[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

198 / GIUGNO 2024 (CCXXIX)


contemporanea

il declino dell’Occidente
Lo scenario internazionale Fra vecchie e nuove potenze
di Francesco Biscardi


“Nessuna potenza rimane in eterno. Padroni del mondo furono già i Romani, ora inizia l’impero dei Turchi”. Così sentenziò Enea Silvio Piccolomini all’indomani della conquista ottomana di Costantinopoli, avvenuta il 29 maggio 1453. Questa asserzione del futuro papa Pio II delucida una realtà imperitura: i più potenti ed espansivi imperi che si sono avvicendati nella storia hanno ognuno conosciuto un’aurora, periodi di prosperità, di declino, e infine sono crollati. Così accadde all’Impero romano, esattamente come a quello mongolo basso-medievale, come a quelli ottomano e spagnolo moderni e a quello inglese dell’era Vittoriana.

 

Avviene anche oggi che le grandi potenze un tempo assolute protagoniste dell’età contemporanea si stiano avviando verso il loro crepuscolo; un “impero” su tutti: quello statunitense. Lasciando inalterato il primo periodo, la lucida affermazione di Enea Silvio potrebbe essere corretta ed adattata ai tempi odierni in questo modo: “padroni del mondo furono già gli Usa, ora inizia l’impero della Cina”.

 

Per quanto il futuro non sia mai del tutto preconizzabile, appare evidente come quello che Arnaldo Testi in un suo bel libro ha definito “il secolo degli Stati Uniti” sia in procinto di chiudersi. Troppi appaiono essere i segni in tal direzione, i quali rientrano in un più generale declino del cosiddetto “Occidente”, ad egemonia ovviamente americana, esattamente come sempre più lampante risulta la crescita del gruppo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), di cui quella di Pechino è l’economia trainante.

 

La recente riunione a Fasano, in provincia di Brindisi, dei leaders del G7, i teoricamente sette Paesi più influenti e ricchi del pianeta (Stati Uniti, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Giappone e Canada), non può non richiamare l’attenzione in tal senso: qualsiasi persona che si intende un po’ di geopolitica e di economia globale sa bene che l’autorevolezza e la presunta egemonia di questi Stati si dimostra sempre più anacronistica. Infatti, a livello di popolazione non arriviamo a rappresentare nemmeno un sesto dell’umanità, le nostre economie sono da tempo in recessione, mentre la nostra influenza in molti stati dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia sta andando sempre più a scremare a vantaggio, in primo luogo, di Russia e Cina, e, in secondo luogo, di India, Paesi arabi, “Tigri asiatiche” e Brasile.

 

Il ridimensionamento del peso globale di questi sette Paesi risulta ulteriormente ai minimi storici per la debolezza delle attuali leadership: il tedesco Scholz e il francese Macron sono usciti con le ossa rotte dall’ultima consultazione elettorale per il Parlamento europeo, il britannico Sunak è forse il più anonimo inquilino di Downing Street della storia, fra l’altro divenuto Primo ministro nell’ottobre 2022 dopo che si erano alternati due inconcludenti governi, quelli di Johnson e Truss, mentre l’americano Biden appare sempre più affetto da demenza senile e crescono di giorno in giorno i dubbi, in America, sulla sua idoneità alla candidatura democratica per le imminenti elezioni alla Casa Bianca. Non molto più rosea la situazione di Canada e Giappone, i cui progressi durante la Golden Age appaiono un lontano ricordo. In questo quadro desolante in molti sostengono che la sola premier italiana, Meloni, possa essere considerata all’apice del successo, visti i buoni risultati conseguiti alle elezioni europee. Tuttavia, bisogna riflettere anche su come la situazione socio-economica del nostro paese non sia affatto prospera e di come meno della metà degli aventi diritto sia andata a votare, dato che denuncia il basso livello di fiducia attualmente nutrito verso lo stato democratico e organismi sovra-nazionali come l’Unione europea.

 

Per confermare quanto l’affermazione iniziale di Enea Silvio sia collegabile alla realtà socio-politica che stiamo vivendo e quanto la storia sia un utile mezzo per far luce sul presente, scorgendo affinità fra ieri e oggi, possiamo fare un salto all’indietro di più di un secolo.

 

Fra 1871 e 1914 si verificò quel vasto processo di conquiste coloniali che ha preso il nome di “imperialismo” (anche se sia il terminus a quo potrebbe essere spostato un po’ all’indietro) e che può essere considerata la seconda grande espansione europea, dopo quella susseguita alla scoperta dell’America. In quel frangente i paesi più sviluppati e militarmente più attrezzati soggiogarono in maniera diretta o indiretta la quasi totalità delle terre emerse. Da un lato proseguì inesorabile il declino di nazioni protagoniste dell’età moderna, ovvero Spagna, Portogallo, Impero ottomano e Olanda, dall’altro affiorarono nuovi importanti attori: i neonati Reich tedesco e Regno d’Italia, più Russia, Giappone e Stati Uniti, mentre risultò confermato lo status di grandi potenze per Francia e Inghilterra.

 

Per ironia della sorte, nonostante le vicissitudini belliche del Novecento, sei delle nazioni imperialiste di fine XIX-inizio XX secolo coincidono quasi interamente con quelle costituenti il G7. Tuttavia c’è una differenza abissale: all’epoca davvero l’Occidente si stava spartendo il mondo e durante i congressi dei suoi leaders si decideva realmente il destino di intere porzioni del pianeta, mentre oggi le loro riunioni, come l’ultima in Puglia, sono dominate da discussioni su tematiche sì importanti, ma non di interesse universale, come l’aborto, oppure sulla condotta da tenere nei confronti dei conflitti in atto, già probabilmente prestabilite.

 

Si diceva che la Cina, se già non lo è, risulta candidata al ruolo di prima potenza economica al mondo nel prossimo futuro. Ebbene, all’epoca della massima egemonia dell’Occidente questo vasto paese fu teatro di una crisi generale da risultare preda dell’”appetito” delle nazioni imperialiste.

 

Qui, la prima fase della penetrazione europea, cominciata con le Guerre dell’oppio di metà Ottocento, aveva rivelato la debolezza dell’antico Impero celeste. L’attacco cominciò nella sua periferia, in una zona sotto sua nominale sovranità, l’Annam (odierno Vietnam), dove negli anni Ottanta si registrò una penetrazione francese. Ne seguì uno scontro che si concluse nel 1885 con la sconfitta cinese e la perdita di sovranità in questa terra. Frattanto, nel 1894, il Giappone, unico paese asiatico protagonista di un vero sviluppo industriale, penetrò in Corea, anch’essa sotto nominale dominio cinese. Scoppiò un conflitto in cui la Cina fu vinta e costretta a cedere le Pescadores, l’isola di Formosa e la Penisola di Liaotung in Manciuria.

 

Ne approfittarono gli Stati Uniti e le potenze imperialiste europee, le quali riuscirono a strappare al governo cinese importanti concessioni economiche e basi strategiche. Si sviluppò un movimento xenofobo e nazionalista i cui aderenti furono denominati boxer (perché si riunivano nei luoghi di una società ginnica denominata “Pugni della giustizia e dell’armonia”). Nel 1900, a seguito di una serie di violenze messe in atto da questi ultimi contro i simboli e gli stessi rappresentanti stranieri, Inghilterra, Germania, Francia, Italia, Austria-Ungheria, Russia, Giappone e Usa si accordarono per un intervento militare concertato. In due settimane la rivolta dei boxer fu sedata e Pechino occupata. Le potenze occidentali ottennero così vantaggiosissime concessioni territoriali e autonomie amministrative nel territorio pechinese, dove sorsero quartieri riservati ad europei e americani, da loro stessi presidiati.

 

Fu così che la Cina divenne la “semicolonia” di tutte le potenze interessate allo sfruttamento del suo immenso territorio. Le ripercussioni all’interno del Paese furono la disgregazione del potere centrale, cui si sostituì in larga parte quello dei governatori militari delle province (uomini senza scrupolo e complici degli stranieri). Il governo cadde nella seconda decade del Novecento sotto i colpi del movimento democratico e nazionalista di Sun Yat-sen che mirava all’indipendenza nazionale e all’istituzione di forme di democrazia rappresentativa. Disordini e guerre civili si alterneranno sostanzialmente fino al 1949, anno della conquista del potere di Mao Dzedong.

 

Ad oltre cento anni di distanza vediamo quanto sia vero come la storia sia caratterizzata dall’alternarsi di potenze egemoni: allora la Cina sembrava quasi destinata a scomparire dalle carte geografiche, mentre gli Stati Uniti da nazione “isolata” si trasformavano in potenza imperialista. L’allora presidente William McKinley, nel corso della guerra contro la Spagna, disse al suo segretario Cortelyou nel marzo 1898: "We need Hawaii just as much, and a good deal more, than we did California. It is manifest destiny". Proprio questa dottrina del “destino manifesto”, teorizzata nell’Ottocento da John L. O’Sullivan, cominciò ad essere impiegata non più tanto in senso etico-civilizzatore, quanto in senso politico, come “esportazione della democrazia nel mondo”, da intendersi concretamente come volontà di egemonia planetaria dell’impero a “stelle e strisce”. Un ruolo di dominio che sembra al momento sempre più declinare, mentre nazioni un tempo deboli e sottomesse come la Cina o l’India, che insieme costituiscono circa la metà della popolazione mondiale, appaiono destinate ad un avvenire prospero come mai nella loro storia.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Aydin C., Il lungo Ottocento. Una storia politica internazionale, Einaudi, Torino, 2019.

Barone G., Imperialismo e colonialismo, in Storia contemporanea, Donzelli, Roma, 2014.

Dale I. (a cura di), The Presidents. 250 Years of American Political Leadership, Hodder & Stoughton, London, 2021.

Testi A., Il secolo degli Stati Uniti, Il Mulino, Bologna, 2022.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]