N. 10 - Ottobre 2008
(XLI)
la
democrazia assoluta
pensieri e...
riserve
di Cristiano Zepponi
Che la democrazia
parlamentare sia il sistema politico perfetto, o
quantomeno il più vicino all’umana idea di perfezione,
pare essere diventata di questi tempi una certezza
assodata, e insindacabile.
Un coro compatto ed
assordante non fa altro che riconoscergli meriti e
vantaggi, reali o presunti.
Confortati talvolta
dall’opinione del politologo di turno, i mezzi
d’informazione si mostrano quotidianamente uniti nella
rivendicazione del ‘meccanismo’, che si va plasmando
come una porta girevole da cui tutti devono, prima o
poi, entrare.
E allora, la complessa
macchina della politica si ammanta della parola
democrazia (o ‘democratico’) come un rito obbligato,
come ad accettare le regole del gioco che si è deciso -
o si presume - essere il migliore.
La democrazia, nelle sue
varie manifestazioni, corrisponderebbe dunque all’ultimo
e più nobile stadio dell’evoluzione politica, definitivo
e immutabile. Ma questa prospettiva appare, ai nostri
occhi, nient’altro che provvidenziale ed ingenua.
Presupporrebbe infatti che lo sviluppo storico segua un
percorso diretto, orfano di errori e deviazioni, proteso
verso una mèta distinguibile ed unanimemente accettata,
inesorabile approdo di un obbligato cammino. Ma così non
è. La storia - che qualcuno arriva a definire, non senza
qualche ragione, un’interminabile sfilata di orrori –
brulica di vicoli ciechi, e mulattiere impervie, e solo
di rado sembra recuperare quel filo che poi si
ingarbuglia e disperde, e riaffiora leggero negli errori
come nei progressi, e conserva in ambedue la sua
essenza. La storia non è - a nostro parere, come ovvio,
e di qualche più illustre studioso – leggibile in
termini di morale.
La democrazia non è
‘migliore’ della forma oligarchica, ad esempio, o di
quella totalitaria. Risponde meglio a determinate
esigenze del momento storico in cui si afferma, di
sicuro; ma sono esigenze umane, dopotutto. E come tali,
possono cambiare.
La democrazia stessa si è
fatta dunque ‘assoluta’, e la critica ai suoi limiti è
scomparsa o quasi dalla discussione pubblica. Noi, in
questa sede, non intendiamo commettere l’errore opposto,
decretandone il fallimento. Nostro intento è quello di
dimostrare che, al pari degli altri sistemi, conosce dei
confini ‘naturali’, come si diceva per le nazioni. Sta
ad ognuno, poi, decidere a cosa può rinunciare.
La guerra (intendendo
anche la preparazione ad essa), checché ne dicano i
moralisti, si presta perfettamente al ruolo di cartina
di tornasole capace di rivelare - e ‘quantificare’ –
alcune caratteristiche di un sistema.
La stabilità, per esempio.
E poi la rapidità decisionale, la volontà, la
compattezza, la resistenza, la capacità organizzativa,
militare, ideologica.
Sotto tutti questi
aspetti, a nostro avviso, il sistema democratico cede
sovente dinnanzi agli Stati totalitari, come dimostrato
dagli avvenimenti degli anni ’30 e ’40, e poi della
guerra fredda.
Corriamo con la mente alla
politica hitleriana degli anni ’30, una successione (o,
per meglio dire una ‘climax’ ascendente) di guadagni
politici, militari e territoriali ai danni delle
vacillanti potenze occidentali. Si potrebbe obiettare
che la Francia era una potenza che s’indeboliva, ed in
effetti lo era. Ma la Gran Bretagna vantava il più
solido ed organico, oltre che più vecchio, sistema
parlamentare del Vecchio Continente. Eppure, in quel
caso l’elìte al potere minimizzò costantemente la
portata della minaccia tedesca, come del resto la libera
stampa, per seguire i pareri di un sentimento diffuso
che, alla luce dei fatti, sbagliava di grosso. Dunque,
ne possiamo dedurre che l’opinione pubblica - al pari
dei sovrani e dei profeti – commette errori quasi
irreparabili: la Gran Bretagna si salvò perché era
un’isola, e sapeva di esserlo.
Oppure, possiamo pensare
alle fazioni che dividevano il campo repubblicano -
detentore di un’innegabile vittoria morale, per quanto
macchiata da una serie notevole d’eccessi – che si
fecero travolgere dai più centralizzati nazionalisti
riuniti sotto la bandiera del generale Franco, mentre
comunisti ed anarchici si sparavano addosso in una
demenziale guerra nella guerra. Neppure il determinato
popolo cileno seppe tener testa alle milizie
contro-rivoluzionarie; ed a Cuba continua a sopravvivere
un regime autoritario molto più debole dell’avversario
che lo sorveglia.
Non si tratta di una
regola, certo: la storia ne è piuttosto avara. Ma sembra
che si possa ammettere una quantità di esempi quantomeno
cospicua.
Lo stesso si può dire
delle crisi economiche, particolarmente importanti in
virtù del fatto che i sistemi politici sono sempre, in
effetti, sistemi economici. La crisi del ’29, che resta
(per poco?) la peggiore degli ultimi decenni, piegò le
moderate strutture delle democrazie parlamentari europee
ed americane, fino al punto di modificare gli equilibri
elettorali, i rapporti diplomatici, i consumi. La
Germania hitleriana ne fu figlia e fruitrice. Eppure,
una volta sbocciata se la mise alle spalle in fretta,
con le sue autostrade ed i suoi armaioli, oltre che con
gli altri discutibili metodi che avrebbero impedito
un’emulazione parlamentare. La Russia sovietica, che
divideva con le democrazie le radici illuministe, era a
tutti gli effetti uno Stato totalitario. La sua
‘autarchia’ - decisamente più efficiente e brutale di
quella italica - la risparmiò dalla crisi di sistema
che sembrava mettere in dubbio l’esistenza stessa del
sistema parlamentare, nei confronti del quale si
moltiplicavano le voci critiche.
L’esercito, poi, sembra
mostrare – pur con rilevanti eccezioni – una spiccata
fedeltà agli autoritarismi, specie se adeguatamente
motivato e ‘caricato’ ideologicamente. Forse, ciò può
dipendere dalla comune origine politica di generali e
aspiranti dittatori, che spesso crescono alla stessa
scuola.
Nei regimi autoritari,
poi, la conflittualità sociale tende a scemare, in parte
perché narcotizzata, in parte perché espatriata, in
parte perché massacrata: il ‘biennio rosso’ crollò così
sotto i colpi delle squadracce fasciste, in un arco di
tempo straordinariamente breve.
Altre considerazioni.
Canfora ha scritto che “in realtà tutte le aporie che
sorgono dai fallimentari tentativi di dare una
definizione peculiare della ‘democrazia’ […] nascono dal
fatto che non volentieri si prende atto del dato
sostanziale: che cioè anche le cosiddette democrazie si
fondano sul predominio di elìtes”.
In effetti, qualsiasi tipo
di sistema contiene in sé il principio oligarchico (come
d’altra parte quello monarchico, per quanto ciò possa
inquietare); constatato ciò, possiamo chiederci come
operano queste minoranze, e qual è il loro ruolo. I
poteri decisionali, nell’ultimo secolo, si sono spostati
in larga misura fuori dai Parlamenti, dove inizialmente
avevano deciso di dare battaglia, ma restano nelle mani
del capitale finanziario internazionale, sfortunatamente
privo di una qualunque legittimazione elettorale, ma
assiso sull’onnicomprensivo concetto di “competenza”; ci
si è fatti più discreti, negli ultimi tempi.
D’altro canto, regimi
parlamentari si prestano assai bene – come del resto i
totalitarismi – alla manipolazione dell’informazione, ed
alla creazione di monopoli. La creazione di quell’oligarchia
finanziaria di cui parlavamo prima è stata garantita
proprio dal fallimento statale nell’opera di
individuazione di consolidati modelli d’intervento per
limitare la formazione delle concentrazioni di potere
che negli USA chiamano trusts.
A sua volta, quell’oligarchia
ha afferrato assai bene le reali potenzialità
dell’immagine e del simbolo, e non ha esitato ad usarle
a suo vantaggio, circondandosi di un coro di portavoce
travestiti da giornalisti.
Lo si è visto in occasione
della guerra del Kosovo del 1999, quando un’opinione
pubblica massicciamente contraria dovette subire una
gigantesca campagna propagandistica, volutamente
artefatta al fine di aumentare la reale portata (che già
di per sé era sufficiente) dei crimini serbi. Le
smentite gocciolarono lentamente, nei mesi successivi;
ma la guerra, nel frattempo, era stata legittimata fuori
dai Parlamenti.
L’informazione, peraltro,
mostrò di non aver imparato la lezione: “ci siamo fatti
fregare”, ripeterono in coro i giornalisti americani
scoprendo non solo che “Saddam diede istruzioni che
l’Iraq non avesse a che fare con Al Qaeda […] respinse
tutte le richieste d’aiuto e sia nel 1998 sia nel 2002
rifiutò di incontrare un altro uomo di Bin Laden”, come
riferisce la commissione Servizi di sicurezza del Senato
americano a conclusione della sua indagine, l’11
settembre del 2006; ma anche che l’Iraq non vantava gli
arsenali chimici e batteriologici ricostruiti dalla
stampa occidentale, e sarebbe stato più saggio dare
un’occhiata alle armerie anglo-americane per scovarne in
abbondanza (“Willy Pete”, nel gergo militare il nome del
fosforo bianco), adeguatamente annidati nella placida
categoria dei bengala illuminanti.
“Personalmente sono
rimasto scioccato da quanto acritica è stata la
copertura dei media in questa guerra” riferì il
direttore della Bbc, Greg Dyke, tornando da New York a
metà maggio del 2003. Che si tratti di un regime
parlamentare o meno, la guerra è sempre uno sporco
affare, in effetti, ed è impossibile applicargli la
discriminante ‘morale’. L’invasione dell’Iraq, attuata
da una repubblica presidenziale di tradizione
occidentale, non appare maggiormente giustificabile di
quella della Polonia nel 1939, attaccata da un regime
nazional-socialista di tipo dittatoriale; e forse lo è
di meno. Le bufale, allora, servirono solo a
giustificare il conflitto - che si combatteva quantomeno
per una dichiarata rivendicazione territoriale - e non a
preparargli il campo. Anche in questo caso, manovrando
opportunamente, la democrazia si svuota di significato,
e diventa una parola.
A questo punto volgiamo lo
sguardo alle vie adottate dalle elìtes per
imporre l’esclusione dal mercato politico di quelle
maggioranze che potrebbero metterne in dubbio il ruolo,
e le mansioni. Innanzitutto, se scegliamo di parlare di
‘mercato’ è perché il sistema elettorale si configura
esattamente così: il voto è una merce come le altre,
accaparrabile a patto di disporre di ingenti risorse
finanziarie, sociali, religiose e politiche. Ma nelle
democrazie occidentali questo sistema passa sotto
silenzio, divenendo la regola. In questo modo, le
preferenze convergono a sostegno dei ceti medio-alti - i
soli che se lo possono permettere – tradizionalmente
moderati. A ciò contribuisce la mortificante tendenza
contemporanea a razionalizzare la volontà popolare,
limitando la possibilità di scelta al “voto utile”
(formula recente). Ne consegue un orientamento in
direzione del centro (che potrebbe sostituire la parola
“utile”, perché questo significa), vera arena politica
dei tempi moderni, che vede aumentare a dismisura il
proprio ruolo. Se combiniamo i due elementi (ceti
medio-alti, rivolti verso il centro) possiamo
comprendere come il meccanismo smentisca sé stesso,
limitando l’arco delle opzioni fino a perpetrare il
dominio di oligarchie ben nascoste. La sinistra è
l’unica che sembra non accorgersene, e di non avere la
forza per farlo.
A ciò va aggiunto che
durante la guerra fredda il confronto fra blocchi
imponeva una serie di “aperture” politiche atte ad
affermare la superiorità del modello occidentale, più
“democratico” e dunque – logicamente, per molti – più
libero. Il concetto proporzionale “un uomo/un voto”
apparve ai più come il genuino depositario dell’ideale
democratico; e perciò, il sistema maggioritario entrò in
crisi, come gli altri meccanismi limitativi che allora
(come oggi) andavano per la maggiore: lo sbarramento e
l’esclusione dalla legalità di alcuni partiti (come
quello comunista).
Terminata l’emergenza,
però, la voce delle minoranze – garantita dal
proporzionale – si è da subito scontrata con la
rinnovata volontà di sopirne l’inquietudine escludendole
tout-court dalla rappresentanza politica, che stavolta
prendeva le mosse dalla constatazione dell’instabilità
di gran parte dei sistemi democratici occidentali.
In un solo colpo, le
conquiste d’inizio secolo (tra le quali il suffragio
universale, a lungo avversato – non a caso – dalle
minoranze) subirono una serie di colpi devastanti,
miranti a “correggerne i difetti” per favorire i ceti
medi, unici depositari dei diritti politici: si legge
così la vittoria del principio maggioritario al
referendum del 1993. La governabilità trionfò
sull’effettiva rappresentanza.
Si legge così, d’altra
parte, l’utilizzo di pratiche restrittive negli Usa.
Qui, dove i princìpi echeggiano costantemente, ed il
1776 splende d’idealismo avventuroso, la prassi
elettorale prevede che “il certificato elettorale non
viene fatto giungere ai singoli cittadini, come accade
in Europa; sono i cittadini che debbono andarlo a
richiedere, farsi parte sollecita. E una larghissima
parte non lo fa: per molte ragioni, tra le quali spicca
ovviamente l’assenteismo politico delle comunità povere
e marginali. Peraltro, tra coloro che il certificato lo
ritirano, moltissimi ugualmente non votano. Insomma il
vincitore rappresenta una modesta minoranza”, come
spiega Canfora. La principale potenza del pianeta, che
minaccia giornalmente di esportare la democrazia,
elimina così dal mercato elettorale gli ultimi, e gli
“stranieri”. Non solo.
Nel novembre 2000, le
elezioni presidenziali hanno dimostrato la forza
reale, e tangibile, delle minoranze.
Solitamente, parlarne significa adottare termini
generici, ed espressioni misteriose, che sembrano
indicare tutto e niente, ed il dito e la luna insieme.
Ma quella volta emersero dalle tenebre come un blocco
compatto, unito se non altro da una pratica negativa:
negare cioè alle minoranze etniche il sostegno di un
solo senatore, necessario per accertare l’esclusione
forzosa di quei gruppi dalla competizione. Nessuno si
alzò per appoggiarli, mentre Al Gore – nella duplice
veste di sfidante e presidente della Corte Suprema –
seguitava ad ascoltare gli appelli dei rappresentanti di
quelle minoranze rabbiose.
Le conseguenze di quel
colpo di stato – così lo definì Al Gore – portano i nomi
del protocollo di Kyoto, dello scudo spaziale, dell’11
settembre, dell’Iraq. Bush vinse le elezioni con 220
mila voti in meno dello sfidante (lo 0,5%) a livello
nazionale, ma con 600 voti in più in Florida, lo Stato
nevralgico; si voleva quel presidente, e si
ottenne quanto preteso; la resa di Al Gore la disse
lunga sulla forza reale di quell’oligarchia, e sulle sue
pretese di dominio.
Chiudiamo con un pensiero:
la parola democrazia (noi abbiamo usato
indifferentemente questo termine, o quello di regime
parlamentare, che nel linguaggio corrente acquistano lo
stesso significato) riesce ad attrarre un consenso largo
e compatto - ed il consenso resta ancora il parametro
principale dei regimi politici - come accaduto con la
parola chiave dell’ottocento, “Costituzione”. Garcìa
Màrquez ha parlato, al riguardo, di “fondamentalismo
democratico”. Ma non c’è magia in queste parole,
nonostante il continuo tentativo di assegnargliela
d’ufficio.
La democrazia conosce
difetti e storture, al pari degli altri sistemi, fin
dalla sua nascita – nell’Atene classica. Ma anche ad
Atene, i ceti non liberi erano esclusi dalla
rappresentanza. “Nel fatto è fatale la prevalenza di una
minoranza organizzata, che obbedisce ad un unico
impulso, sulla maggioranza disorganizzata. La forza di
qualsiasi minoranza è irresistibile di fronte ad ogni
individuo della maggioranza, il quale si trova da solo”,
scrisse Gaetano Mosca.
Marx poteva anche non
essere marxista, d’accordo; ma Atene, di sicuro, non era
una democrazia.
Riferimenti bibliografici:
Canfora L.,
“Critica della retorica democratica”
Mosca G.,
“La classe politica”
Albrecht-Carriè, “Storia diplomatica d’Europa”
Norma
Rangeri, “Chi l’ha vista?”
Eduard Meyer, “Der Staat, sein Wesen und
seine Organisation”
Luttwak E.,
“la dittatura del capitalismo” |