N. 24 - Maggio 2007
DEREK
ROCCO BARNABEI
Un ragazzo ucciso
da una giustizia
cieca
di
Alessia Ghisi Migliari
Ci sono storie da raccontare per infinite e più
ragioni.
E c’è una storia – proprio una – che diede di essere
ricordata.
In un certo senso, inizia da qui, dai nostri posti,
molto tempo fa (ma non importa) – vicende di emigrati.
Ciò che conta è che c’era un ragazzo, un uomo.
E si chiamava Derek “Rocco” Barnabei – origini
italiane, vita al di là dell’oceano.
E’ un nome che riemerge da nemmeno un decennio fa, ma
ven ben oltre.
Era nato nel 1967, da una famiglia come tante, e come
tanti aveva vissuto i propri giorni, magari non
perfetti, ma suoi.
E’ il settembre del 1993 quando il fiume Lafayette
(Virginia) restituisce il corpo di Sarah Wisnosky, una
studentessa diciassettenne violentata e uccisa con un
corpo contundente, che mai verrà ritrovato.
E’ uno di quei casi dove è meglio trovare in fretta un
colpevole – si parla della fine atroce di una giovane
bianca, una matricola universitaria con tutta
l’esistenza davanti.
Si cerca fra le conoscenze della vittima, e compare il
nome del suo ragazzo, anche lui residente al campus
universitario: è Derek, con cui cui aveva trascorso
alcune ore, la sera prima.
Barnabei non è lì al momento: da Norfolk è partito per
raggiungere la madre, in New Jersey.
E gli arriva una telefonata: i compagni del dormitorio
gli dicono di star lontano, che la polizia lo sta
cercando per l’omicidio – eppure la chiamata, a quanto
pare, è stata fatta ben prima che la polizia vada a
cercare Rocco.
Viene arrestato, sbattuto in una cella, pare che il
dubitare non esista, e infatti le indagini trascurino
tutti gli altri – gli ‘altri’, gli studenti che
convivono nello stesso posto, quelli che hanno sempre
mantenuto un comportamento ambiguo.
Non si cerca oltre, meglio non porsi molte domande,
nemmeno per quanto concerne ciò che non combacia, cià
che stride: l’orologio di Sarah sparisce (sarebbe
stato utile per conoscere l’ora del delitto) e così i
tabulati telefonici, lo sperma appartiene sì a Rocco
(che ammette di aver avuto rapporti sessuali con la
fidanzata), ma esistono altre tracce biologiche che
non vengono indagate (sotto le unghie
dell’adolescente).
Anche quando, anni dopo, Barnabei richiederà con
insistenza l’esame del DNA, i reperti su cui
effettuarlo svaniranno misteriosamente, per poi
ricomparire.
Pare esserci un atteggiamento preconcetto, nella corte
– e si ha fretta, appunto.
Ci saranno poi testimoni che affermano di essere stata
‘spinti’ a rilasciare deposizioni sfavorevoli a Derek,
il celebre penalista Alan Dershowitz si offre
volontariamente per la difesa, definendo quanto
avvenuto “uno dei più grossi aborrti giudiziari mai
visti”.
La mobilitazione cresce, soprattutto nel nostro Paese
(ma non solo): parlano a favore di Derek politici, il
parlamento europeo, persino il Papa chiede indulgenza.
Non basta.
Non basta mai, effettivamente.
La difesa lacunosa, le falle delle investigazioni,
quanto taciuto e quanto ignorato si mescolano,
immobilizzando qualunque possibilità: Rocco è un
condannato a morte, e nessuna iniziativa riesce a
incrinare questa realtà.
Lo Stato della Virginia, dopo una lotta estenuante, lo
uccide, il 14 settembre 2000, tramite inizione letale.
Sintetizzata così, la vicenda è riduttiva: non
contempla lo sdegno, il terrore, la ferocia e la
paura, e tutto ciò che di umano ci può essere in un
iter verso la fine (spietata).
Mai spesso di sperare, Derek – nemmeno dopo, una volta
sepolto (sulla sua lapide, la scritta: “...e la lotta
va avanti”).
Accanto a lui, sempre, i suoi cari: il padre, che
muore mentre lui è detenuto, la madre e il fratello –
e una moltitudine di sconosciuti, mossi da convinzioni
o emozioni o altro.
Tanto, tanto da dire – e non abbastanza spazio e tempo
e pensieri.
Dalla strana euforia dei suoi compagni d’università
una volta condannato l’imputato, alla negligenza di
chi ha portato avanti il caso, fino a quel DNA
sconosciuto e rimasto senza nome, ciò che resta di
certo – al di là delle congetture – è la tempra morale
di un uomo che c’ha lasciato un diario proprio da lì,
dal death row, il braccio della morte.
Pagine che lui credeva nessuno avrebbe mai letto, qui
fuori.
E invece.
Ho scoperto che, quello che voleva essere un accorato
ricordo di un’ingiustizia e di una vittima scordata,
può anche essere altro.
Perchè intervistando Luca Dini, al di là di Rocco
emerge, prepotente, la pena capitale.
Luca Dini, giornalista che ha lavorato per Oggi, come
inviato, che ha vinto il premio Saint-Vincent 2000, e
che ora è direttore di Vanity Fair, Derek lo conosceva
bene.
Perchè l’ha incontrato in diverse occasioni, in
carcere.
E’ entrato in confidenza con lui, ha ricevuto il suo
diario, l’ha tradotto.
E, rispettando una promessa fatta, è tornato per
assistere all’esecuzione di un altro condannato.
Perchè Derek, a un certo punto, al di là
dell’innocenza proclamata fino all’ultimo istante
(ribadita anche in una lettera lasciata al figlio
piccolo, avuto da una precedente relazione), ha
iniziato a usare il plurale.
“Noi”, i condannati a morte.
Ed è proprio Luca Dini che, a distanza di più di sei
anni, risponde ad alcune domande su questa esperienza
che deve essere, al di là di tutto, di quelle che ti
cambiano dentro (il come lo decidi tu, probabilmente)
– e lo fa senza entrare in discorsi di colpevolezza.
1) Nel processo a Derek Barnabei sono stata commesse –
per ammissione pressocchè unanime – notevoli
superficialità e negligenze: un DNA non indagato,
risultati del poligrafo scomparsi, reperti mancanti,
tabulati telefonici spariti, solo per citarne alcune.
Sembra che il processo fosse già deciso, a priori.
Perchè era così importante trovare un Derek, a tutti i
costi: comodità politica?
In tutti i casi di crimini violenti, soprattutto in un
Paese come l’America, dove ce ne sono tanti, c’è
fretta di “dare giustizia” alla gente, ai familiari
delle vittime, e questo porta spessissimo a indagini
sbrigative. Il fatto che Derek fosse italoamericano, a
differenza di quello che è stato scritto, non ha
pesato più di tanto. Piuttosto ha pesato il fatto che
non fosse un ragazzo del posto, e che fosse bianco:
viste le accuse di razzismo (i bracci della morte sono
pieni di neri) faceva comodo avere un bianco da
incastrare.
2) Il caso di Rocco è stato definito da Dershowitz
“uno dei più grossi aborti giudiziari mai visti”. In
molti, a livello istituzionale e non, si sono
mobilitati per questo ragazzo condannato. Eppure non è
bastato per avere una revisione. Cosa spinge e negare,
in un caso di legge (se non di giustizia), ciò che è
palese e netto? Quali secondo Lei le motivazioni di
questa ostilità protratta?
Dershowitz si è pronunciato sul caso senza entrare nel
merito del delitto, ma limitandosi agli svarioni
procedurali (prove sparite, ritrovate e manipolate,
esami negati ecc.). Che cosa spinge a far finta di
nulla? La volontà di salvare un sistema – quello della
pena di morte in America – che salterebbe in tre
secondi se venisse a galla il modo arbitrario e
dilettantesco in cui viene amministrato.
Paradossalmente, c’è più giustizia nei Paesi arretrati
dove, se vieni colto in flagrante in uno dei reati per
i quali è prevista la pena di morte, hai la certezza o
quasi di finire sul patibolo, magari in modo brutale
(impiccagione, lapidazione).
In America, il sistema è
super arbitrario: su mille omicidi riconosciuti
colpevoli (e con le aggravanti per le quali è prevista
la pena di morte), nemmeno uno viene effettivamente
condannato a morte. Come si sceglie quell’uno tanto
sfortunato? È così raro arrivare alla condanna, che i
procuratori distrettuali ci provano solo quando
pensano di avere buone possibilità. Cioè, quando
l’imputato è troppo povero e ignorante per permettersi
una difesa appena decorosa. Questo è il vero scandalo
del sistema americano.
3) Cosa secondo Lei ha permesso a questo ragazzo di
resistere come essere umano?
L’indubbia eccezionalità del suo carattere. Io non
considero Derek colpevole, semplicemente non lo so, e
sono sicuro che, se mai era stato un assassino, quella
che ho conosciuto io era un’altra persona.
Intelligente, articolata (in questo una rarità
assoluta nel braccio della morte), attenta, generosa.
Negli ultimi anni della sua vita ha trovato, grazie
alla stampa italiana, la voce che gli mancava, e
questo lo ha aiutato tantissimo, gli ha dato forza.
Alla fine non sperava più, credo, di salvarsi, ma gli
premeva avere una voce, far arrivare all’esterno la
sua esperienza e quella dei suoi compagni, dara un
volto a chi era sempre e solo stato un numero.
La sua redenzione, ammesso che ne avesse bisogno, è
stata quella. Quella gli ha dato la forza che, alla
fine, ci ha sorpreso. Un’ora prima di morire, Derek ha
fatto l’ultima telefonata alla madre, nella camera di
motel dove ero anche io, e alla fine le ha chiesto di
passarmi la cornetta. Mi ha detto “Come va?” e io non
sapevo che cosa dire: che cosa può fregargliene dei
tuoi problemi a uno che sta per morire? E lui mi ha
detto: “Coraggio, Luca”. Capisci?
4) Si sono avuti sviluppi recenti sul suo caso?, so
che non molto tempo fa si è iniziato a riconoscere
apertamente che ‘forse’, quello di Barnabei, è uno di
quei casi (nemmeno rari) di errore giudiziario...
La discussione è sul modo assurdo in cui è stato
condotto il caso (e che sicuramente avrebbe
giustificato l’annullamento del processo), ma non ci
sono stati sviluppi clamorosi. Purtroppo – è quello
che in Italia molti faticano a capire – i processi per
pena di morte sono quasi tutti così (prove lacunose,
testimoni sospetti, avvocati d’ufficio che dormono in
tribunale). Ne discende che il tasso di errori
giudiziari non può che essere abbastanza elevato.
5) L’ondata emotiva e di conoscenza che si è
sviluppata, molto qui in Italia, attorno a Rocco, è
esistita anche negli Stati Uniti? Può essere servita
realmente a qualcosa?
È servita a Derek, ma per il resto è più il danno che
ha fatto. Vedere un Paese che, senza sapere nulla dei
fatti, abbracciava acriticamente la versione
dell’innocenza ha fatto male alla nostra credibilità e
alla vera battaglia contro la pena di morte (per chi
la contrasta per principio, come me) o almeno contro
il modo allucinante in cui viene amministrata.
6) Il giudice Rutherford è stato poi indagato e
l’investigatore Squyres è stato destituito dal suo
incarico e trasferito: il caso Barnabei ha avuto una
parte in questo?
Non mi risulta.
7) Dei presunti colpevoli indicati da Rocco, nessuno è
stato formalmente indagato?
Indagati sì, ma non molto aggressivamente, credo. I
dubbi c’erano, ma non è che ci fosse un chiaro
colpevole che tutti hanno nascosto e insabbiato.
8) So che Lei ha assistito a un’esecuzione capitale,
per espressa richiesta di Derek. Ci sono aspetti di
questo ricordo che hanno inciso nel Suo modo di vedere
e percepire la vita?
L’esecuzione, come ho scritto nel mio articolo, ha
accresciuto il mio già profondo odio per l’ipocrisia e
la finta umanità con cui viene gestita la macchina
della morte. Non ci si preoccupa di quanto soffre un
condannato, ma che soffra in modo pulito, senza
sanguinare, senza urlare, senza sbavare, perché noi
possiamo sentirci civili anche se facciamo una cosa
non civile. Meglio la brutalità della scimitarra. È
poi un segno dell’ipocrisia con cui nascondiamo, in
generale, tutte le cose sgradevoli. Non parliamo di
morte, non parliamo di malati, li consideriamo
argomenti «pesanti».
9) Lei ha incontrato Derek in diverse occasioni, in
prigione. Dai suoi diari, che Le ha affidato, appare
un uomo che, malgrado tutto, ha mentenuto la propria
umanità, una sorta di delicatezza innata e poesia.
Cosa dell’uomo che ha conosciuto Le è rimasta più
impressa?, magari un ricordo particolare, un
momento...
Il modo in cui ci salutavamo alla fine di ogni
intervista: mano contro mano, sul vetro del
parlatorio.
Leggi il suo diario e trovi poesie.
Versi difficile da trasporre in un’altra lingua – la
musicalità si perde, il senso no.
Nel dramma di una vita serrata, senza luce o libertà,
in attesa di quella fine, restano le parole intense ma
leggere di Derek – il suo dolore, i suoi pensieri,
qualcosa di intatto malgrado tutto.
Molte sarebbero le righe da riportare – dai versi per
il padre alla missiva per il figlio, fino alla
descrizione dei suoi compagni del ‘braccio’, le loro
odissee, l’esistenza che non si arrende anche dove
pare impossibile (se non impazzisci).
E allora, di fronte all’indecisione, meglio riportare
la semplice osservazione di Jim Gallagher, il
cappellano cattolico che ha accompagnato le ultime ore
di Barnabei (in cui c’è stato anche lo spazio per
l’umorismo, e per pregare secondo diversi credi – non
si sa mai), fino alla semplice richiesta, al
religioso, di tenere una mano (“Tienimi la mano”):
“Prima di diventare prete ho convissuto con una donna.
Ho commesso la mia parte di peccati. Ma dell’innocenza
che mi restava, parecchia l’ho persa vedendo uccidere
Derek”.
Quante vittime.
Riferimenti bibliografici:
Mintz P., “Cronaca della morte annunciata di Derek
Rocco Barnabei” (con traduzione del diario a cura di
Luca Dini), Protagon Editori Toscani, 2001
http://www.barnabei.com/;
http://www.coalit.org/dossier/barnabei0102pag1.htm
http://www.clarkprosecutor.org/html/death/US/barnabei666.htm
http://www.lapenadimorte.com/news/dna_barnabei.shtml
http://www2.radio24.ilsole24ore.com/vivavoce/vivavoce1906_pag_1.htm
http://www.luciomanisco.com/diritti/testi/euris_03.htm
http://scholar.lib.vt.edu/VA-news/VA-Pilot/issues/1995/vp950609/06090526.htm
http://www.courts.state.va.us/opinions/opnscvtx/1952168.txt
http://www.crimenews2000.com/archives/00091314.htm
http://caselaw.lp.findlaw.com/cgi-bin/getcase.pl?court=4th&navby=case&no=9916P |