvio allo Stadio Mu Dung di Gwangju, Corea del Sud, esattamente alle ore 17 locali del 19 settembre 1988, San Gennaro. Per l’esattezza, a ballare cominciano gli undici giocatori in maglia arancione, mentre gli altri undici, in maglia azzurra, hanno deciso di assistere svogliatamente allo spettacolo.

 

Un po’ come i 9800 spettatori sugli spalti, autoinvitatisi alla festa di quel pomeriggio. Spettatori che, ad occhio e croce, appaiono più interessati degli azzurri a quanto sta per accadere sul tappeto verde. Fin da subito si capisce come sarebbero andate le cose. Gli arancioni danzano sulla palla, la fanno circolare, fluida, come una canna attorno ad un falò. Agili, svelti, scattanti, ottimo palleggio, buonissimo controllo. E poi dribblig e controdribblig, funambolici disimpegni, supremazia in tutte le parti del campo. Quelli in maglia azzurra arrancano, sbuffano, sudano, si dannano l’anima. Non riescono ad indovinarne manco una. E dài al centro.

Ma la prendono gli altri.

 

E crossa lungo che ci arrivano i difensori avversari. E tenta un affondo che ti chiudono in fallo laterale. E poi gli arancioni ripartono. Tac tac, due passaggi e sono in area di rigore. E una volta, gli azzurri si salvano. E due volte, si salvano. Il filtro a centrocampo non funziona. Ma, perché, la difesa va invece? No, certo che no. E l’attacco? Una lagna. Gli azzurri, ovviamente sono gli italiani. Ma gli arancioni non sono l’Olanda. Indossano questa casacca solo per l’occasione. E benché pressino a tutto campo e siano capaci di far sparire la palla alla vista degli avversari per farla ricomparire a limite dell’area di rigore che manco il teletrasporto, loro sono solo lo Zambia, i Chipolopolo, che abitualmente indossano la maglia verde. Verde acceso, come la speranza, il sogno, il raggio di Rohmer. Gli italiani sono balbettanti. Camminano e corrono con la corrente alternata. Sarà il caldo? Certo, 30 gradi non sono pochi, ma neanche la fine del mondo. Intontiti, confusi, con i cubetti di porfido in testa. Non capiscono, ma si adeguano. Al gioco altrui. Gli africani dominano, controllano, non li lasciano respirare manco con la maschera d’ossigeno. Gli zombie in azzurro, tramortiti, si guardano e non si vedono. Il cittì Francesco Rocca, Kawasaki, si dimena, cerca soluzioni, trova un muro di cemento armato alto alto.

 

Rivestito di gomma insonorizzante. L’Italia schiera gente, campioni, come Stefano Tacconi in porta, Pietro Paolo Virdis ed Andrea Carnevale in attacco, Massimo Mauro come regista, Ciro Ferrara, Mauro Tassotti, Roberto Cravero e Roberto Galia in difesa, Giuseppe Iachini, Luigi De Agostini a centrocampo, supportati da Angelo Colombo come esterno destro. In panchina gente come Pagliuca, Rizzitelli, Evani, Desideri, Massimo Crippa ed i meno conosciuti Brambati, Pellegrini Carobbi e Giuliani (terzo portiere). Ma non necessariamente tanti buoni calciatori, o persino campioni, fanno una squadra. Due giorni prima gli italiani avevano affondato sotto cinque gol i malcapitati guatemaltechi. 5-2. Lo Zambia aveva pareggiato per 2-2- con l’Iraq. Il gruppo B ci sembra Disneyland. Si assapora una finale e, chissà, se la fortuna ci aiuta… Ma al 40° della partita del 19 settembre, arriva la prima bastonata. Non proprio inattesa. Pallone recuperato a centrocampo dalla difesa africana, in chiusura su Colombo, passaggio a Musonda che dall’inizio del match fa su e giù con la precisione implacabile di un pistone nel cilindro. Bene, Musonda, non guarda nemmeno.

 

Sa che lì davanti c’è Kalusha Bwalya. Dritto per dritto per il compagno. Scatto dell’attaccante, mentre la difesa pettina le bambole e sinistro in corsa. Tacconi che gli è andato incontro, in tuffo, riesce solo a smorzare il tiro. Ma il pallone, lentamente, lo supera, calamitato beffardamente in fondo alla rete. 1-0 e Italia a bocca aperta e testa in ampolla. Si va al riposo sul vantaggio verde. Durante l’intervallo, Kawasaki Rocca deve essere andato giù duro di striglia, se la squadra torna in campo un po’ più compatta, determinata. Ma dura poco. Appena dieci minuti. Al 55°, l’arbitro inglese Hackett punisce con un calcio di punizione dal limite un’entrata neanche troppo assassina di Ciro Ferrara su Nyirenda. Siamo al vertice sinistro alto dell’area di rigore. Al centro poca ressa. Solo due giocatori in maglia arancione. Tacconi fuori dai pali, pronto all’uscita. Ma Kalusha Bwalya non ha nessuna intenzione di crossare al centro.

Anzi.

 

Di sinistro scavalca la barriera e insacca direttamente, sotto lo sguardo di pongo di Tacconi e di tutti gli italiani. Una beffa. Si corre dall’arbitro chiedendo l’annullamento: era di seconda. Ma Hackett non ne vuol sapere: era di prima e il gol è valido. 2-0 e azzurri con il morale di uno stercorario. Rocca corre ai ripari. Al 61° richiama in panchina Cravero e Colombo e getta nella mischia Luca Pellegrini e Massimo Crippa. Due minuti dopo, lo Zambia va sul 3-0. Bastonata da lontano, a pallonetto leggermente deviato da Pellegrini, del numero 7, Johnson Bwalya (neanche parente dell’altro Bwalya, Kalusha) e Tacconi è di nuovo sorpreso. Una statua di sale. Sale e bile. Ma il bello è che i verdi non la smettono.

 

Corrono, pressano, palleggiano, dribblano. Sembra che siano appena scesi in campo. Freschi come una rosa. Gli italiani, in campo, mostrano la leggiadria di un monumento sovietico degli anni cinquanta. Dopo un altro paio di occasioni – una in particolare porta Johnson Bwalya a tu per tu con Tacconi - gli africani calano il poker. Improvvisa verticalizzazione di Melu per il solito Kalusha Bwalya che si ritrova davanti al portiere azzurro assolutamente indifeso. Sinistro rasoterra e gol. 4-0. Una delle più atroci disfatte dell’Italia calcistica. Paragonabile alla Corea del ’66. Ma il cammino non sarà pregiudicato. In quel girone, lo Zambia, che sconfiggerà anche il Guatemala con lo stesso punteggio di 4-0, arriverà primo, mentre l’Italia, sconfitto due giorni dopo l’Iraq per 2-0, arriverà seconda.


Nei quarti ai Chipolopolo toccherà la Germania di Jurgen Klinsmann, Karl-Heinz Riedler e Thomas Hassler. Perderanno 4-0. L’Italia andrà un po’ più avanti. Eliminerà ai supplementari – grazie ad un gol di Crippa al 98°, dopo che i tempi regolamentari si erano chiusi sull’1-1 – la Svezia. In semifinale incontrerà l’URSS di Michailychenko e Dobrovolsky. Perderà, sempre ai supplementari, per 3-2. E perderà anche la finale per il terzo posto con la Germania: 3-0. In finale, invece, i sovietici sconfiggeranno il Brasile di Romario, Bebeto e compagnia cantante: 2-1 e medaglia d’oro. Solita tragica disperazione in Brasile.


E i verdi dello Zambia? I pronostici e il futuro sono tutti per loro. Quella performance contro l’Italia da’ credito alle previsioni degli esperti che, fin dal 1982, con il Camerun e l’Algeria, paventa la grande crescita del calcio africano. Il calcio del duemila: corsa, tecnica, resistenza, palleggio, dribbli. Solo il senso tattico era da migliorare. A volte erano un po’ poco smaliziati, ingenui. Ma questo si può migliorare, anche grazie agli apporti dei giocatori che calcano i campi esteri. Sarebbe andato lontano, quello Zambia, dicono i più, e tra qualche anno ce lo ritroviamo ai vertici del calcio mondiale. Con buona pace di europei e sudamericani. Il futuro sorride. Basta aspettare e lavorare, lavorare e aspettare. E crederci, naturalmente. Ma il futuro dei Chipolopolo non si rivelerà così roseo.


Il 27 aprile 1993, un martedì, un cargo militare, un Buffalo DHC-5D, decolla dall’aeroporto di Libreville, in Gabon. Su quell’aereo siedono 18 giocatori della nazionale zambiana e 12 tra tecnici, dirigenti dello staff e uomini dell’equipaggio. Sono diretti a Dakar, Senegal, dove è in programma la partita contro la nazionale locale per le qualificazioni ai mondiali americani dell’anno dopo. Ma quel cargo non arriverà mai a destinazione. Si inabissa senza apparenti spiegazioni nelle acque al largo del Gabon. Tutti morti i passeggeri. Dopo tensioni durate parecchi anni tra Zambia e Gabon, nel 2003 il ministero della difesa gabonese ha chiarito la vicenda. Il piano di volo del Buffalo prevedeva la partenza da Lusaka, capitale zambiana, tre soste per rifornimento rispettivamente nella Repubblica del Congo, in Gabon e in Costa d’Avorio ed infine l’arrivo a Dakar. Però, subito dopo il primo atterraggio vennero riscontrati alcuni problemi tecnici ai motori dell’aereo.

 

Ciononostante il velivolo, dopo sommari controlli, venne fatto decollare. Pochi minuti dopo la partenza un motore si incendiò. Il pilota, stanco per un volo di ritorno dalle Mauritius appena effettuato, per un errore staccò il motore funzionante al posto di quello che aveva preso fuoco. Fu così che per alcuni interminabili secondi una palla di fuoco solcò il cielo gabonese, andando a tramontare nell’azzurro dell’Oceano Atlantico, poco lontano dalle coste africane. I Chipolopolo spariscono. Tra gli eroi di Seul, periscono il portiere e capitano David Chabala, il secondo portiere Richard Mwanza, i difensori Edmon Mumba, Derby Makinka, Peter Mwanza, i centrocampisti Wisdom Chansa ed Eston Mulenga. Sopravvissuti alla tragedia, autentici morti viventi, furono il goleador Kalusha Bwalya, il fratello Joel, Johson Bwalya e Charles Musonda. Giocavano tutti all’estero (Kalusha in Olanda, nel PSV Eindhoven; Johnson in Svizzera, nel Lucerna) ed avrebbero raggiunto la nazionale direttamente in Senegal. Ma a Dakar non arrivò mai nessuno.
Son giovani e forti. Si può fermarli solo così.

Il destino fischiò in anticipo quella volta. Ma non è stata l’unica volta. Lasciando da parte i drammi personali, di singoli calciatori, e limitandosi a quelli collettivi (non spingendosi peraltro fino alla vicenda del Grande Torino perito a Superga, su cui è abbondantissima la letteratura), un’altra tragedia ci porta a trentacinque anni prima, al 1958.


In Europa c’è ancora il gelo. Cinque anni prima è morto Stalin. Nel febbraio del ’56 Kruscev, al XX Congresso del PCUS, denuncia i crimini stalinisti, ma ciò non impedirà alle truppe sovietiche di fare una capatina in Ungheria, a fine ottobre-inizi novembre, per ‘ristabilire l’ordine socialista minacciato’. Nel frattempo, un’altra crisi internazionale tiene con il fiato sospeso il mondo: Suez. L’anno successivo, tra l’altro, aveva visto la nascita di Carosello, il 3 febbraio, l’indipendenza della prima nazione africana, il Ghana, il 6 marzo, la stipula del Trattato di Roma, il 24 marzo, grazie alla quale nascevano la CEE e l’EURATOM, il lancio dello Sputnik 1, il 4 ottobre (lo Sputnik 2, con a bordo la cagnetta Laika decollerà il 3 novembre), e persino un colpo di stato anticomunista a San Marino, il 30 settembre. In quello scorcio del 1958, in Italia si discute della Legge Merlin, in Francia su cosa fare dell’Algeria, in URSS su come eliminare Nagy e Malater, in USA su come rapportarsi con Fidel Castro, in Brasile su chi portare ai Mondiali svedesi di luglio.


Il 5 febbraio 1958 si svolge la partita di ritorno dei quarti di finale della Coppa dei Campioni tra gli inglesi del Manchester United, allenati da Matt Busby e per ciò chiamati i Busby’s Boys, e i campioni jugoslavi della Stella Rossa di Belgrado. All’andata, in Inghilterra, i Red Devils aveva vinto per 2-1. Al ritorno, in Jugoslavia, nel primo tempo sono avanti per 3-0 grazie a una rete di Viollet ed una doppietta di Bobby Charlton. Evidentemente sono rilassati. Fatto sta che, nella ripresa, i belgradesi riescono a pareggiare: 3-3. Nulla di allarmante. Il computo totale è di 5-4 per gli inglesi. In semifinale troveranno il Milan. Lo sanno, non lo temono. Si sentono forti. Sono forti. Giovani e forti. L’obiettivo è la finale contro il Real Madrid, i campioni uscenti, che in semifinale se la vedranno con gli ungheresi del Vasas Budapest. Sono giovani, dicevamo. Matt Busby li ha cercati uno per uno, ha soppesato i talenti, li ha plasmati. E’ uno che ne capisce di calcio, Sir Matt. Li sceglie giovani, aitanti, vogliosi, ambiziosi. E dagli ottimi piedi. Faranno molta strada, si dice dappertutto. E’ una meraviglia vedere i colpi di Charlton, Pegg o Taylor o le scorribande di Duncan Edwards, la tostaggine di Mark Jones ed Eddie Colman. Giovanissimi e dotatissimi.


Per tornare presto a Manchester usano un volo charter, allora non molto utilizzato. Si tratta di un volo gestito dalla British European Airways (BEA) utilizzando un Elizabethan class Airspeed Ambassador aircraft G-ALZU Lord Burghley. Già alla partenza c’è un piccolo intoppo: il calciatore John Berry dimentica il passaporto e l’aereo è costretto a decollare con un’ora di ritardo. Deve fare scalo tecnico per il rifornimento a Monaco di Baviera, in Germania Ovest. E fin lì ci arriva. La pista è ghiacciata, cumuli di neve si addensano qua e là. Il pilota, il capitano James Thain, tenta per ben due volte di decollare, ma il motore va in surriscaldamento. Niente da fare. Infine, alle 15,04, ci riprova. L'aereo non riesce a prendere quota e si schianta sulla recinzione che circonda l'aeroporto, poi carambola contro una casa, in quel momento vuota. Parte dell'ala e mezza coda vengono strappate. Il velivolo prende fuoco come un cerino. Il lato sinistro della cabina di pilotaggio colpisce un albero.

 

Il lato destro della fusoliera sventra un capanno di legno, all'interno del quale c'è un camion carico di pneumatici e carburante, che esplode tramutando il tutto in una santabarbara. A causa di un cumulo di neve e ghiaccio incontrato lungo la via di fuga, l’aereo ha perso velocità, non riuscendo a decollare. E neanche a frenare, vista la pista ghiacciata. Nel disastro perdono la vita otto giovani promesse del calcio mondiale. Sette sul colpo: i terzini Roger Byrne e Geoff Bent , il mediano Eddie Colman, il centromediano Mark Jones, gli attaccanti Billy Whelan, Tommy Taylor e David Pegg. Muoiono anche tre membri dello staff del Manchester (Walter Crickmer, Bert Whalley e Tom Curry) , otto giornalisti, tra i quali Don Davie del Manchester Guardian, Archie Ledbrooke del Daily Mirror e Frank Swift, che, oltre ad essere giornalista del News of the World, è anche preparatore dei portieri dell’Inghilterra e del Manchester City e quattro tra membri dell’equipaggio e passeggeri (perde la vita anche il tifoso e amico personale di Matt Busby, Willie Satinoff). Se la cavano gli altri. Da Johnny Berry (morto poi nel 1994) a Bobby Charlton, da Jackie Blanchflower (morto nel ’98) a Dennis Violett (andato nel ’99). Si salvano anche Matt Busby e il pilota James Thain.


Viene estratto ancora dal groviglio infuocato delle lamiere Duncan Edwards. Ha lesioni spaventose alle gambe e gravissimi danni interni. I medici lo tengono in vita per due settimane con l’aiuto di un rene artificiale. Il fisico di Duncan lotta fino al 21 febbraio, poi si arrende. Edwards è la grande promessa del calcio inglese., Nato a Dudley, nelle Midlands, nel 1936, era stato fatto seguire da Matt Busby da quando aveva 14 anni. 14 anni, sì, ma giocava da veterano. Lo aveva convocato a Manchester e il giorno del suo sedicesimo compleanno, Duncan aveva firmato per lo United. Il 4 aprile dell’anno dopo aveva esordito contro il Cardiff City, diventando il più giovane calciatore ad esordire nel campionato inglese.

 

Edwards era un centrocampista di incredibile qualità e potenza. Oggi si direbbe universale. Aveva giocato già 151 volte con l’United, segnando 20 gol. Nel museo di Dudley ci sono i 18 caps (cappellini) a indicare altrettante presenze in nazionale, con 5 gol. La leggenda vuole che sia stato il più grande di tutti i tempi. Secondo Bobby Charlton, suo compagno di squadra e sopravvissuto alla tragedia di Monaco, un solo calciatore lo aveva ha fatto sentire inferiore: Duncan Edwards. “Se dovessi giocare per la mia vita e potessi prendere un uomo con me – disse una volta - questi sarebbe lui”. Edwards aveva ventuno anni, Charlton venti, Duncan con la maglia numero 6, andava per ogni dove del campo, Bobby con il 9, aveva il passo elegante, il colpo del goleador di razza.


Leggenda di Duncan Edwards, storia di Charlton. Pallone d’Oro nel 1966, anno del titolo mondiale inglese, una cappelliera piena di 759 caps e 249 gol con i Red Devils. E in nazionale 106 partite con 49 gol, uno anche all’Italia nello storico,per gli azzurri, 2 a 2 di Wembley, il 5 giugno del 1959.


Fino a quei giorni lo United era un club che si era rialzato lentamente dalla crisi. Nel dopoguerra era finito persino in seconda divisione. Ma con l’arrivo dello scozzese Matt Busby e una politica che puntava sui giovani, aveva rivisto la luce. Aveva vinto la coppa d’Inghilterra e per tre volte il campionato, coronando il tutto con la partecipazione alla Coppa dei Campioni nella stagione ’57-58. Le partite erano state disputate sul campo del Manchester City, l’altra squadra della città, la quale si era fatta avanti per ospitare (a pagamento) lo United: l’Old Trafford era ancora imparaticabile a causa dei bombardamenti tedeschi della seconda guerra mondiale. In tal modo, la tragedia bavarese unì, in un certo senso, le due tifoserie, benché non mancarono idioti che, in alcuni pub di Manchester, accolsero con gioia cinica la morte dei rivali.


Ma bisogna andare avanti. La prima partita dopo il disastro è quella in calendario con lo Sheffield Wednesday. Finisce 3-0 per i Red Devils. Sul programma ufficiale della partita lo spazio delle fotografie di ogni calciatore era stato lasciato in bianco, nessuno sapeva chi, Jimmy Murphy, vice di Busby, avrebbe potuto schierare. La batosta si fa sentire. Lentamente la squadra perde terreno, scivola in basso, per finire il campionato al nono posto. Non solo, perde la finale della coppa d’Inghilterra per 2-0 contro il Bolton e viene eliminata dal Milan, prima squadra europea ad affrontare gli inglesi dopo la tragedia, nella semifinale dei Campioni, ritardata a maggio. All’andata il Manchester si comporta anche bene, vincendo per 2-1, ma , al ritorno, i rossoneri lo travolgono per 4-0. Dieci anni dopo, Matt Busby avrebbe vinto la sua più grande sfida, lo United di Dennis Law e George Best avrebbe conquistato la Coppa dei Campioni nella finale contro il Benfica.

 

Sul prato di Wembley corrono ancora Bobby Charlton e Bill Foulkes. Corrono, pensando agli amici caduti a Monaco. A quelli, che, amati dagli dèi – come direbbero gli antichi – sono stati convocati a giocare una partita eterna nella leggenda. Una partita pensata solo per i più grandi, in cui trovano posto Valerio Bacigalupo ed Edmon Mumba, Andrea Fortunato e Renato Curi, Valentino Mazzola e e Wisdom Chansa, Ezio Loik e David Pegg, Antonio Puerta e Duncan Edwards, Dani Jarque ed Eston Mulenga, Miklos Feher e Marc Vivien Foe.

 

Una bella partita, di sicuro. Almeno, stando alle formazioni sulla carta. Ché i giocatori sono forti, geniali persino. E si sa, il diavolo certi brutti scherzi li fa solo ai geni; gli imbecilli, solitamente, li trascura.


 

 

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