il
declino dell’Occidente
Lo scenario internazionale Fra
vecchie e nuove potenze
di Francesco Biscardi
“Nessuna potenza rimane in eterno.
Padroni del mondo furono già i
Romani, ora inizia l’impero dei
Turchi”. Così sentenziò Enea Silvio
Piccolomini all’indomani della
conquista ottomana di
Costantinopoli, avvenuta il 29
maggio 1453. Questa asserzione del
futuro papa Pio II delucida una
realtà imperitura: i più potenti ed
espansivi imperi che si sono
avvicendati nella storia hanno
ognuno conosciuto un’aurora, periodi
di prosperità, di declino, e infine
sono crollati. Così accadde
all’Impero romano, esattamente come
a quello mongolo basso-medievale,
come a quelli ottomano e spagnolo
moderni e a quello inglese dell’era
Vittoriana.
Avviene anche oggi che le grandi
potenze un tempo assolute
protagoniste dell’età contemporanea
si stiano avviando verso il loro
crepuscolo; un “impero” su tutti:
quello statunitense. Lasciando
inalterato il primo periodo, la
lucida affermazione di Enea Silvio
potrebbe essere corretta ed adattata
ai tempi odierni in questo modo:
“padroni del mondo furono già gli
Usa, ora inizia l’impero della
Cina”.
Per quanto il futuro non sia mai del
tutto preconizzabile, appare
evidente come quello che Arnaldo
Testi in un suo bel libro ha
definito “il secolo degli Stati
Uniti” sia in procinto di chiudersi.
Troppi appaiono essere i segni in
tal direzione, i quali rientrano in
un più generale declino del
cosiddetto “Occidente”, ad egemonia
ovviamente americana, esattamente
come sempre più lampante risulta la
crescita del gruppo dei BRICS
(Brasile, Russia, India, Cina e
Sudafrica), di cui quella di Pechino
è l’economia trainante.
La recente riunione a Fasano, in
provincia di Brindisi, dei
leaders del G7, i teoricamente
sette Paesi più influenti e ricchi
del pianeta (Stati Uniti, Germania,
Francia, Regno Unito, Italia,
Giappone e Canada), non può non
richiamare l’attenzione in tal
senso: qualsiasi persona che si
intende un po’ di geopolitica e di
economia globale sa bene che
l’autorevolezza e la presunta
egemonia di questi Stati si dimostra
sempre più anacronistica. Infatti, a
livello di popolazione non arriviamo
a rappresentare nemmeno un sesto
dell’umanità, le nostre economie
sono da tempo in recessione, mentre
la nostra influenza in molti stati
dell’Africa, dell’America Latina e
dell’Asia sta andando sempre più a
scremare a vantaggio, in primo
luogo, di Russia e Cina, e, in
secondo luogo, di India, Paesi
arabi, “Tigri asiatiche” e Brasile.
Il ridimensionamento del peso
globale di questi sette Paesi
risulta ulteriormente ai minimi
storici per la debolezza delle
attuali leadership: il
tedesco Scholz e il francese Macron
sono usciti con le ossa rotte
dall’ultima consultazione elettorale
per il Parlamento europeo, il
britannico Sunak è forse il più
anonimo inquilino di Downing Street
della storia, fra l’altro divenuto
Primo ministro nell’ottobre 2022
dopo che si erano alternati due
inconcludenti governi, quelli di
Johnson e Truss, mentre l’americano
Biden appare sempre più affetto da
demenza senile e crescono di giorno
in giorno i dubbi, in America, sulla
sua idoneità alla candidatura
democratica per le imminenti
elezioni alla Casa Bianca. Non molto
più rosea la situazione di Canada e
Giappone, i cui progressi durante la
Golden Age appaiono un
lontano ricordo. In questo quadro
desolante in molti sostengono che la
sola premier italiana,
Meloni, possa essere considerata
all’apice del successo, visti i
buoni risultati conseguiti alle
elezioni europee. Tuttavia, bisogna
riflettere anche su come la
situazione socio-economica del
nostro paese non sia affatto
prospera e di come meno della metà
degli aventi diritto sia andata a
votare, dato che denuncia il basso
livello di fiducia attualmente
nutrito verso lo stato democratico e
organismi sovra-nazionali come
l’Unione europea.
Per confermare quanto l’affermazione
iniziale di Enea Silvio sia
collegabile alla realtà
socio-politica che stiamo vivendo e
quanto la storia sia un utile mezzo
per far luce sul presente, scorgendo
affinità fra ieri e oggi, possiamo
fare un salto all’indietro di più di
un secolo.
Fra 1871 e 1914 si verificò quel
vasto processo di conquiste
coloniali che ha preso il nome di
“imperialismo” (anche se sia il
terminus a quo potrebbe essere
spostato un po’ all’indietro) e che
può essere considerata la seconda
grande espansione europea, dopo
quella susseguita alla scoperta
dell’America. In quel frangente i
paesi più sviluppati e militarmente
più attrezzati soggiogarono in
maniera diretta o indiretta la quasi
totalità delle terre emerse. Da un
lato proseguì inesorabile il declino
di nazioni protagoniste dell’età
moderna, ovvero Spagna, Portogallo,
Impero ottomano e Olanda, dall’altro
affiorarono nuovi importanti attori:
i neonati Reich tedesco e Regno
d’Italia, più Russia, Giappone e
Stati Uniti, mentre risultò
confermato lo status di grandi
potenze per Francia e Inghilterra.
Per ironia della sorte, nonostante
le vicissitudini belliche del
Novecento, sei delle nazioni
imperialiste di fine XIX-inizio XX
secolo coincidono quasi interamente
con quelle costituenti il G7.
Tuttavia c’è una differenza
abissale: all’epoca davvero
l’Occidente si stava spartendo il
mondo e durante i congressi dei suoi
leaders si decideva realmente
il destino di intere porzioni del
pianeta, mentre oggi le loro
riunioni, come l’ultima in Puglia,
sono dominate da discussioni su
tematiche sì importanti, ma non di
interesse universale, come l’aborto,
oppure sulla condotta da tenere nei
confronti dei conflitti in atto, già
probabilmente prestabilite.
Si diceva che la Cina, se già non lo
è, risulta candidata al ruolo di
prima potenza economica al mondo nel
prossimo futuro. Ebbene, all’epoca
della massima egemonia
dell’Occidente questo vasto paese fu
teatro di una crisi generale da
risultare preda dell’”appetito”
delle nazioni imperialiste.
Qui, la prima fase della
penetrazione europea, cominciata con
le Guerre dell’oppio di metà
Ottocento, aveva rivelato la
debolezza dell’antico Impero
celeste. L’attacco cominciò nella
sua periferia, in una zona sotto sua
nominale sovranità, l’Annam (odierno
Vietnam), dove negli anni Ottanta si
registrò una penetrazione francese.
Ne seguì uno scontro che si concluse
nel 1885 con la sconfitta cinese e
la perdita di sovranità in questa
terra. Frattanto, nel 1894, il
Giappone, unico paese asiatico
protagonista di un vero sviluppo
industriale, penetrò in Corea,
anch’essa sotto nominale dominio
cinese. Scoppiò un conflitto in cui
la Cina fu vinta e costretta a
cedere le Pescadores, l’isola di
Formosa e la Penisola di Liaotung in
Manciuria.
Ne approfittarono gli Stati Uniti e
le potenze imperialiste europee, le
quali riuscirono a strappare al
governo cinese importanti
concessioni economiche e basi
strategiche. Si sviluppò un
movimento xenofobo e nazionalista i
cui aderenti furono denominati
boxer (perché si riunivano nei
luoghi di una società ginnica
denominata “Pugni della giustizia e
dell’armonia”). Nel 1900, a seguito
di una serie di violenze messe in
atto da questi ultimi contro i
simboli e gli stessi rappresentanti
stranieri, Inghilterra, Germania,
Francia, Italia, Austria-Ungheria,
Russia, Giappone e Usa si
accordarono per un intervento
militare concertato. In due
settimane la rivolta dei boxer
fu sedata e Pechino occupata. Le
potenze occidentali ottennero così
vantaggiosissime concessioni
territoriali e autonomie
amministrative nel territorio
pechinese, dove sorsero quartieri
riservati ad europei e americani, da
loro stessi presidiati.
Fu così che la Cina divenne la
“semicolonia” di tutte le potenze
interessate allo sfruttamento del
suo immenso territorio. Le
ripercussioni all’interno del Paese
furono la disgregazione del potere
centrale, cui si sostituì in larga
parte quello dei governatori
militari delle province (uomini
senza scrupolo e complici degli
stranieri). Il governo cadde nella
seconda decade del Novecento sotto i
colpi del movimento democratico e
nazionalista di Sun Yat-sen che
mirava all’indipendenza nazionale e
all’istituzione di forme di
democrazia rappresentativa.
Disordini e guerre civili si
alterneranno sostanzialmente fino al
1949, anno della conquista del
potere di
Mao Dzedong.
Ad oltre cento anni di distanza
vediamo quanto sia vero come la
storia sia caratterizzata
dall’alternarsi di potenze egemoni:
allora la Cina sembrava quasi
destinata a scomparire dalle carte
geografiche, mentre gli Stati Uniti
da nazione “isolata” si
trasformavano in potenza
imperialista. L’allora presidente
William McKinley, nel corso della
guerra contro la Spagna, disse al
suo segretario Cortelyou nel marzo
1898: "We need Hawaii just as much,
and a good deal more, than we did
California. It is manifest destiny".
Proprio questa dottrina del “destino
manifesto”, teorizzata
nell’Ottocento da John L. O’Sullivan,
cominciò ad essere impiegata non più
tanto in senso etico-civilizzatore,
quanto in senso politico, come
“esportazione della democrazia nel
mondo”, da intendersi concretamente
come volontà di egemonia planetaria
dell’impero a “stelle e strisce”. Un
ruolo di dominio che sembra al
momento sempre più declinare, mentre
nazioni un tempo deboli e sottomesse
come la Cina o l’India, che insieme
costituiscono circa la metà della
popolazione mondiale, appaiono
destinate ad un avvenire prospero
come mai nella loro storia.
Riferimenti bibliografici:
Aydin C., Il lungo Ottocento. Una
storia politica internazionale,
Einaudi, Torino, 2019.
Barone G., Imperialismo e
colonialismo, in Storia
contemporanea, Donzelli, Roma,
2014.
Dale I. (a cura di), The
Presidents.
250 Years of American Political
Leadership,
Hodder & Stoughton, London, 2021.
Testi A., Il secolo degli Stati
Uniti, Il Mulino, Bologna, 2022.