N. 35 - Novembre 2010
(LXVI)
Il binomio "imperfetto"
Il difficile cammino della democrazia araba
di Lawrence M.F. Sudbury
Dal
punto
di
vista
sociologico
e
politico
si è
soliti
parlare
dello
sviluppo
della
democrazia
nei
vari
Paesi
del
mondo
come
di
un
processo
ad
"ondate
successive".
Quella
che
stiamo
vivendo
al
momento
può
essere
definita
una
"terza
ondata",
nella
quale
la
democrazia
ha
smesso
di
essere
un
fenomeno
per
lo
più
occidentale
per
estendersi
a
livello
mondiale
e,
solo
nei
venti
anni
dal
suo
inizio,
databile
intorno
al
1974,
al
1995
si è
assistito
al
passaggio
da
40 a
117
democrazie
presenti
nel
mondo
(fonte
"Journal
of
Democracy").
Ciò
che
stupisce
è
che
questo
movimento
globale
non
pare
abbia
riguardato,
con
la
sola
parziale
eccezione
libanese,
i
Paesi
arabi
e
che
oggi,
quindici
anni
dopo,
la
situazione
continui
immutata.
La
domanda,
a
questo
punto,
sorge
spontanea:
perché
non
esiste
una
democrazia
araba?
La
risposta
più
ovvia
è
che
questo
deficit
debba
avere
qualcosa
a
che
fare
con
la
religione
o la
cultura
che
accomunano
gli
Stati
mediorientali
e
della
costa
meridionale
mediterranea,
tutti
legati
ad
un
background
storico
comune
e
tutti
professanti
(pur
con
significative
minoranze
in
Libano
e in
Egitto)
la
religione
islamica.
Eppure,
né
la
cultura
araba
né
la
religione
musulmana
offrono,
al
loro
interno,
una
spiegazione
convincente
per
dar
ragione
del
fenomeno. Né
una
spiegazione
plausibile
si
può
ricercare
unicamente
nella
mancanza
di
sviluppo
di
Stati
come
Egitto,
Giordania,
Marocco
e
Yemen
o
negli
effetti
socio-politici
perversi
della
ricchezza
derivata
dal
petrolio,
mentre
una
risposta
al
quesito
è
ottenibile
solo
da
una
più
ampia
disamina
economica
e
geopolitica
dell'azione
di
tutte
queste
covariabili
e da
una
analisi
delle
strutture
interne
dei
Paesi
arabi.
Ma
procediamo
per
gradi,
cercando
di
analizzare
le
possibili
soluzioni
al
quesito.
Partiamo,
dunque,
dalla
soluzione
religioso-culturale.
Ebbene,
se
allarghiamo
l'ottica
passando
dalla
osservazione
dei
sedici
Paesi
arabi
mediorientali
e
nordafricani
ad
una
visione
che
includa
anche
gli
altri
ventinove
Stati
musulmani
del
mondo
possiamo
facilmente
notare
come
l'idea
di
un
"Islam
che
blocca
la
democrazia"
decada
immediatamente,
visto
che
un
numero
piuttosto
significativo
di
esempi
(Albania,
Bangladesh,
Malesia,
Senegal
e
Turchia
solo
per
citarne
alcuni)
contraddice
l'assunto,
fornendo,
sulla
base
del
test
minimo
di
democrazia
elettorale
stabilito
dalla
International
Freedom
House
(elezioni
libere
ed
eque
per
determinare
chi
governa),
un
regime
sufficientemente
libero
e
giusto
ai
propri
cittadini.
Per
altro,
sempre
tenendo
conto
dei
parametri
della
Freedom
House,
è
possibile
notare
che
l'anno
scorso
su
una
"scala
di
libertà
del
cittadino"
da 0
(totalmente
libero)
a 7
(assolutamente
non
libero)
i 16
Paesi
arabi
abbiano
ottenuto
una
valutazione
media
di
4.75,
mentre
gli
altri
Paesi
islamici
si
siano
attestati
su
una
media
di
5.50:
uno
scarto
di
un
punto
è
indubbiamente
significativo,
soprattutto
tenendo
conto
che
circa
metà
delle
Nazioni
non
arabe
sono
considerate
"moderatamente"
libere
mentre
il
solo
Kuwait
tra
le
Nazioni
arabe
rientra
in
questa
definizione.
Certamente
c'è
stato
chi,
come
lo
storico
britannico
Elie
Kedourie
ha
fatto
nel
1992,
ha
affermato
che
non
c'è
"nulla
nelle
tradizioni
politiche
legate
all'Islam,
che
potrebbero
rendere
familiare,
o
anche
solo
comprensibile,
l'idea
di
organizzare
un
governo
costituzionale
e
rappresentativo."
Eppure,
al
di
fuori
del
mondo
arabo
parecchi
Paesi
con
tradizioni
politiche
musulmane
hanno
avuto
alcune
esperienze
significative
di
democrazia
e
resterebbe
da
spiegare
come
sia
stato
possibile,
allora,
che
lo
sviluppo
di
una
democrazia
moderna
abbia
potuto
prendere
piede
in
diverse
aree
islamiche
in
Africa
e
Asia
che
pure
non
avevano
precedenti
in
tal
senso,
ma
non
nel
mondo
arabo.
Se
il
problema
è
che,
come
continua
Kedourie,
i
musulmani
sono
abituati
ad
"autocrazia
e
obbedienza
passiva"
perché
questo
è
rimasto
un
ostacolo
insormontabile
nel
mondo
arabo,
mentre
non
ha
impedito
la
democratizzazione
in
vaste
aree
del
resto
del
mondo
che
un
tempo
erano
note
per
subire
un
dominio
autoritario?
Si
potrebbe
anche
sostenere,
come
è
stato
fatto
per
quanto
riguarda
Iraq
e
Libano,
che
le
divisioni
etniche
e
confessionali
corrono
troppo
in
profondità
per
permettere
la
democrazia
in
questi
Paesi.
Eppure,
Iraq
e
Libano,
nonostante
le
loro
divisioni
polarizzati,
sono
i
due
Paesi
arabi
oggi
più
vicini
al
concetto
di
democrazia
elettorale
completa,
mentre
due
dei
paesi
più
omogenei,
Egitto
e
Tunisia,
sono
anche
due
tra
i
più
autoritari. In
effetti,
le
differenze
etniche
o
religiose
difficilmente
rappresentano
un
ostacolo
più
grave
per
la
democrazia
nel
mondo
arabo
di
quanto
non
possano
essere
in
Paesi
come
Ghana,
India,
Indonesia,
e
Sud
Africa,
che
pure
sono
democrazie
piuttosto
compiute. La
risposta,
dunque,
va
ricercata
altrove.
Forse,
il
fatto
è,
semplicemente,
che
le
popolazioni
arabe
non
considerano
la
democrazia
elettorale
di
massa
un
valore
come
potrebbe
accadere
in
altre
culture.
Ma
allora,
come
si
spiega
che
in
vari
sondaggi
ben
oltre
l'80%
dei
cittadini
in
Algeria,
Giordania,
Kuwait,
Marocco,
nell'Autorità
palestinese,
e
anche
in
Iraq
abbia
dichiarato
che
"nonostante
gli
inconvenienti,
la
democrazia
è il
miglior
sistema
di
governo"
e
che
"avere
un
sistema
democratico
sarebbe
buono
per
il
nostro
Paese
" e
che
questi
risultati
siano
stati
indipendenti
dal
grado
di
religiosità
degli
intervistati
(fonte:
sondaggio
globale
nei
Paesi
arabi
del
già
citato
"Journal
of
Democracy")?
In
realtà,
basterebbe
vedere
come,
a
rischio
della
vita,
gli
iracheni
e
gli
afghani
abbiano
partecipato
alle
loro
prime
libere
elezioni
per
comprendere
quale
sia
l'atteggiamento
degli
arabi
verso
la
democrazia,
e
certo
non
è
sorprendente
che
solo
laddove
le
elezioni,
come
in
Egitto,
offrono
poca
scelta
significativa,
o,
come
in
Marocco,
hanno
ben
poca
importanza
nel
determinare
chi
governerà
veramente,
si
abbia
un
alto
tasso
di
astensione.
Sotto
le
cifre
aggregate
del
sostegno
arabo
alla
democrazia,
tuttavia,
dobbiamo
vedere
una
storia
più
complessa. In
cinque
Paesi
esaminati
tra
il
2003
e il
2006
dall'"Osservatorio
sulla
Democrazia
in
Medio
Oriente",
il
56%
per
cento
degli
intervistati
ha
sostenuto
che
"gli
uomini
di
religione
dovrebbe
avere
influenza
sulle
decisioni
del
governo"
e un
sondaggio
fatto
nel
2003
e
nel
2004
ha
mostrato
come
una
percentuale
dal
40
al
45%
degli
arabi
sarebbero
a
favore
di
una
democrazia
islamica
nella
quale
trovassero
applicazione
i
principi
della
Sha'aria.
È
qui
che
religione
e
cultura
entrano
come
fattori
rilevanti.
Anche
se
possiamo
desumere
che
i
cittadini
delle
Nazioni
arabe
sono
a
favore
dell'assunzione
di
regimi
democratici,
non
possiamo
comunque
sapere
se
tale
accettazione
riguardi
unicamente
una
ricerca
di
forme
nuove
di
governo
alternative
alla
presente
situazione
autoritaria
e
quanto
includa
anche
l'accettazione
di
valori
quali
l'apertura,
la
tolleranza
e
l'uguaglianza
di
tutti
i
cittadini.
Di
fatto,
l'idea
di
democrazia
per
chi
ha
espresso
parere
favorevole
al
suo
sviluppo
potrebbe
essere
quella
sostenuto
dai
Fratelli
Musulmani
in
Egitto
o
dal
Fronte
d'Azione
Islamico
in
Giordania,
cioè
una
democrazia
comunque
settaria
e
anti-equalitarista,
che,
con
tutta
probabilità,
porterebbe
alla
classica
dinamica
del
"una
persona,
un
voto,
una
sola
volta"
prima
del
suo
dirottamento
verso
una
rivoluzione
culturale
(antidemocratica)
simile
a
quella
attuata
dall'ayatollah
Khomeini
in
Iran
nel
1979.
La
paura
di
una
vittoria
elettorale
dell'Islam
radicale
è,
in
effetti,
proprio
una
delle
cause
impedienti
maggiori
verso
la
democrazia,
soprattutto
dopo
il
bagno
di
sangue
avvenuto
nel
1991
in
Algeria
dopo
la
vittoria
del
Fronte
Islamico
di
Salvezza
e la
sollevazione
delle
élite
politiche
e
militari
contro
la
possibilità
di
un
governo
su
base
religiosa.
Si
tratta
di
uno
scenario
socio-politico
consueto,
che
ha
già
avuto
modo
di
esplicarsi
in
America
Latina
e in
Sud
Africa,
laddove
solo
dopo
aver
ottenuto
la
certezza
di
non
passare
sotto
un
governo
comunista
non
solo
i
nuclei
autoritari
ma
anche
la
borghesia
liberale
ha
consentito
a
libere
elezioni
che
permettessero
un
passaggio
progressivo
verso
la
democrazia,
preferendo,
in
precedenza,
sottostare
ad
un
regime
certo
piuttosto
che
passare
ad
un
altro
regime
questa
volta
incerto.
In
questo
quadro
si
inserisce
anche
un
secondo
fattore,
quello
economico.
Seymour
Martin
Lipset
ha
sostenuto
cinquanta
anni
fa
che
più
un
Paese
ha
un
livello
di
vita
agiato
e
meglio
sarà
per
le
sue
prospettive
di
guadagnare
e
mantenere
la
democrazia.
Ormai,
però,
molti
Paesi
arabi
sono
abbastanza
"agiati":
se
si
confrontano
i
livelli
di
reddito
pro
capite,
il
Kuwait
è
ricco
quanto
la
Norvegia,
il
Bahrain
è
alla
pari
con
la
Francia,
l'Arabia
Saudita
con
la
Corea,
l'Oman
con
il
Portogallo
e il
Libano
con
il
Costa
Rica. Solo
Egitto,
Giordania,
Marocco,
Siria
e
Yemen
non
hanno
ancora
raggiunto
livelli
accettabili
di
prosperità,
ma,
comunque,
questi
Paesi
non
sono
più
poveri
in
termini
pro
capite
di
India
o
Indonesia,
dove
la
democrazia
funziona
nonostante
la
mancanza
di
ricchezza
generale.
Naturalmente,
i
dati
pro
capite
possono
essere
ingannevoli:
la
distribuzione
del
reddito
può
essere
gravemente
distorta
e
ciò
è
particolarmente
vero
nel
mondo
arabo.
Inoltre,
è
noto
che
i
"Paesi
del
petrolio"
appaiono
in
superficie
molto
più
sviluppati
di
quello
che
siano,
con
una
forbice
che
fa
sì
che
dal
punto
di
vista
del
livello
di
vita
medio
essi
si
posizionino
molto
più
in
basso
di
quanto
le
statistiche
potrebbero
mostrare.
Eppure,
quando
si
guarda
ai
livelli
dei
diritti
umani
legati
allo
sviluppo
(che
prendono
in
considerazione
voci
come
istruzione
e
salute),
i
più
ricchi
Stati
petroliferi
arabi
sono
almeno
alla
pari
con
il
Portogallo
e
l'Ungheria,
mentre
l'Arabia
Saudita
è
paragonabile
con
la
Bulgaria
e
Panama
e,
prendendo
in
esame
gli
Stati
arabi
con
poco
petrolio
o
senza
alcuna
esportazione,
vediamo
come
l'Egitto
sia
a
livello
dell'Indonesia
e il
Marocco
del
Sud
Africa.
In
altre
parole,
è
possibile
trovare
a
qualsiasi
livello
di
ricchezza
numerose
democrazie
che
sono
sviluppate
più
o
meno
come
le
rispettive
non
democrazie
arabe.
Ma
se
il
problema
non
è a
livello
economico,
forse
è a
livello
di
struttura
economica.
Tra
i
sedici
Paesi
arabi,
undici
sono
"rentier",
nel
senso
che
essi
dipendono
fortemente
dalle
rendite
del
petrolio
e
del
gas
(in
sostanza,
vivono
di
rendita)
che
li
tengono
a
galla
fornendo
più
del
70%
(in
alcuni
casi
oltre
il
90%)
dei
loro
proventi.
La
maggior
parte
di
tali
Stati
sono
talmente
inondati
in
contanti
che
non
hanno
bisogno
di
tassare
i
propri
cittadini.
E,
paradossalmente,
questo
è
parte
del
problema:
queste
Nazioni,
non
riescono
a
sviluppare
quelle
aspettative
organiche
di
responsabilità
che
emergono
quando
i
cittadini
pagano
le
tasse.
Il
meccanismo
è
semplice
e
perverso
allo
stesso
tempo:
i
proventi
del
petrolio
spettano
allo
Stato
e,
conseguentemente,
aumentano
la
potenza
della
burocrazia
statale
ma,
riducendo
o
eliminando
la
necessità
di
tassazione,
riducono
anche
la
necessità
che
il
governo
debba
sollecitare
l'acquiescenza
dei
suoi
soggetti
a
tassazione.
In
altre
parole,
più
basso
è il
livello
di
tassazione,
meno
motivo
esiste
per
i
soggetti
pubblici
di
rispondere
alla
domanda
di
rappresentanza.
Non
si
tratta
dell'unico
esempio
dei
corollari
negativi
di
quella
che
è
stata
definita
"la
maledizione
del
petrolio":
essa
porta
ad
una
eccessiva
centralizzazione,
ad
un
presidiamento
dei
privilegi
élitari
e,
di
norma,
ad
un
livello
di
corruzione
altissimo,
frutto
di
una
economia
liberista
con
legami
normativi
minimali.
Insomma,
in
questi
sistemi
lo
Stato
è
grande,
centralizzato
e
repressivo,
finisce
per
comprare
la
stabilità
e la
pace
politica
con
le
buste
paga
del
governo,
mentre
la
società
civile
è
debole
e
cooptata.
Quella
che
passa
per
essere
economia
di
mercato
è,
in
effetti,
il
frutto
di
un
senso
d'imprenditorialità
fortemente
distorto,
in
cui
la
maggior
parte
degli
affaristi
sono
al
servizio
dello
Stato
o
del
suo
settore
petrolifero,
o,
altrimenti,
si
alimentano
con
contratti
con
il
governo
o
rappresentando
imprese
straniere.
Non
vi è
piccola
o
media
impresa
perché
l'imprenditorialità
è
nulla:
perché
correre
rischi
quando
ci
sono
profitti
costanti
ottenibili
senza
alcun
rischio?
Il
risultato,
al
di
là
della
dipendenza
evidente
dagli
altri
Paesi
per
ogni
genere
di
bene
di
consumo,
è
che
viene
a
mancare
una
vera
classe
media
non
legata
al
governo
e,
conseguentemente,
una
vera
possibilità
di
"dissidenza
economica".
Se,
dunque,
vi è
una
base
economica
per
l'assenza
di
democrazia
nel
mondo
arabo,
essa
è
strutturale
e ha
a
che
fare
con
il
modo
in
cui
il
petrolio
distorce
lo
Stato,
il
mercato
e la
struttura
di
classe:
non
è un
caso
che
non
uno
solo
dei
23
Paesi
che
oggi
derivano
la
maggior
parte
dei
loro
proventi
delle
esportazioni
di
petrolio
e
gas
possa
essere
considerato
una
democrazia
compiuta.
Tra
l'altro,
per
molti
Paesi
arabi,
la
maledizione
del
petrolio
non
finirà
molto
presto:
il
Medio
Oriente
arabo
è la
patria
di
cinque
dei
nove
Paesi
con
le
maggiori
riserve
di
petrolio
(con
circa
il
46%
delle
riserve
mondiali).
A
livello
prettamente
politico,
gli
autoritarismi
arabi
si
basano
su
grandi
pilasti
che
comprendono
i
modelli
e le
istituzioni
con
cui
i
regimi
autoritari
gestiscono
la
loro
politica
e
mantengono
la
loro
presa
sul
potere,
insieme
a
tutte
quelle
forze
esterne
che
contribuiscono
a
sostenere
il
loro
governo.
Queste
strutture
autoritarie
non
sono
tipiche
unicamente
del
mondo
arabo,
ma i
governanti
arabi
le
hanno
portate
a un
livello
superiore
di
raffinatezza.
Anche
se
lo
Stato
tipico
arabo
non
può
essere
efficiente
nell'organizzazione
del
quotidiano,
la
sua
"Mukhabarat"
(polizia
segreta
e
apparati
di
intelligence)
è
normalmente
ampiamente
finanziata,
tecnicamente
sofisticata,
molto
penetrante,
legalmente
senza
freni
e
sempre
pronta
a
beneficiare
di
un'ampia
cooperazione
con
le
istituzioni
regionali
e
internazionali.
Più
in
generale,
"questi
Stati
sono
i
leader
mondiali
in
termini
di
proporzione
del
PIL
speso
per
la
sicurezza"
Eppure
la
maggior
parte
delle
autocrazie
arabe
non
si
basa
sulla
coercizione
assoluta
e
sulla
paura
per
sopravvivere.
Piuttosto,
la
repressione
è
selettiva
e
fortemente
mescolata
a (e
quindi
spesso
nascosta
da)
meccanismi
di
rappresentanza,
consultazione,
e
cooptazione. Questa
miscela
di
para-pluralismo
guidato,
di
elezioni
controllate
e di
repressione
selettiva
è il
combustibile
dei
regimi
presenti
in
Egitto,
Giordania,
Marocco,
Algeria,
Kuwait
e
non
è
solo
una
'strategia
di
sopravvivenza'
adottata
dai
regimi
autoritari,
ma,
piuttosto,
un
tipo
di
sistema
politico
le
cui
istituzioni
e
regole
sfidano
ogni
logica
lineare
e
ogni
modello
di
democratizzazione.
In
tali
sistemi,
infatti,
anche
ogni
istanza
di
liberalizzazione
non
è
lineare
ma
piuttosto
ciclica
e di
adattamento:
quando
la
pressione
monta,
sia
all'interno
della
società
che
da
fuori,
il
regime
scioglie
i
suoi
vincoli
e
consente
una
maggiore
attività
civica
e
una
più
aperta
opposizione
elettorale,
fino
a
quando
quest'ultima
rischia
di
divenire
efficace
e,
di
conseguenza,
il
regime
torna
a
metodi
più
pesanti
di
brogli
alle
elezioni,
di
riduzione
dello
spazio
politico
e di
arresto
dei
"soliti
sospetti".
Dunque,
competizione
e
pluralismo
politico
sono
ammessi
in
questi
regimi
arabi
(tra
cui
Algeria,
Giordania,
Kuwait,
Marocco
e
Egitto)
solo
all'interno
di
regole
e
parametri
attentamente
redatti
per
garantire
che
gli
oppositori
del
regime
siano
svantaggiati
e
privi
di
potere.
Le
pratiche
elettorali
vengono
scelte
in
modo
da
ricalcare
i
termini
di
privilegio
personale
e
tribale
dei
candidati
e i
parlamenti
che
derivano
da
queste
elezioni
non
hanno
alcun
potere
reale
per
legiferare
o
governare,
cosicché
una
più
o
meno
illimitata
autorità
continua
a
risiedere
nelle
mani
di
re e
presidenti
ereditari.
In
questo
quadro,
i
partiti
di
opposizione
devono
affrontare
il
grave
dilemma
se
boicottare
queste
semi-buffonate
o
parteciparvi:
partecipandovi,
essi
rischiano
di
diventare
cooptati,
o
almeno
di
essere
visti
come
tali
da
un
elettorato
demotivato,
ma,
in
caso
contrario,
rischiano
di
perdere
anche
quella
pur
minima
influenza
che
possono
avere
sulle
decisioni
governative. In
ogni
caso
sono
perdenti
in
partenza.
Il
dilemma
tra
stare
dentro
i
sistema
essendone
conniventi
e
starne
fuori
essendo
esclusi
dai
processi
politici
tocca
anche
i
partiti
islamici
in
Paesi
come
Egitto,
Kuwait
e
Marocco,
in
cui
i
partiti
più
estremisti
hanno
deciso
in
prevalenza
per
la
seconda
ipotesi,
impegnandosi
piuttosto
nella
costruzione
di
reti
di
assistenza
sociale
e
religiosa
per
raccogliere
basi
a
lungo
termine
di
sostegno
popolare,
mentre
i
partiti
"laici"
hanno
ritenuto
opportuno
inserirsi
nel
sistema,
in
questo
modo,
però,
spesso
apparendo
solo
marginali
e
inetti
e,
conseguentemente,
finendo
per
favorire
involontariamente
la
linea
fondamentalista.
La
situazione
geopolitica
sfavorevole
per
lo
sviluppo
di
una
democrazia
araba
si
estende
ben
oltre
il
fattore
petrolio,
sebbene
esso
sia
la
principale
ragione
dell'interesse
delle
grandi
potenze
nella
regione. Il
supporto
esterno
ai
regimi
arabi,
storicamente
proveniente
in
gran
parte
dall'Unione
Sovietica,
ma
ora
soprattutto
da
Europa
e
Stati
Uniti,
costituisce
per
le
autocrazie
arabe
un
elemento
cruciale
in
termini
di
risorse
economiche,
di
assistenza
alla
sicurezza,
e di
legittimazione
politica.
In
alcune
circostanze,
per
i
regimi
di
Stati
non
produttori
di
greggio
come
l'Egitto,
la
Giordania,
o il
Marocco,
l'aiuto
straniero
è
come
il
petrolio:
un'altra
fonte
di
rendite
che
i
regimi
utilizzano
per
la
propria
sopravvivenza.
Come
nel
caso
dell'"oro
nero",
i
flussi
di
aiuti
nelle
casse
centrali
dello
Stato
contribuiscono
a
fornire
i
mezzi
sia
per
cooptare
che
per
reprimere. Basti
dire
che
dal
1975
a
oggi,
gli
aiuti
americani
allo
"sviluppo"
dell'Egitto
sono
arrivati
a
più
di
28
miliardi
dollari,
non
includendo
i
quasi
50
miliardi
di
dollari
in
aiuti
militari
arrivati
dopo
gli
Accordi
di
Camp
David
del
1978.
Meno
noto
è
l'enorme
flusso
di
aiuti
economici
e
militari
statunitensi
per
il
molto
meno
popoloso
Stato
di
Giordania,
che
dal
2001
ha
ottenuto
in
media
650
milioni
di
dollari
all'anno. Questi
aiuti
occidentali
rendono
possibili
per
i
regimi
politici
strategie
di
spesa
massiccia
sui
posti
di
lavoro
pubblico
senza
imporre
una
crescita
delle
tasse,
finendo
per
perpetuare
il
sistema
autocratico.
Due
altri
fattori
esterni
rafforzano
ulteriormente
l'egemonia
interna
delle
autocrazie
arabe. Uno
è il
conflitto
arabo-israeliano,
che
pende
continuamente
come
una
spada
di
Damocle
e
che
fornisce
un
pronto
e
comodo
mezzo
per
deviare
la
frustrazione
pubblica
lontano
dalla
corruzione
e
dalle
violazioni
dei
diritti
umani
dei
regimi
arabi,
targettizzando
la
rabbia
dei
cittadini
verso
l'esterno
affinché
essa
si
concentri
su
quella
che
i
mass
media
privati
e
statali
arabi
presentano
continuamente,
con
grande
enfasi
emotiva,
come
l'oppressione
israeliana
dei
palestinesi
e,
per
estensione
simbolica,
di
tutto
il
popolo
arabo.
Così,
se
anche
le
proteste
per
le
carenze
dei
regimi
arabi,
per
la
scarsa
qualità
dei
servizi
educativi
e
sociali,
per
la
mancanza
di
lavoro,
di
trasparenza,
di
responsabilità
e di
libertà,
sono
vietate,
le
opinioni
pubbliche
arabe
possono
sempre
sfogare
la
loro
rabbia
attraverso
la
stampa
e
per
le
strade
verso
un
obiettivo
sicuro:
la
condanna
di
Israele.
Il
secondo
fattore
esterno
è
dato
dalla
cooperazione
con
gli
altri
Stati
arabi,
in
un
meccanismo
tale
per
cui
essi
si
rafforzano
a
vicenda
nel
loro
autoritarismo
e
nelle
loro
tecniche
di
monitoraggio
e
repressione,
tanto
da
trasformare,
nel
corso
dei
decenni,
i 22
membri
della
Lega
Araba
in
un
club
di
autocrati
impenitenti:
di
tutte
le
principali
organizzazioni
regionali,
la
Lega
Araba
è,
probabilmente,
quella
meno
interessata
alle
norme
democratiche
e
alla
loro
promozione
e,
anzi,
nel
suo
statuto,
che
non
è
stato
modificato
in
mezzo
secolo,
manca
addirittura
qualsiasi
menzione
alla
democrazia
o ai
diritti
individuali.
Ciò
significa
che
non
vi è
alcuna
fonte
di
diffusione
democratica
o di
emulazione
all'interno
del
mondo
arabo,
con
effetti
di
esclusione
di
esso
da
ogni
processo
di
democratizzazione.
Su
queste
basi,
dobbiamo
pensare
che
il
mondo
arabo
sia
condannato
indefinitamente
ad
un
futuro
di
regimi
autoritari?
Forse
no.
Indubbiamente
primi
accenni
di
cambiamento
si
stanno
avendo
con
abbozzi
di
mobilitazione
popolare
in
Paesi
come
l'Egitto,
il
Libano,
e il
Marocco
e
nell'Autorità
Palestinese:
si
tratta
di
piccoli
segni
in
società
ancora
essenzialmente
autoritarie,
ma,
pure,
risultano
essere
assaggi
di
quello
che
una
società
democratica
potrebbe
essere.
Indubbiamente
ogni
sondaggio
dimostra
che
l'opinione
pubblica
di
queste
Nazioni
vuole
più
libertà
e
nuovi
strumenti
di
comunicazione
come
Facebook,
Twitter
o la
blogosfera
e la
rivoluzione
dei
telefoni
cellulari
stanno
già
dando
agli
arabi
nuove
opportunità
di
esprimersi
e di
mobilitarsi.
Tre
fattori
potrebbero
rendere
più
rapido
il
cambiamento
democratico
in
tutta
la
regione.
Uno
potrebbe
essere
la
nascita
di
un
primo
sistema
politico
democratico
nella
regione,
soprattutto
in
un
Paese
che
potrebbe
essere
visto
come
un
modello. Questo
ruolo
difficilmente
potrebbe
essere
svolto
dal
Libano,
dato
il
suo
intreccio
di
fazioni
estremamente
complicato,
la
frammentazione
del
potere
consociativo
e il
continuo
pesante
coinvolgimento
della
Siria
nella
sua
politica.
Ma,
ad
esempio,
l'Egitto
sembra
ad
un
passo
da
svolte
significative,
con
la
prossima
fine
del
trentennale
"regno"
personale
dell'ottantunenne
Hosni
Mubarak
e la
possibilità
di
un
adeguamento
a
strutturazioni
di
potere
più
moderne,
che
appare
oggi
imprescindibile.
In
secondo
luogo
sarebbe
necessario
un
cambiamento
nella
politica
degli
Stati
Uniti,
che
dovrebbero
riprendere
l'impegno
di
principio
di
incoraggiare
riforme
democratiche
non
solo
in
ambito
elettorale,
ma
anche
nel
rafforzare
l'indipendenza
della
magistratura
e la
trasparenza
governativa,
nonché
nell'ampliare
la
libertà
di
stampa
e
della
società
civile.
Se
questo
accadesse
e
fosse
rafforzato
in
qualche
misura
dalla
pressione
europea,
potrebbe
aiutare
a
svecchiare
sistemi
ormai
logori
e
invecchiati,
ma
prima
sarebbe
necessario
che
la
politica
statunitense
superasse
la
sua
visione
indifferenziata
dei
partiti
islamici
e si
impegnasse
a
supporto
di
quegli
attori
politici
che,
pur
legati
a
matrici
religiose,
fossero
disposti
a
lavorare
in
modo
più
chiaro
per
lo
sviluppo
di
norme
liberal-democratiche.
Infine,
il
fattore
più
importante
potrebbe
essere
un
prolungato
declino
nel
prezzo
mondiale
del
petrolio
(diciamo
alla
metà
dei
livelli
attuali).
Anche
se
il
più
piccolo
dei
regni
del
petrolio
del
Golfo
resterebbe
ricco
a
qualsiasi
prezzo
concepibile,
i
Paesi
più
grandi,
come
l'Arabia
Saudita,
sarebbero
obbligati
ad
affrontare
la
questione
di
un
nuovo
patto
politico
con
i
propri
cittadini
per
affrontare
i
nuovi
scenari.
Forse,
solo
a
questi
patti
sarà
possibile
vedere
risolta
l'anomalia
di
una
intera
area
del
mondo
senza
democrazia
reale,
un'anomalia
che
non
è
solo
una
minaccia
allo
sviluppo
dei
Paesi
arabi,
ma
anche
alla
stabilità
del
mondo
intero.
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