[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

188 / AGOSTO 2023 (CCXIX)


moderna

I DEMONOLOGI DEL SEICENTO
FRANCESCO MARIA GUACCIO E LUDOVICO MARIA SINISTRARI / I
di Enrico Targa

 

Francesco Maria Guaccio noto anche come Guaccius o Guazzo fu un demonologo, teologo e religioso italiano le cui notizie biografie ritenute plausibili sono poche e incerte; nacque a Milano nel 1570, fu lettore di teologia e membro dell’Inquisizione; appartenne all’Ordine di San Barnaba e di Sant’Ambrogio ad Nemus, costituitosi nel 1589 per incorporamento degli apostolini di San Barnaba nell’Ordine santambrosiano.

 

Il nome di Guaccio è fondamentalmente legato a un voluminoso Compendium maleficarum, trattato di demonologia in tre libri che uscì in prima edizione a Milano nel 1608. La stesura dell’opera, come si ricava dalla dedicatoria, risale al 1605: il Guaccio sostiene che sia stata composta durante un suo soggiorno alla corte di Cleve, dove era stato chiamato a prendere parte, in qualità di esperto, a un processo per stregoneria istruito dall’Inquisizione contro un vecchio sacerdote accusato di avere maleficiato – il maleficio, ci spiega padre La Grua nella sua opera La preghiera di liberazione, è una particolare forma di magia nera, che si esplica attraverso riti e cerimoniali allo scopo di nuocere alle persone; si chiama anche “fattura” perché si agisce con particolari oggetti opportunamente preparati – il duca Giovanni Guglielmo di Jülich-Cleve-Berg.

 

Fu probabilmente in questa circostanza che Guaccio incontrò, a Heimbach, Nicolas Remy (1530-1613), il famigerato procuratore generale della Lorena che fra il 1576 e il 1606 emanò più di duemila condanne al rogo. L’“oscuro frate milanese” dovette ricevere da lui non solo consigli, ma anche “incoraggiamento e plauso” per il suo Compendium che non a caso rimanda di continuo all’ingente casistica processuale raccolta nei Daemonolatreiae libri tres (Lugduni 1595) del Remy.

 

Ricordo brevemente che il demonologo e inquisitore francese durante la sua carriera di magistrato, dal 1576 al 1606 condannò alla pena capitale 2.000 o forse addirittura 3.000 persone con l’accusa di essere delle streghe. Questo computo ha la sua fonte primaria nel trattato dello stesso Remy, dove in varie parti l’inquisitore si sofferma sul numero degli imputati per stregoneria che avrebbe mandato a morte. Per citare un esempio nel primo libro della Demonolatreiae, al capitolo XXV, accingendosi a descrivere il sortilegio della grandine, Remy afferma di aver condannato al rogo, in qualità di giudice inquisitore, circa duecento persone trovate colpevoli di questo crimine diabolico.

 

Tornando a Guaccio secondo i suoi biografi più recenti, negli anni compresi fra il processo di Cleve e la pubblicazione del trattato avrebbe viaggiato per l’Europa al fine di ampliare le proprie competenze professionali. È attestato che nel 1607 si trovava – in qualità di “provincialis provinciae Mediolanensis Ordinis Sancti Ambrosii ad Nemus” – sul lago Maggiore, specificamente nell’eremo di Santa Caterina del Sasso Ballaro: è quanto si ricava da un atto notarile del 1° novembre di quell’anno, che lo menziona, insieme con altri quattro frati ambrosiani residenti a Santa Caterina, come testimone del solenne prelievo di una reliquia – destinata, sembrerebbe, a una diocesi lorenese (“S. Nicola de Portu Lotharingiae”) – dalle spoglie del beato Alberto Besozzi, fondatore semileggendario del piccolo monastero, che dalla seconda metà del XIV secolo dipendeva dall’Ordine milanese.

 

La presenza di Guaccio al Sasso Ballaro è del resto attestata anche negli anni successivi da una serie di documenti relativi alla vita amministrativa dell’eremo e alle relazioni patrimoniali che esso intratteneva con privati della propria giurisdizione. Il 22 gennaio 1619 Guaccio prese parte al capitolo per la retrovendita di parte di una casa; il 7 marzo 1623 è menzionato in un atto di vendita come compratore; il 18 gennaio 1624 come beneficiario di un’impegnativa. Al Guaccio si deve probabilmente la trasformazione primo secentesca della decorazione della saletta del capitolo di Santa Caterina, come si ricava da uno stemma con un leone rampante recante la scritta “Gracie al Guaccio” sulla parete nord, così come l’ispirazione rigorosamente scritturistica del tema iconografico del soffitto di una delle chiese del complesso conventuale, che implica certamente “la presenza di un teologo di professione”.

 

Nel 1625 uscì a Milano una Vita del b. Alberto Besozzo, dal quale ha avuto principio il luogo tanto celebre, et miracoloso di S. Caterina del Sasso Ballaro sopra il lago Maggiore, che Guaccio dichiara di avere scritto non solo “a gloria di Dio, e del b. Alberto, et a consolazione […] de’ pellegrini, e devoti di quel luogo”, “ma ancora dell’antichissima e nobilissima famiglia de’ Besozzi”.

 

 

Illustrazione del sabba nel Compendium maleficarum

di Francesco Mario Guazzo (1608)

 

L’opuscolo, composto probabilmente intorno al 1615, è infatti dedicato a un membro dell’importante casato verbanese, il canonico del duomo Ludovico Besozzi, familiare del cardinale Federico Borromeo. Si tratta della trascrizione in forme tipicamente agiografiche della vita di un oscuro eremita vissuto fra il XII e il XIII secolo nel luogo dove sarebbe poi sorto il monastero; povera di novità sostanziali rispetto alla tradizione locale e cronologicamente inattendibile e confusa – tanto da apparire ai bollandisti “oratio panegyrica […] potius, immo vere silvavariarum rerum, quamnarratiohistorica” – questa Vita non è tuttavia priva di interesse storico, in quanto il capitolo conclusivo fornisce alcuni dati interessanti sulla piccola comunità monastica santambrosiana, e soprattutto sulla gestione del culto e dei pellegrinaggi cui quest’ultima si dedicò alacremente fra la fine Cinquecento e i primi decenni del Seicento.

 

Nel 1626, sempre a Milano, uscì “ex Collegii Ambrosiani typographia” (con imprimatur concesso in data 3 febbraio 1624), una ristampa notevolmente ampliata del trattato pubblicato nel 1608; la struttura originaria del testo si mantiene sostanzialmente immutata nell’edizione accresciuta: tre libri suddivisi in capitoli di diversa lunghezza, ciascuno articolato in due sezioni, una teorica e definitoria (doctrina), spesso sorretta da citazioni scritturali e patristiche, e una composta di exempla antichi, moderni e contemporanei.

 

Nel I libro (composto da 20 capitoli sia nella prima, sia nella seconda edizione) vengono fissati i punti fondamentali della materia e discusse alcune questioni obbligate, fra cui quella relativa alla natura del volo notturno delle streghe (cap. XIII), la cui realtà viene affermata con forza da Guaccio, ben consapevole dell’importanza di tale argomento ai fini della repressione antistregonica coeva. Sempre nel I libro vengono descritte dettagliatamente, con il supporto visivo di un cospicuo numero di schematiche vignette, tutte le fasi del “pactum” diabolico (cap. VII) e del sabba (cap. XIII).

 

Il II libro (21 capitoli nella prima edizione, 23 nella seconda) tratta principalmente “de diversis generi bus maleficiorum” (“De maleficio somnifico”, cap. I; “venenario”, cap. III; “ligaminis”, cap. IV; “incendiario”, cap. V; “amoris et odii”, cap. VII ecc.), senza tralasciare questioni di ordine dottrinario (“Quare Deus permetta diabolum sic grassari per maleficia”, cap. X); ma vi vengono pure affrontati problemi che esulano da tale materia, come per esempio il nesso che lega, nell’ottica repressiva del disciplinamento controriformistico, il patrimonio folklorico delle credenze popolari, dei pronostici contadini ecc., alle pratiche stregonesche (“De vana observantia et superstitione”, cap. XI, aggiunto nella seconda edizione).

 

Il libro III, dedicato ai “remedia”, “divina” e “naturalia”, a disposizione dei “vexati” dalle streghe, è quello che subisce, nella redazione del 1626, il rimaneggiamento più massiccio (da 4 a 14 capitoli), configurandosi come “una sezione quanto mai pratica”, che “si potrebbe chiamare di pronto intervento” (ed. 1992, p. XXI): si va dagli esorcismi contro le tempeste e la grandine alle benedizioni contro le infestazioni di parassiti (capp. VI-VII), dai “remedia pro domo a spectris vexata” a quelli “contra maleficia iumentorum” (capp. X-XI) e così via.

 

Il libro si chiude con un lunghissimo “Exorcismus” composto ad hoc, seguito da una serie di formule liturgiche da impiegarsi contro le varie insidie diaboliche. Gli studiosi hanno sottolineato la scarsa originalità dottrinaria del Compendium, che, per ammissione dello stesso autore, è essenzialmente un lavoro di scrupolosa compilazione, non privo di intenti divulgativi, dinanzi all’inarrestabile progredire “di una scienza che aveva assunto, con il primo Seicento, proporzioni tali da richiedere l’aiuto di volenterosi riduttori”.

  

 

L’osculum infame in una xilografia

del Compendium maleficarum

 

Fra le 322 auctoritates citate, Guaccio utilizza principalmente l’opera del prediletto Remy e le sterminate Disquisitiones magicae di Martin Antoine Del Rio (Lugduni 1599-1600), senza tuttavia trascurare opere più antiche, come per esempio il Formicarius di Johannes Nider (Augsburg 1476 circa) e il tristemente celebre Malleus maleficarum di Jacob Sprenger e Heinrich Institor (precedente al 1487).

 

Il Formicarius, scritto tra il 1436 e il 1438 da Johannes Nider durante il Concilio di Firenze e stampato per la prima volta nel 1475, è il secondo libro mai stampato per discutere di stregoneria (il primo libro fu Fortalitium Fidei di Alphonso de Spina). Nider si occupò specificamente della stregoneria nella quinta sezione del libro e a differenza dei suoi successori, non enfatizzò l’idea del Sabba delle streghe rimanendo comunque scettico sull’affermazione che le streghe potessero volare di notte. Con oltre 25 copie manoscritte di edizioni quattrocentesche e primo cinquecentesche dal 1470 al 1692, il Formicarius divenne un’opera importante per lo studio delle origini dei processi alle streghe nell’Europa della prima età moderna in quanto fa luce sulla loro prima fase durante la prima metà del XV secolo; il Nider fu uno dei primi demonologi a trasformare l’idea di stregoneria nella sua percezione più moderna trasformando completamente il sentire dei suoi contemporanei convinti che la magia fosse eseguita da uomini istruiti che eseguivano rituali intricati.

 

Nel Formicarius di Nider, la strega venne descritta come una persona non istruita e più comunemente di genere femminile e l’idea che qualsiasi persona potesse compiere atti di magia semplicemente dedicandosi al diavolo suscitò scalpore e spavento nella società del tempo e si rivelò uno dei tanti fattori che spinsero le persone a temere la magia. Il titolo è latino e sta per “la colonia di formiche”, un’allusione a Proverbi 6:6 (Nider usò la colonia di formiche come metafora per descrivere una società armoniosa).

 

Introduciamo ora il Compendium Maleficurum: il trattato forse non fu scritto “per espresso desiderio della Curia milanese”, tuttavia la sua ristampa aggiornata (uscita, non a caso dai torchi del “Collegium Ambrosianum”) dovette ricevere, da parte di Federico Borromeo, ben più che la semplice approvazione esterna dell’imprimatur, per poi rivelarsi, negli anni della peste manzoniana, uno “strumento non secondario” nell’offensiva processuale contro i presunti untori, cui del resto lo stesso Guaccio collaborò, pare, con alcune denunce. Che il trattato si prestasse ad alimentare la psicosi del contagio è del resto un dato evidente sin dalle prime pagine: proprio sull’assimilazione fra peste e arti magiche, “quasi animi morbi” dilaganti “per orbemtotum” (ed. 1626) è imperniata, infatti, la dedica al conte Antonio Serbelloni.

 

Il documento più tardo in cui compare il nome di Guaccio è databile intorno alla fine degli anni Trenta: si tratta di una Nota del clero che nella seconda regione può deputarsi per esorcisti. In questa lista di religiosi di area verbanese idonei allo scopo il Guaccio è designato per la diocesi di Leggiuno, in quanto residente a Santa Caterina del Sasso; se ne deduce che la sua permanenza nell’eremo sul lago – sia pur inframmezzata da soggiorni presso la casa madre milanese dell’Ordine – dovette protrarsi fino al momento della morte, avvenuta intorno al 1640.

 

A Guaccio è stato pure attribuito un trattato politico uscito a Venezia nel 1643, Il delineato prencipe di Francesco G. Libri tre, ma l’attribuzione (proposta per la prima volta da M. Summers, che pensa a una pubblicazione postuma) desta qualche perplessità, non tanto per la non perfetta coincidenza del nome del frontespizio con quello di Guaccio, quanto piuttosto per il fatto che, nella dedica “Al serenissimo prencipe et eccelso Consiglio di Dieci”, datata Venezia 10 ottobre 1642, l’autore attribuisce a sé e ai propri antenati una devozione alla Repubblica che mal si accorda con la biografia di Guaccio.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]