RIFLESSIONI SULLA
DECOLONIZZAZIONE
UN PROCESSO MAI TERMINATO
di Francesco Perri
Il processo di decolonizzazione non
è mai terminato. Non è mai stato un
processo destinato a una chiusura
totale, ma solo parziale. Questo è
il primo tassello da cui è doveroso
partire se si vuole affrontare il
fenomeno nella sua complessa
articolazione.
Il cammino dei paesi colonizzati
verso l’indipendenza ha avuto tempi
e modalità diverse. Un’indipendenza
a cui si è arrivati attraverso
pacifiche pressioni, dopo una
trattativa tra la madrepatria e i
gruppi dirigenti locali, o, in molti
casi, attraverso vere e proprie
guerre di liberazione, una strada
quest’ultima violenta e in genere
percorsa con l’adozione del sistema
della guerriglia: agli eserciti dei
paesi coloniali si contrapponevano
reparti irregolari o piccoli gruppi
che godevano dell’appoggio della
popolazione e agivano con azioni
rapide e sabotaggi.
L’aspetto che in questa sede si
vuole sottolineare è che,
tralasciando la modalità attraverso
cui sia stata raggiunta
l’indipendenza, i nuovi Stati,
reduci e vittime del sistema
coloniale, venivano lasciati in una
condizione di alta precarietà:
povertà, corruzione, mancanza di una
classe dirigente, di una cultura di
governo. Soprattutto i colonizzati
lasciati privi di identità nazionale
che sarebbe stato difficile nel
tempo ritrovare e ricomporre nella
sua totalità.
La condizione dei nuovi stati dopo
il terrorismo coloniale è utile da
ricordare, ma è altresì utile
spiegare gran parte dei drammi che
hanno accompagnato la
decolonizzazione partendo da una
consapevolezza assoluta: la
coscienza dello sfruttamento e
dell’annullamento. Da qui, l’intento
è quello di conoscere i motivi per i
quali i paesi abbiano deciso di
rivendicare la loro libertà e di
raggiungere l’indipendenza,
un’indipendenza che ancora oggi
tarda ad arrivare o che forse è
destinata a non essere mai raggiunta
e afferrata in modo certo.
A fronte di una concezione cosi
pregna di significati espliciti e
diretti, la dicotomia
colonizzatore-colonizzato assume
grande peso, soprattutto se
analizzata con l’obiettivo di
eliminare ogni falsificazione
possibile, come quella proposta da
un giurista francese, secondo il
quale la possibilità concreta di
colonizzare significava “allacciare
un rapporto con paesi nuovi per
ricavarne risorse di ogni tipo,
valorizzarle nell’interesse
nazionale, e allo stesso tempo
portare alle popolazioni primitive,
che ne sono prive, i vantaggi della
cultura intellettuale, sociale,
scientifica, morale, artistica,
letteraria, commerciale e
industriale, appannaggio delle razze
superiori”.
Già che si parli di razza è un
delitto contro l’umanità, ma perché
dover far passare il concetto della
colonizzazione come una pratica
dopotutto bonaria e innocua? Che
diritto si ha di enunciare
un’assurdità di questo genere?
Che diritto avevano gli europei di
governare il mondo, se poi i loro
grandi ideali morali e politici di
libertà e democrazia si rivelavano
buoni solo per la più spaventosa
carneficina di tutti i tempi?
I colonizzatori non conquistavano
per portare alle popolazioni
primitive, che ne sono prive, i
vantaggi della cultura, ma per
arricchirsi a loro spese. E inoltre,
un aspetto questo decisamente
cruciale, per godere dei tanti
vantaggi forniti dall’ineguaglianza:
essere una minoranza protetta dalla
legge, in un ambiente in cui
qualunque torto o sopruso era
autorizzato, farsi servire da una
manodopera abbondante e priva di
diritti, misurare con soddisfazione
l’immensa distanza sociale e
politica che li separava
inesorabilmente dai colonizzati. Per
questo motivo, i nuovi Stati hanno
rivendicato non senza fatica e
pregiudizi la loro libertà. Hanno
raggiunto tortuosamente
un’indipendenza che, come stiamo
affermando più volte, non è stata
mai risolutiva e definitiva, ma
approssimativa e labile.
L’idea corrente che si ha sui libri
di storia è che con la concessione
dell’indipendenza da parte delle
potenze europee alle ultime colonie,
l’epoca del dominio si è conclusa
tra gli anni Quaranta e Sessanta, ma
in pratica non è così. È qui che è
presente l’errore. È qui che si
commette lo sbaglio di parlare dei
fenomeni storici senza tener conto
delle loro determinazioni e delle
loro interazioni con l’attualità.
Oggi, la stagione coloniale e
imperialista è finita. Gli imperi
coloniali in Africa come in altri
paesi non esistono più. Esistono
però e sono sempre più marcatamente
visibili, nonostante tutto, i
retaggi e le ferite inconsce che
quel periodo storico ha lasciato sul
continente, sulla società e sul
presente di questi paesi, minandone
in alcuni casi anche il futuro.
L’epoca del dominio è continuata
prima con la dipendenza economica
dettata dal cosiddetto
neocolonialismo, fenomeno per il
quale gli ex colonizzatori hanno
mantenuto il controllo delle loro
antiche colonie, dopo
l’indipendenza, attraverso il
dominio delle loro economie e
l’ingerenza nella loro politica,
continua ora con un’altra forma di
neocolonialismo mascherata da
collaborazione commerciale bonaria.
Ancora un’altra falsificazione.
Questa volta legata al presente, ma
che continua a non avere nulla di
bonario, anzi al contrario. Si
ripropone la medesima logica di
appropriazione e di sfruttamento
attraverso una resistenza oppressiva
e una collaborazione forzata.
È una forma di colonialismo sottile,
più difficile da riconoscere e da
inquadrare, che sfrutta la povertà
di paesi, vittime di un passato
coloniale irrisolto e mai concluso,
per offrire occasione di
investimenti, senza chiarire bene le
condizioni. Attraverso l’impianto di
infrastrutture e l’offerta sempre
più crescente di denaro prende il
controllo, economico in primis e
culturale dopo, dei territori che
vengono danneggiati fino a essere
annientati, se non addirittura
annullati completamente.
Si potrebbero fare esempi attuali
connessi all’Africa, all’Asia,
all’America meridionale e ad altri
contesti, ma non è questa la sede
per farlo. Se venissero pronunciati,
il rischio sarebbe quello di
generalizzare e di semplificare un
argomento che invece merita rigore
storico e soprattutto consapevolezza
critica.
Senz’altro il colonialismo esiste
ancora e non soltanto nella
contrapposizione dei cosiddetti
parametri Sud e Nord del mondo. Il
neocolonialismo andrebbe valutato e
analizzato come un sistema di
pensiero concreto e tangibile che ha
a che fare con la libertà, la
disponibilità economica e politica,
la possibilità di beni e risorse non
necessariamente materiali o venali
ma anche culturali, soprattutto con
la logica onnicomprensiva di
progresso dietro alla quale si
nasconde quasi sempre il rischio di
uno sfruttamento spietato.
L’identità di ogni paese si fonda
sulla conoscenza effettiva e
scrupolosa del passato. Un passato
che, all’interno dell’analisi
tratteggiata, diventa
prepotentemente presente.
È un dovere e un obbligo affrontare
la questione coloniale e
postcoloniale come processo in
divenire, con un attenzione vigile
su ogni sua determinazione e su ogni
suo incastro con la dimensione
attuale.
Riferimenti bibliografici:
A. Memmi,
Ritratto del
decolonizzato. Immagini di una
condizione, Cortina Raffaello,
Milano 2006.
P. Viola, Storia moderna e
contemporanea, Einaudi, Torino
2000.
Oggi Storia: Il novecento,
a cura di E.B. Stumpo, I. Cotta e F.
Luti, Mondadori, Milano 2008.