moderna
I DEMONOLOGI DEL SEICENTO
FRANCESCO MARIA GUACCIO E LUDOVICO MARIA
SINISTRARI / I
di Enrico Targa
Francesco Maria Guaccio noto anche come Guaccius o
Guazzo fu un demonologo, teologo e religioso
italiano le cui notizie biografie ritenute
plausibili sono poche e incerte; nacque a Milano nel
1570, fu lettore di teologia e membro
dell’Inquisizione; appartenne all’Ordine di San
Barnaba e di Sant’Ambrogio ad Nemus, costituitosi
nel 1589 per incorporamento degli apostolini di San
Barnaba nell’Ordine santambrosiano.
Il nome di Guaccio è fondamentalmente legato a un
voluminoso Compendium maleficarum, trattato
di demonologia in tre libri che uscì in prima
edizione a Milano nel 1608. La stesura dell’opera,
come si ricava dalla dedicatoria, risale al 1605: il
Guaccio sostiene che sia stata composta durante un
suo soggiorno alla corte di Cleve, dove era stato
chiamato a prendere parte, in qualità di esperto, a
un processo per stregoneria istruito
dall’Inquisizione contro un vecchio sacerdote
accusato di avere maleficiato – il maleficio, ci
spiega padre La Grua nella sua opera La preghiera
di liberazione, è una particolare forma di magia
nera, che si esplica attraverso riti e cerimoniali
allo scopo di nuocere alle persone; si chiama anche
“fattura” perché si agisce con particolari oggetti
opportunamente preparati – il duca Giovanni
Guglielmo di Jülich-Cleve-Berg.
Fu probabilmente in questa circostanza che Guaccio
incontrò, a Heimbach, Nicolas Remy (1530-1613), il
famigerato procuratore generale della Lorena che fra
il 1576 e il 1606 emanò più di duemila condanne al
rogo. L’“oscuro frate milanese” dovette ricevere da
lui non solo consigli, ma anche “incoraggiamento e
plauso” per il suo Compendium che non a caso
rimanda di continuo all’ingente casistica
processuale raccolta nei Daemonolatreiae libri
tres (Lugduni 1595) del Remy.
Ricordo brevemente che il demonologo e inquisitore
francese durante la sua carriera di magistrato, dal
1576 al 1606 condannò alla pena capitale 2.000 o
forse addirittura 3.000 persone con l’accusa di
essere delle streghe. Questo computo ha la sua fonte
primaria nel trattato dello stesso Remy, dove in
varie parti l’inquisitore si sofferma sul numero
degli imputati per stregoneria che avrebbe mandato a
morte. Per citare un esempio nel primo libro della
Demonolatreiae, al capitolo XXV, accingendosi
a descrivere il sortilegio della grandine, Remy
afferma di aver condannato al rogo, in qualità di
giudice inquisitore, circa duecento persone trovate
colpevoli di questo crimine diabolico.
Tornando a Guaccio secondo i suoi biografi più
recenti, negli anni compresi fra il processo di
Cleve e la pubblicazione del trattato avrebbe
viaggiato per l’Europa al fine di ampliare le
proprie competenze professionali. È attestato che
nel 1607 si trovava – in qualità di “provincialis
provinciae Mediolanensis Ordinis Sancti Ambrosii ad
Nemus” – sul lago Maggiore, specificamente
nell’eremo di Santa Caterina del Sasso Ballaro: è
quanto si ricava da un atto notarile del 1° novembre
di quell’anno, che lo menziona, insieme con altri
quattro frati ambrosiani residenti a Santa Caterina,
come testimone del solenne prelievo di una reliquia
– destinata, sembrerebbe, a una diocesi lorenese (“S.
Nicola de Portu Lotharingiae”) – dalle spoglie
del beato Alberto Besozzi, fondatore semileggendario
del piccolo monastero, che dalla seconda metà del
XIV secolo dipendeva dall’Ordine milanese.
La presenza di Guaccio al Sasso Ballaro è del resto
attestata anche negli anni successivi da una serie
di documenti relativi alla vita amministrativa
dell’eremo e alle relazioni patrimoniali che esso
intratteneva con privati della propria
giurisdizione. Il 22 gennaio 1619 Guaccio prese
parte al capitolo per la retrovendita di parte di
una casa; il 7 marzo 1623 è menzionato in un atto di
vendita come compratore; il 18 gennaio 1624 come
beneficiario di un’impegnativa. Al Guaccio si deve
probabilmente la trasformazione primo secentesca
della decorazione della saletta del capitolo di
Santa Caterina, come si ricava da uno stemma con un
leone rampante recante la scritta “Gracie al
Guaccio” sulla parete nord, così come
l’ispirazione rigorosamente scritturistica del tema
iconografico del soffitto di una delle chiese del
complesso conventuale, che implica certamente “la
presenza di un teologo di professione”.
Nel 1625 uscì a Milano una Vita del b. Alberto
Besozzo, dal quale ha avuto principio il luogo
tanto celebre, et miracoloso di S. Caterina del
Sasso Ballaro sopra il lago Maggiore, che
Guaccio dichiara di avere scritto non solo “a
gloria di Dio, e del b. Alberto, et a consolazione
[…] de’ pellegrini, e devoti di quel luogo”, “ma
ancora dell’antichissima e nobilissima famiglia de’
Besozzi”.
Illustrazione del sabba nel Compendium
maleficarum
di Francesco Mario Guazzo (1608)
L’opuscolo, composto probabilmente intorno al 1615,
è infatti dedicato a un membro dell’importante
casato verbanese, il canonico del duomo Ludovico
Besozzi, familiare del cardinale Federico Borromeo.
Si tratta della trascrizione in forme tipicamente
agiografiche della vita di un oscuro eremita vissuto
fra il XII e il XIII secolo nel luogo dove sarebbe
poi sorto il monastero; povera di novità sostanziali
rispetto alla tradizione locale e cronologicamente
inattendibile e confusa – tanto da apparire ai
bollandisti “oratio panegyrica […] potius, immo
vere silvavariarum rerum, quamnarratiohistorica”
– questa Vita non è tuttavia priva di
interesse storico, in quanto il capitolo conclusivo
fornisce alcuni dati interessanti sulla piccola
comunità monastica santambrosiana, e soprattutto
sulla gestione del culto e dei pellegrinaggi cui
quest’ultima si dedicò alacremente fra la fine
Cinquecento e i primi decenni del Seicento.
Nel 1626, sempre a Milano, uscì “ex Collegii
Ambrosiani typographia” (con imprimatur
concesso in data 3 febbraio 1624), una ristampa
notevolmente ampliata del trattato pubblicato nel
1608; la struttura originaria del testo si mantiene
sostanzialmente immutata nell’edizione accresciuta:
tre libri suddivisi in capitoli di diversa
lunghezza, ciascuno articolato in due sezioni, una
teorica e definitoria (doctrina), spesso
sorretta da citazioni scritturali e patristiche, e
una composta di exempla antichi, moderni e
contemporanei.
Nel I libro (composto da 20 capitoli sia nella
prima, sia nella seconda edizione) vengono fissati i
punti fondamentali della materia e discusse alcune
questioni obbligate, fra cui quella relativa alla
natura del volo notturno delle streghe (cap. XIII),
la cui realtà viene affermata con forza da Guaccio,
ben consapevole dell’importanza di tale argomento ai
fini della repressione antistregonica coeva. Sempre
nel I libro vengono descritte dettagliatamente, con
il supporto visivo di un cospicuo numero di
schematiche vignette, tutte le fasi del “pactum”
diabolico (cap. VII) e del sabba (cap. XIII).
Il II libro (21 capitoli nella prima edizione, 23
nella seconda) tratta principalmente “de diversis
generi bus maleficiorum” (“De maleficio
somnifico”, cap. I; “venenario”, cap. III;
“ligaminis”, cap. IV; “incendiario”,
cap. V; “amoris et odii”, cap. VII ecc.),
senza tralasciare questioni di ordine dottrinario (“Quare
Deus permetta diabolum sic grassari per maleficia”,
cap. X); ma vi vengono pure affrontati problemi che
esulano da tale materia, come per esempio il nesso
che lega, nell’ottica repressiva del disciplinamento
controriformistico, il patrimonio folklorico delle
credenze popolari, dei pronostici contadini ecc.,
alle pratiche stregonesche (“De vana observantia
et superstitione”, cap. XI, aggiunto nella
seconda edizione).
Il libro III, dedicato ai “remedia”, “divina”
e “naturalia”, a disposizione dei “vexati”
dalle streghe, è quello che subisce, nella redazione
del 1626, il rimaneggiamento più massiccio (da 4 a
14 capitoli), configurandosi come “una sezione
quanto mai pratica”, che “si potrebbe
chiamare di pronto intervento” (ed. 1992, p. XXI):
si va dagli esorcismi contro le tempeste e la
grandine alle benedizioni contro le infestazioni di
parassiti (capp. VI-VII), dai “remedia pro domo a
spectris vexata” a quelli “contra maleficia
iumentorum” (capp. X-XI) e così via.
Il libro si chiude con un lunghissimo “Exorcismus”
composto ad hoc, seguito da una serie di formule
liturgiche da impiegarsi contro le varie insidie
diaboliche. Gli studiosi hanno sottolineato la
scarsa originalità dottrinaria del Compendium,
che, per ammissione dello stesso autore, è
essenzialmente un lavoro di scrupolosa compilazione,
non privo di intenti divulgativi, dinanzi
all’inarrestabile progredire “di una scienza che
aveva assunto, con il primo Seicento, proporzioni
tali da richiedere l’aiuto di volenterosi riduttori”.
L’osculum infame in una xilografia
del
Compendium maleficarum
Fra le 322 auctoritates citate, Guaccio
utilizza principalmente l’opera del prediletto Remy
e le sterminate Disquisitiones magicae di
Martin Antoine Del Rio (Lugduni 1599-1600), senza
tuttavia trascurare opere più antiche, come per
esempio il Formicarius di Johannes Nider (Augsburg
1476 circa) e il tristemente celebre Malleus
maleficarum di Jacob Sprenger e Heinrich
Institor (precedente al 1487).
Il Formicarius, scritto tra il 1436 e il 1438
da Johannes Nider durante il Concilio di Firenze e
stampato per la prima volta nel 1475, è il secondo
libro mai stampato per discutere di stregoneria (il
primo libro fu Fortalitium Fidei di Alphonso
de Spina). Nider si occupò specificamente della
stregoneria nella quinta sezione del libro e a
differenza dei suoi successori, non enfatizzò l’idea
del Sabba delle streghe rimanendo comunque scettico
sull’affermazione che le streghe potessero volare di
notte. Con oltre 25 copie manoscritte di edizioni
quattrocentesche e primo cinquecentesche dal 1470 al
1692, il Formicarius divenne un’opera
importante per lo studio delle origini dei processi
alle streghe nell’Europa della prima età moderna in
quanto fa luce sulla loro prima fase durante la
prima metà del XV secolo; il Nider fu uno dei primi
demonologi a trasformare l’idea di stregoneria nella
sua percezione più moderna trasformando
completamente il sentire dei suoi contemporanei
convinti che la magia fosse eseguita da uomini
istruiti che eseguivano rituali intricati.
Nel Formicarius di Nider, la strega venne
descritta come una persona non istruita e più
comunemente di genere femminile e l’idea che
qualsiasi persona potesse compiere atti di magia
semplicemente dedicandosi al diavolo suscitò
scalpore e spavento nella società del tempo e si
rivelò uno dei tanti fattori che spinsero le persone
a temere la magia. Il titolo è latino e sta per “la
colonia di formiche”, un’allusione a Proverbi
6:6 (Nider usò la colonia di formiche come metafora
per descrivere una società armoniosa).
Introduciamo ora il Compendium Maleficurum:
il trattato forse non fu scritto “per espresso
desiderio della Curia milanese”, tuttavia la sua
ristampa aggiornata (uscita, non a caso dai torchi
del “Collegium Ambrosianum”) dovette
ricevere, da parte di Federico Borromeo, ben più che
la semplice approvazione esterna dell’imprimatur,
per poi rivelarsi, negli anni della peste
manzoniana, uno “strumento non secondario”
nell’offensiva processuale contro i presunti untori,
cui del resto lo stesso Guaccio collaborò, pare, con
alcune denunce. Che il trattato si prestasse ad
alimentare la psicosi del contagio è del resto un
dato evidente sin dalle prime pagine: proprio
sull’assimilazione fra peste e arti magiche, “quasi
animi morbi” dilaganti “per orbemtotum”
(ed. 1626) è imperniata, infatti, la dedica al conte
Antonio Serbelloni.
Il documento più tardo in cui compare il nome di
Guaccio è databile intorno alla fine degli anni
Trenta: si tratta di una Nota del clero che nella
seconda regione può deputarsi per esorcisti. In
questa lista di religiosi di area verbanese idonei
allo scopo il Guaccio è designato per la diocesi di
Leggiuno, in quanto residente a Santa Caterina del
Sasso; se ne deduce che la sua permanenza nell’eremo
sul lago – sia pur inframmezzata da soggiorni presso
la casa madre milanese dell’Ordine – dovette
protrarsi fino al momento della morte, avvenuta
intorno al 1640.
A Guaccio è stato pure attribuito un trattato
politico uscito a Venezia nel 1643, Il delineato
prencipe di Francesco G. Libri tre, ma
l’attribuzione (proposta per la prima volta da M.
Summers, che pensa a una pubblicazione postuma)
desta qualche perplessità, non tanto per la non
perfetta coincidenza del nome del frontespizio con
quello di Guaccio, quanto piuttosto per il fatto
che, nella dedica “Al serenissimo prencipe et
eccelso Consiglio di Dieci”, datata Venezia 10
ottobre 1642, l’autore attribuisce a sé e ai propri
antenati una devozione alla Repubblica che mal si
accorda con la biografia di Guaccio.
|