N. 87 - Marzo 2015
(CXVIII)
La decolonizzazione italiana
La geopolitica del Corno d’Africa e della Libia
di Alessandro Di Meo
La
fine
del
colonialismo
italiano
avvenne
con
modalità
differenti
rispetto
ai
processi
che
portarono
all’indipendenza
delle
colonie
gestite
dalle
altre
potenze
europee;
l’Italia,
infatti,
non
affrontò
una
vera
e
propria
“decolonizzazione”,
ma
perse
tutte
le
sue
dipendenze
coloniali
in
seguito
alla
sconfitta
subita
nella
Seconda
Guerra
Mondiale.
Nel
1940,
quando
il
regime
fascista
decise
l’entrata
in
guerra
del
paese,
l’Impero
coloniale
italiano
comprendeva
la
Libia,
l’Africa
Orientale
Italiana
(Eritrea,
Etiopia
e
Somalia
italiana),
più
il
Dodecaneso
greco
e la
Concessione
di
Tientsin,
l’unica
dipendenza
coloniale
italiana
in
Asia.
Nel
1941
l’Africa
Orientale
Italiana
fu
occupata
dagli
Inglesi
che
ne
assunsero
l’amministrazione
diretta;
l’Etiopia,
liberata,
fu
restituita
all’imperatore
Hailé
Selassié
I.
La
Libia,
teatro
degli
scontri
più
duri
tra
l’armata
italo
–
tedesca
e le
forze
inglesi
di
stanza
in
Egitto,
fu
occupata
nel
gennaio
del
1943
in
seguito
ad
una
controffensiva
britannica;
nel
settembre
dello
stesso
anno,
infine,
i
Giapponesi
occuparono
la
concessione
di
Tientsin.
Alla
fine
del
conflitto,
i
governi
in
carica
cercarono
di
riottenere
le
ex
colonie,
non
per
motivi
di
prestigio
diplomatico,
ma
per
il
timore
che
la
loro
perdita
avrebbe
potuto
provocare
tensioni
interne
paragonabili
a
quelle
attraversate
dall’Italia
nel
1919;
la
diplomazia
italiana
strinse
a
tal
fine
rapporti
con
Londra
e
con
Washington,
ma
le
trattative
non
ebbero
esito,
anche
perché
le
colonie
si
trovavano
in
aree
strategiche
–
Mediterraneo,
Mar
Rosso,
Oceano
Indiano
–
ormai
di
fondamentale
importanza
nel
nuovo
scenario
geopolitico
che
si
stava
delineando,
dominato
dalla
contrapposizione
tra
Stati
Uniti
e
Unione
Sovietica.
Le
incertezze
della
diplomazia
italiana,
che
non
mantenne
una
condotta
costante
e
modificò
continuamente
le
proprie
richieste,
causarono
il
fallimento
delle
trattative;
inizialmente
venne
infatti
avanzata
la
richiesta
della
restituzione
delle
colonie,
ma
di
fronte
alle
opposizioni
anglo
–
statunitensi
la
diplomazia
italiana
si
limitò
a
richiedere
solo
alcuni
territori,
una
proposta
che
ovviamente
contrariò
le
popolazioni
locali.
Alla
fine,
il
governo
italiano
decise
di
sostenere
l’indipendenza
totale
delle
sue
ex
colonie,
ma
aveva
ormai
perso
sia
la
fiducia
delle
potenze
vincitrici
della
guerra,
sia
il
sostegno
dei
movimenti
indipendentisti,
che
nel
caso
delle
colonie
italiane
furono
comunque
molto
scarsi.
In
realtà,
l’Italia
cercò
di
riottenere
le
sue
amministrazioni
in
un
periodo
segnato
dalla
diffusione
delle
ideologie
indipendentiste
nelle
colonie
inglesi
e
francesi;
nel
1947
l’India
ottenne
l’indipendenza
dal
Regno
Unito.
La
questione
delle
colonie
italiane
fu
inizialmente
discussa
nella
Conferenza
di
Londra,
tenutasi
nelle
capitale
inglese
nell’autunno
del
1945,
senza
però
ottenere
risultati
concreti;
accantonata
anche
alla
successiva
Conferenza
delle
Quattro
Potenze
del
1946,
fu
definitivamente
risolta
con
la
rinuncia
dell’Italia
al
mantenimento
delle
ex
colonie
con
il
Trattato
di
Pace
del
1947,
ma
la
loro
sorte
rimase
oggetto
di
dibattiti
politici
e
diplomatici
per
altri
due
anni.
Nelle
trattative
che
portarono
al
Trattato,
il
destino
delle
colonie
fu
inizialmente
discussa
nella
riunione
ministeriale
del
2
agosto
1945,
indetta
da
De
Gasperi,
cui
parteciparono,
tra
gli
altri,
Giovanni
Visconti
Venosta
(allora
sottosegretario
agli
Esteri)
che
propose
l’amministrazione
fiduciaria
delle
colonie,
e il
diplomatico
Enrico
Cerulli,
che
invece
si
oppose
alla
cessione
dei
territori
d’oltremare.
La
decisione
sulla
sorte
delle
colonie
italiane
rimase
sospesa;
l’unico
articolo
del
Trattato
che
se
ne
occupava
(art.
23)
stabiliva
infatti
la
rinuncia
italiana
“A
ogni
diritto
e
titolo
sui
possedimenti
territoriali
italiani
in
Africa
e
cioè
la
Libia,
l’Eritrea
e la
Somalia
italiana”,
ma
decretava
allo
stesso
tempo
che
la
loro
sorte
sarebbe
stata
decisa
da
una
Commissione
composta
dai
rappresentanti
delle
quattro
potenze
vincitrici.
Sulla
base
di
questa
dichiarazione,
il
Governo
italiano
tentò
di
ottenere
almeno
il
mandato
fiduciario
sulle
sue
ex
colonie,
fino
alla
loro
indipendenza;
fu
istituita
una
Commissione
Internazionale
con
il
compito
di
esaminare
la
situazione
politica,
economica
e
sociale
delle
colonie
italiane,
stabilendone
infine
la
sorte.
La
Commissione
lavorò
nel
primo
semestre
del
1948
e
propose
l’indipendenza
delle
colonie
italiane,
ma
la
decisione
finale
fu
demandata
all’Assemblea
delle
Nazioni
Unite
a
causa
dell’opposizione
del
governo
italiano
e
del
disaccordo
tra
i
rappresentanti
delle
Quattro
Potenze.
In
vista
della
discussione
finale,
i
ministri
degli
Esteri
italiano
Carlo
Sforza
e
inglese
Ernest
Bevin
elaborarono
un
progetto,
denominato
“Compromesso
Bevin
–
Sforza”,
sulla
sorte
delle
ex
colonie
italiane,
da
sottoporre
all’Assemblea
delle
Nazioni
Unite;
il
compromesso
prevedeva
la
divisione
della
Libia
nelle
sue
tre
provincie
originarie,
che
sarebbero
state
affidate
in
amministrazione
fiduciaria
al
Regno
Unito
(Cirenaica),
alla
Francia
(Fezzan)
e
all’Italia
(Tripolitania),
mentre
per
l’Eritrea
si
profilava
la
federazione
con
l’Etiopia.
La
Somalia
era
invece
al
centro
delle
attenzioni
inglesi,
perché
la
Gran
Bretagna
progettava
la
formazione
di
uno
stato,
definito
“Grande
Somalia”,
comprendente
la
Somalia
italiana,
il
Somaliland
britannico,
Gibuti,
la
parte
settentrionale
del
Kenya
e la
regione
etiope
dell’Ogaden,
la
cui
popolazione
era
in
maggioranza
somala.
Il
Compromesso
Bevin
–
Sforza
fu
respinto
per
un
solo
voto
e
l’Assemblea
delle
Nazioni
Unite,
dopo
aver
riesaminato
la
situazione
delle
ex
colonie
italiane,
approvò
la
risoluzione
289
del
21
novembre
1949,
con
cui
fu
decisa
l’indipendenza
della
Libia
a
partire
dal
1951
e la
federazione
dell’Eritrea
all’Etiopia;
la
Somalia
fu
affidata
in
amministrazione
fiduciaria
decennale
all’Italia
nel
1950,
fissando
al
1960
la
data
per
l’indipendenza
della
ex
colonia.
La
Libia
dichiarò
la
sua
indipendenza
il
24
dicembre
1951,
quando
Idris
al
Senussi,
capo
dei
Musulmani
Senussi,
venne
proclamato
re
dello
Stato
Federale
Libico;
nel
1963
venne
modificata
la
Costituzione
e il
governo
federale
fu
abolito,
sostituito
con
dieci
nuovi
governatorati
retti
da
un
amministratore
di
nomina
regia.
La
scoperta
di
ricchi
giacimenti
di
petrolio
nel
deserto
libico,
avvenuta
nel
1963,
modificò
completamente
l’economia
del
paese
e fu
tra
le
cause
che
provocarono
la
caduta
della
monarchia
senussita;
l’economia
libica
era
infatti
gestita
prevalentemente
dagli
occidentali,
soprattutto
italiani
(nel
settore
agricolo
e
imprenditoriale),
mentre
lo
sfruttamento
dei
giacimenti
di
petrolio
era
affidato
a
compagnie
inglesi
e
statunitensi.
Nel
1953,
inoltre,
il
governo
libico
concesse
alcune
basi
militari
al
Regno
Unito
e
agli
Stati
Uniti,
in
cambio
di
aiuti
economici
e
alimentari;
il
diffuso
malcontento
per
la
gestione
straniera
dell’economia
libica,
unito
ad
un
crescente
nazionalismo,
portò
ad
un
colpo
di
stato
militare
che
rovesciò
la
monarchia
senussita
e
proclamò
la
Repubblica
di
Libia
(1969).
Il
regime
di
Muammar
Gheddafi
avviò
subito
una
politica
fortemente
nazionalista,
che
culminò
con
l’espulsione
degli
italiani
residenti
in
Libia,
la
richiesta
del
ritiro
delle
forze
militari
straniere
stanziate
nel
paese
e la
nazionalizzazione
delle
imprese
gestite
dagli
stranieri,
compresi
i
giacimenti
petroliferi;
l’amministrazione
del
paese,
l’educazione
e la
cultura
nazionali
furono
sottoposte
ad
un
processo
di
forte
arabizzazione,
fino
all’introduzione
della
legge
coranica
nel
1977.
Negli
anni
Settanta
il
regime
libico
inasprì
i
suoi
caratteri
nazionalistici,
intervenendo
nelle
crisi
interne
degli
stati
confinanti
– in
particolare
con
il
Ciad
per
il
possesso
della
Striscia
di
Azou
– e
avvicinandosi
alla
Siria;
nel
1979
sostenne
apertamente
la
rivoluzione
islamica
in
Iran.
Dopo
la
rottura
con
i
paesi
occidentali,
negli
anni
Ottanta,
la
Libia
avviò
un
difficile
processo
di
reinserimento
nella
diplomazia
internazionale
a
partire
dalla
seconda
metà
degli
anni
Novanta;
nei
confronti
dell’Italia,
il
regime
di
Gheddafi
richiese
continuamente
un
risarcimento
economico
per
i
danni
derivanti
al
paese
dalla
colonizzazione
italiana
e
per
i
crimini
di
guerra
durante
la
repressione
delle
rivolte
in
Cirenaica.
Il
trattato
di
Bengasi,
chiuso
nel
2008,
prevedeva
un
risarcimento
di
cinque
miliardi
di
dollari
per
la
Libia
e la
costruzione
di
infrastrutture
nel
territorio
libico
a
carico
dell’Italia;
due
anni
dopo,
la
rivolta
legata
alle
Primavere
Arabe
e la
guerra
civile
che
ne è
seguita
hanno
portato
alla
caduta
del
regime
di
Gheddafi
e
alla
rottura
dell’unità
nazionale
libica,
che
rendono
la
Libia
attuale
un
paese
diviso
tra
molte
fazioni
tribali,
cui
si
sono
aggiunte
le
milizie
islamiche
che
hanno
assunto
il
controllo
di
alcune
grandi
città
come
Derna
e
Bengasi.
L’Italia
assunse
l’amministrazione
fiduciaria
sulla
Somalia
nell’aprile
1950;
l’istituto
della
tutela
fiduciaria
(trusteeship
system)
fu
impiegato
dall’Onu
al
fine
di
promuovere
il
rafforzamento
di
forme
di
autogoverno
interne
alle
ex
colonie,
affidando
al
contempo
tale
responsabilità
alle
Potenze
coloniali;
l’amministrazione
fiduciaria
derivò
dal
“sistema
dei
mandati”
utilizzato
dalla
Società
delle
Nazioni
al
termine
della
Prima
Guerra
Mondiale.
A
differenza
delle
altre
potenze,
l’Italia
non
aveva
mantenuto
nelle
sue
colonie
una
rete
di
alleanze
con
le
fazioni
locali,
indispensabile
per
avviare
relazioni
diplomatiche
stabili,
non
mancarono
neppure
incidenti
con
le
popolazioni
del
luogo;
nel
1948
scoppiarono
alcuni
tumulti
a
Mogadiscio,
le
cui
cause
sono
tuttora
oscure.
L’amministrazione
fiduciaria
della
Somalia
fu
gestita
dai
governi
centristi,
coadiuvati
da
un
organo
consultivo,
detto
Unacs
(United
Nations
Advisory
Council
of
Somalia),
che
comprendeva
rappresentanti
provenienti
dall’Egitto,
dalle
Filippine
e
dalla
Colombia;
in
vista
dell’ottenimento
dell’indipendenza,
l’Italia
formò
i
dirigenti
locali
e
nel
1956
fu
eletto
il
primo
Parlamento
somalo,
cui
seguì
l’attribuzione
al
governo
della
Somalia
della
difesa
nazionale
e la
gestione
della
politica
estera
del
paese,
nel
1959.
I
successi
che
conseguì
l’amministrazione
italiana
furono
soprattutto
nel
campo
dell’istruzione
e
dell’assistenza
sanitaria,
mentre
lo
sviluppo
economico
della
Somalia
rimase
limitato
a
causa
della
povertà
del
territorio,
privo
di
risorse
naturali,
cui
si
aggiunsero
la
mancanza
di
infrastrutture
–
molte
erano
state
asportate
dagli
inglesi
durante
l’occupazione
militare
– e
il
fallimento
dei
tentativi
di
rendere
sedentaria
una
popolazione
prevalentemente
dedita
al
nomadismo.
Queste
peculiarità
della
struttura
sociale
somala
non
permisero
né
uno
sviluppo
democratico
né
una
vera
unità
nazionale
della
Somalia.
Le
prime
elezioni
libere
della
Somalia
furono
vinte
dalla
Lega
dei
Giovani
Somali,
che
durante
l’amministrazione
fiduciaria
avevano
progressivamente
abbandonato
le
posizioni
antiitaliane,
ma
sostennero
sempre
con
convinzione
la
necessità
di
un’unione
dei
popoli
somali;
il
nazionalismo
della
Lega
portò,
nel
corso
degli
anni
Sessanta,
a
numerosi
scontri
con
tutti
gli
stati
confinanti
della
Somalia.
Nel
1960
la
Somalia
italiana
e il
Somaliland
britannico
raggiunsero
entrambi
l’indipendenza
e si
unirono
nella
Repubblica
di
Somalia;
seguì
un
decennio
di
apparente
stabilità,
segnato
però
da
tensioni
con
i
paesi
confinanti
e da
una
crescente
instabilità
interna.
L’Afis,
tuttavia,
non
era
riuscita
a
risolvere
il
grave
problema
delle
frontiere
tra
Somalia
ed
Etiopia,
demandandolo
all’Onu;
il
governo
italiano
non
voleva
infatti
una
rottura
diplomatica
né
con
Mogadiscio
né
con
Addis
Abeba,
ma
l’assenza
di
un
arbitrato
internazionale
e
l’ambigua
condotta
italiana
provocarono,
di
fatto,
una
situazione
di
stallo,
ancora
oggi
irrisolta.
Nel
1964
scoppiò
una
prima
guerra
tra
Etiopia
e
Somalia,
preceduta
da
alcuni
incidenti
di
confine;
la
Somalia
richiese
all’Italia
assistenza
militare,
ma
il
governo
italiano
lasciò
cadere
la
trattativa
e
Mogadiscio
ricevette
il
sostegno
dell’Unione
Sovietica,
che
fornì
l’esercito
somalo
di
armi
e
uomini.
Una
seconda
guerra
scoppiò
nel
1966,
acuita
dal
nazionalismo
somalo
che
portò
il
paese
a
scontrarsi
anche
con
il
Kenya
e a
rivendicare
Gibuti
dalla
Francia;
due
anni
più
tardi
i
conflitti
vennero
composti,
ma
la
situazione
interna
della
Somalia
era
ormai
caotica.
Nel
1969,
con
un
colpo
di
stato
militare,
prese
il
potere
Siad
Barre;
il
regime
nazionalizzò
le
banche
e le
imprese
straniere
operanti
in
Somalia,
introdusse
una
linea
economica
improntata
al
socialismo
e
avviò
un
progressivo
avvicinamento
all’Unione
Sovietica,
inasprendo
al
tempo
stesso
l’ideologia
nazionalista
somala
che
provocò
tensioni
con
i
paesi
confinanti
con
la
Somalia.
Nel
1977
i
contrasti
con
l’Etiopia
per
il
possesso
della
regione
dell’Ogaden
culminarono
in
un
conflitto
aperto
tra
i
due
paesi;
inizialmente
Mogadiscio
si
limitò
a
sostenere
la
guerriglia
somala
nell’Ogaden.
La
caduta
della
monarchia
etiopica,
l’instaurazione
del
regime
di
Menghistu
–
che
ottenne
il
sostegno
dell’Unione
Sovietica
–
l’esplosione
simultanea
di
insurrezioni
indipendentiste
in
Etiopia
e le
caute
aperture
dell’amministrazione
statunitense
spinsero
Barre
ad
intervenire
direttamente
nella
guerra;
tuttavia,
mentre
gli
Stati
Uniti
e i
paesi
europei
decisero
di
non
intervenire
nel
conflitto
e
isolarono
la
Somalia,
l’Urss
sostenne
massicciamente
l’esercito
etiope,
che
riuscì
a
restaurare
il
suo
controllo
sull’Ogaden.
La
Somalia,
sconfitta
e
isolata
diplomaticamente,
tentò
allora
un
più
deciso
riavvicinamento
con
i
paesi
dell’Occidente,
mantenendo
però
un’economica
di
tipo
socialista;
Siad
Barre
riuscì
a
conservare
il
potere,
alternando
periodi
di
dure
repressioni
a
momenti
di
cauta
apertura
politica.
Negli
anni
della
Guerra
Fredda,
la
contrapposizione
tra
il
blocco
sovietico
e lo
schieramento
occidentale
in
Africa
fu
particolarmente
intensa
nelle
regioni
meridionali
del
continente
e
nel
Corno
d’Africa,
dove
le
ex
colonie
italiane,
una
volta
conseguita
l’indipendenza,
si
scontrarono
tra
loro
in
numerosi
conflitti.
Nel
1960
il
governo
etiope
privò
l’Eritrea
di
ogni
autonomia
e la
ridusse
a
provincia;
ne
scaturì
una
guerriglia
che
negli
anni
successivi
si
strutturò
in
movimento
armato,
con
l’obbiettivo
di
conseguire
l’indipendenza.
La
politica
del
negus,
tesa
da
un
lato
a
favorire
la
modernizzazione
industriale
del
paese
e la
crescita
economica,
ma
ferma
nel
mantenere
la
monarchia
assoluta
e la
politica
centralizzatrice
dell’Etiopia,
non
suscitarono
grandi
consensi
né
tra
la
popolazione
né
all’interno
dell’aristocrazia
etiope
e
nel
1962
vi
fu
un
primo
tentativo
di
golpe
da
parte
di
alcuni
ufficiali,
ma
la
fedeltà
dell’esercito
verso
la
monarchia
ne
causò
il
fallimento.
Gli
italiani
residenti
in
Etiopia
assunsero
in
quegli
anni
incarichi
di
rilievo
nell’economia
etiope,
ma
l’ambigua
condotta
dei
governi
centristi
verso
il
paese
africano
non
consentì
all’Italia
di
ottenere
commesse
nella
ricostruzione
degli
anni
Cinquanta;
nel
1951
vennero
stabiliti
i
primi
rapporti
diplomatici
cordiali
tra
Roma
e
Addis
Abeba,
ma
la
decisione
di
non
restituire
alcuni
monumenti
etiopi
trafugati
dal
fascismo,
come
la
Stele
di
Axum,
e la
ferma
volontà
di
non
versare
il
risarcimento
economico
spinse
il
governo
etiope
a
ricercare
la
collaborazione
economica
di
altri
paesi
europei,
degli
Stati
Uniti
e
della
Yugoslavia.
Nel
luglio
1970
il
Ministro
degli
Esteri
italiano,
Aldo
Moro,
visitò
Addis
Abeba
e
incontrò
l’imperatore
Hailè
Selassiè;
in
quell’occasione
avvenne
la
definitiva
riconciliazione
tra
i
due
paesi,
suggellata
nell’autunno
dello
stesso
anno
con
la
visita
del
negus
in
Italia
e la
chiusura
di
alcuni
importanti
accordi
economici.
La
situazione
interna
dell’Etiopia,
tuttavia,
si
deteriorò
rapidamente,
destabilizzando
la
monarchia
e
provocando
golpe
sempre
più
numerosi;
la
situazione
precipitò
in
seguito
alla
carestia
del
1973,
una
delle
più
gravi
attraversate
dall’Etiopia.
L’anno
successivo
venne
rovesciata
la
monarchia,
sostituita
da
un
governo
militare
(Derg)
guidato
dal
colonnello
Hailé
Menghistu,
che
introdusse
un’economia
socialista
e
nazionalizzò
i
terreni
agricoli;
in
politica
estera,
il
regime
di
Menghistu
abbandonò
la
politica
filostatunitense
del
negus
e
l’Etiopia
si
avvicinò
all’Unione
Sovietica.
La
Somalia,
fino
ad
allora
la
principale
alleata
dell’Urss
nel
Corno
d’Africa,
si
schierò
con
gli
Stati
Uniti;
la
politica
nazionalista
perseguita
da
Syad
Barre
portò
nel
1977
ad
una
guerra
contro
l’Etiopia
per
il
possesso
della
regione
dell’Ogaden,
popolata
prevalentemente
da
somali.
L’appoggio
dell’Unione
Sovietica
risultò
determinante
per
la
vittoria
etiope
nel
conflitto,
ma
il
regime
di
Menghistu
non
riuscì
a
sedare
la
rivolta
eritrea;
quando
scoppiò
la
seconda
guerra
somalo
–
etiope
(1982),
i
guerriglieri
eritrei
sostennero
attivamente
il
regime
di
Mogadiscio.
Negli
anni
immediatamente
successivi
al
colpo
di
stato
in
Etiopia
si
verificò
una
profonda
destabilizzazione
del
paese,
che
parve
sul
punto
di
disintegrarsi;
in
Eritrea
la
lotta
per
l’indipendenza
riprese
con
maggior
vigore
e
divampò
in
tutte
le
principali
città
del
paese,
Asmara
e
Massaua.
La
comunità
italiana,
ridotta
a
qualche
migliaio
di
unità,
abbandonò
il
paese
e
rimpatriò
in
Italia;
in
Etiopia,
invece,
i
rientri
furono
inizialmente
più
contenuti
e
limitati
ai
ceti
sociali
medi.
Negli
anni
Ottanta,
nonostante
l’adesione
dell’Etiopia
al
blocco
sovietico,
l’Italia
continuò
a
mantenere
rapporti
diplomatici
cordiali
con
Addis
Abeba
e a
firmare
numerosi
accordi
economici
con
la
giunta
militare
etiope.
Alla
fine
degli
anni
Ottanta
l’Etiopia
fu
attraversata
da
nuove
carestie,
che
provocarono
la
diffusione
di
movimenti
indipendentisti
nel
Tigré
e
nella
regione
Oromo;
il
disimpegno
sovietico
dal
Corno
d’Africa
indebolì
ulteriormente
il
regime
di
Menghistu,
che
cadde
nel
1991
in
seguito
ad
una
controffensiva
militare
eritrea.
Lo
stesso
anno
venne
rovesciato
anche
Syad
Barre;
la
guerra
civile
che
ne
scaturì
provocò
la
secessione
del
Somaliland
(mai
riconosciuto
a
livello
internazionale)
e la
disintegrazione
della
Somalia.
Nel
1993,
con
un
referendum,
l’Eritrea
proclamò
la
propria
indipendenza
e
avviò
relazioni
diplomatiche
stabili
con
l’Etiopia,
con
cui
formò
un’unione
monetaria
e a
cui
garantì
l’accesso
ai
suoi
porti;
l’anno
successivo
fu
promulgata
una
nuova
Costituzione
in
Etiopia,
che
diventò
una
repubblica
democratica
su
base
etnica.
La
distensione
con
l’Eritrea
si
interruppe
nel
1998,
quando
Asmara
uscì
dall’unione
monetaria
e il
governo
di
Addis
Abeba
smise
di
utilizzare
i
porti
eritrei;
la
tensione,
aumentata
a
causa
di
dispute
territoriali,
provocò
una
guerra
tra
i
due
paesi
nel
1998,
conclusasi
due
anni
più
tardi
con
gli
Accordi
di
Algeri
che
però
non
riuscirono
a
definire
con
chiarezza
i
confini
tra
i
due
stati.
La
politica
di
Asmara
negli
anni
Novanta
fu
improntata
ad
un
forte
nazionalismo,
che
culminò
con
i
contenziosi
aperti
sia
con
l’Etiopia,
sia
con
lo
Yemen;
le
isole
Hanish,
nel
Mar
Rosso,
furono
attribuite
da
un
arbitrato
Onu
allo
Yemen
nel
1995.
L’Etiopia,
nuovamente
alleata
degli
Stati
Uniti
– da
cui
importa
soprattutto
generi
alimentari
e
armi
– è
diventata
negli
ultimi
anni
una
potenza
militare
regionale
nel
Corno
d’Africa,
un
ruolo
emerso
soprattutto
con
l’intervento
in
Somalia
nel
2006,
quando
l’esercito
etiope
riuscì
a
sconfiggere
le
Corti
Islamiche
e
permise
al
Governo
Transitorio
Somalo
di
rientrare
in
possesso
di
Mogadiscio.
Le
relazioni
con
l’Eritrea
restano
invece
molto
tese,
soprattutto
per
i
rapporti
stretti
da
Asmara
con
i
movimenti
separatisti
che
combattono
contro
l’esercito
etiope
in
Ogaden,
Afar
e
Oromo;
l’Eritrea
ha
inoltre
stretto
rapporti
con
alcuni
movimenti
indipendentisti
somali
schierati
contro
l’Etiopia,
cui
offre
sostegno
logistico
e
finanziario.
Un
altro
motivo
di
tensione
tra
i
due
paesi
è
rappresentato
dalla
mancanza
di
un
accesso
al
mare
per
l’Etiopia,
sia
nei
porti
del
Mar
Rosso
(appartenenti
all’Eritrea)
sia
nell’Oceano
Indiano;
i
porti
della
Somalia
sono
infatti
controllati
dai
movimenti
separatisti
somali
legati
ad
Asmara.
L’assenza
di
un
accesso
al
mare
diminuisce
notevolmente
le
opportunità
di
crescita
economica
dell’Etiopia,
perché
ne
limita
fortemente
le
esportazioni;
nel
2012
è
scoppiato
un
nuovo
conflitto
con
l’Eritrea,
che
è
stata
isolata
diplomaticamente
dagli
altri
stati
africani
a
causa
del
sostegno
offerto
ai
separatisti
somali.
In
Italia
le
notizie
sul
secondo
conflitto
etiope
–
eritreo
sono
state
scarsamente
seguite
dall’opinione
pubblica,
soprattutto
per
la
scelta
dei
mezzi
d’informazione
di
concentrare
l’attenzione
sui
conflitti
geograficamente
più
vicini
all’Italia,
prevalentemente
le
guerre
civili
in
Siria
e in
Libia.
In
Somalia,
dopo
la
guerra
civile
che
ha
devastato
il
paese
negli
anni
Novanta
e
l’instabilità
provocata
dal
successivo
conflitto
contro
le
Corti
Islamiche,
sembra
avviato
un
processo
di
pacificazione;
nell’agosto
del
2012
l’Assemblea
Nazionale
Costituente
ha
istituito
la
Repubblica
Federale
Somala,
che
oggi
controlla
gran
parte
del
territorio
della
Somalia,
avviando
al
contempo
relazioni
diplomatiche
con
il
Somaliland,
che
però
rivendica
l’indipendenza.
Il
presidente
della
Somalia,
Hassan
Sheick
Mohamud,
nel
corso
di
una
sua
visita
di
Stato
in
Italia
nel
settembre
2013,
ha
chiesto
al
governo
italiano
di
sostenere
la
ricostruzione
politica
ed
economica
del
paese
africano;
al
momento
l’Italia
ha
offerto
la
sua
cooperazione
nel
settore
della
Difesa,
sostenendo
la
formazione
delle
forze
armate
somale.
Il
governo
di
Mogadiscio
ha
sostanzialmente
chiesto
all’Italia
di
contribuire
alla
ricostruzione
della
Somalia
seguendo
modalità
simili
a
quelle
tenute
durante
l’Amministrazione
fiduciaria.