N. 93 - Settembre 2015
(CXXIV)
L'ISOLA FELICE DI FABER
Fabrizio De André E LA GALLURA
di Monica Vargiu
"La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattro mila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso".
Un'immagine
intensa,
un
aforisma
che
testimonia
un
amore
reciproco
e
bellissimo
fra
Fabrizio
De
André
e
l'isola
di
Sardegna,
terra
variegata
e
complessa
per
i
suoi
aspetti
storici
e
culturali,
un
sentimento
fatto
di
empatia,
rispetto,
corrispondenze,
che,
a
sedici
anni
dalla
sua
scomparsa
è
più
vivo
che
mai.
Quello
che
Mario
Luzi
definì
uno
chansonnier
nel
senso
più
letterario
del
termine
e
che
Fernanda
Pivano
indicò
come
il
più
grande
poeta
italiano
dell'ultimo
cinquantennio,
scelse
l'isola
come
sua
patria
elettiva,
una
scelta
di
cuore
e
d'istinto,
che
nel
contempo
non
lo
affrancò
mai
dalla
sua
fiera
natura
genovese
e
intimamente
senza
confini.
Un
angolo
di
Sardegna
stupendamente
evocativo
come
la
terra
di
Gallura
lo
accolse
con
calore
e,
una
natura
incontaminata
unita
a
una
realtà
sociale
e
linguistica
ricca
di
mistero
e
magia,
divenne
per
lui,
"contadino"
della
parola
e
delle
multiformi
sperimentazioni
musicali,
una
straordinaria
musa
ispiratrice,
un
ulteriore
stimolo
creativo.
Un
periodo
fecondo
e
felice,
quello
trascorso
da "Faber"
nella
sua
tenuta
dell'Agnata
nei
pressi
di
Tempio
Pausania,
che
raffinò
e
amplificò
le
alchimie
spesso
sperimentali
di
linguaggio
e
sonorità
dei
suoi
impareggiabili
testi,
che
si
stagliano
in
tutta
la
loro
deflagrante
potenza
espressiva
attraverso
la
loro
complessità
e,
nel
contempo,
attraverso
la
loro
immediatezza
e,
dove
egli,
esprime
con
la
propria
arte
un
messaggio
che
diviene
strumento
di
lotta
e di
riflessione
profonda.
Se,
come
affermò,
l'artista
è un
anticorpo
che
la
società
si
crea
contro
il
potere,
la
Sardegna,
unitamente
alle
sue
origini
liguri,
diventa
il
luogo
fisico
e
mentale
che
amplifica
e
accresce
le
possibilità
di
ricerca
e di
espressione
artistica
e
che,
abbattendo
diaframmi
accademici
e di
maniera,
ci
consegna
un
De
André
"autentico",
originale,
scevro
da
sovrastrutture
e,
allo
stesso
tempo,
come
in
un
esemplare
ossimoro,
estremamente
sofisticato
e
vitale
nell'esprimere
la
sua
immediatezza.
"Mi
innamorai
della
natura
e
della
gente",
affermò
quando
negli
anni
settanta
fece
la
scelta
di
vita
di
trasferirsi
in
Sardegna
e di
farne
il
suo
buen
retiro,
una
scelta
totalizzante
che
lo
portò
anche
a
coltivare,
nel
senso
più
concreto
del
termine,
una
sua
grande
passione,
quella
per
la
terra
e la
cultura
contadina,
retaggio
di
un'infanzia
sempre
viva
nei
suoi
ricordi.
Nel
sito
della
fondazione
che
porta
il
suo
nome,
sempre
ricco
di
iniziative
e
testimonianze,
una
sezione
è
dedicata
proprio
allo
studio
minuzioso
del
territorio,
della
flora
e
della
fauna
tipiche
della
zona,
pagine
e
pagine
di
taccuino,
vergate
di
pugno
dall'autore,
corredate
di
annotazioni
e
disegni,
ci
"consegnano"
un
De
André
bucolico
e
talentuoso,
meticoloso,
attento
e
profondamente
rispettoso
della
natura
e
delle
sue
particolarità
e
infinite
possibilità.
"In
questo
luogo
voglio
vivere
e
diventare
vecchio",
ebbe
a
dire
quando,
conquistato
dall'indomita
bellezza
del
paesaggio,
decise
di
acquistare
la
sua
tenuta
nel
1976,
e in
questo
ambiente
a
lui
così
intimamente
congeniale,
ebbe
modo
di
sviluppare
e
sublimare
le
sue
immense
capacità
artistiche,
componendo
lavori
memorabili,
da
antologia
della
letteratura
musicale
e
non
solo,
frutto
di
un'attitudine
espressiva
e di
pensiero
da
fuoriclasse
della
parola
e
della
melodia.
Questo
rapporto
simbiotico,
quasi
filiale
con
la
Gallura
è
palpabile
nel
film
documentario
"Faber
in
Sardegna"
trasmesso
nelle
sale
questa
primavera
con
un
ottimo
successo
di
pubblico,
dove
un
Fabrizio
De
André
ritratto
magistralmente
da
G.
Cabiddu
nella
sua
quotidianità,
ci
permette
di
cogliere
la
profondità
di
pensiero
di
questo
grande
autore
e la
sua
più
intima
natura
umana.
La
pellicola
diventa
dunque
un
documento
storico,
un
testamento
spirituale
e un
tributo
al
protagonista,
culminando,
nella
seconda
parte
con
le
riprese
del
suo
ultimo
concerto
dal
vivo,
che
tenne
al
teatro
Brancaccio
di
Roma
nel
1998,
un
anno
prima
della
sua
scomparsa.
Nei
testi
delle
sue
canzoni,
il
racconto
rarefatto
e
sospeso
fra
l'oblio
del
sogno
e il
contraltare
dell'occhio
attento
a
sottolineare
l'ipocrisia
latente
della
società,
tratteggia
personaggi
indimenticabili,
magistralmente
dipinti
nella
loro
essenza
psicologica
e
nella
loro
unicità,
soprattutto
gli
emarginati,
gli
sconfitti,
che
per
lui,
essendo
distanti
dall'esercizio
del
potere,
sono
per
questo
i
più
vicini
al
punto
di
vista
di
Dio.
Con
la
Fede
ebbe
un
rapporto
a
tratti
conflittuale,
di
ricerca
che
approdò
con
il
tempo
in
un
Panteismo
puro,
fatto
di
immediatezza
e
che
permeò
il
suo
personale
sentire
facendogli
riconoscere
la
presenza
Dio
nella
natura
e
nella
bellezza
assoluta
nella
quale
era
immerso
quotidianamente.
Se
la
musica
fu
per
lui
necessità
e
urgenza
espressiva,
il
tramite
più
diretto
fra
il
suo
personale
mondo
e
quello
altrui,
risultò
ugualmente
una
necessità,
quella
di
perdonare
pubblicamente
i
suoi
carcerieri
che
lo
sequestrarono
il
27
agosto
del
1978
e lo
tennero
in
ostaggio,
assieme
alla
moglie
Dori
Ghezzi,
per
quattro
lunghissimi
mesi.
In
essi
riconobbe
le
vittime
e
non
i
carnefici
(a
differenza
dei
mandanti,
che
non
assolse
mai,
perché
per
lui
unici
responsabili),
compagni
di
cammino
di
quell'esperienza
di
vita
estrema
che
diventa
lirica
in
"Hotel
Supramonte",
e
che
nel
verso
"Passerà
questa
pioggia
sottile
come
passa
il
dolore",
distilla
l'essenza
e
forse
il
superamento
fortemente
voluto
consapevole
e
necessario
di
una
pagina
buia
della
sua
esistenza.
Nell'album
L'Indiano,
che
contiene
il
brano
sopraccitato,
La
sua
personale
idea
dell'isola
è
rappresentata
in
tutte
le
sue
declinazioni,
da
quella
ambientale
a
quella
umana,
fino
a
quella
linguistica
che
culmina
con
un'emozionante
versione
dell'Ave
Maria
in
lingua
sarda,
resa
magistralmente
dalla
possente
voce
di
Mark
Harris
e
introdotta
e
valorizzata
da
splendidi
arrangiamenti
strumentali.
Il
lessico
utilizzato
nei
testi
è
composito,
non
mancano
le
storie
quotidiane
costruite
attorno
a
personaggi
semplici,
che
dialogano
con
la
natura
e
con
il
paesaggio
e
sono
in
qualche
modo
parte
di
essi,
le
musiche,
Folk-Rock
e
Blues-Rock,
tessono
l'ordito,
richiamando
in
alcuni
passaggi
come
citazioni
dotte
lo
stile
dei
Doors
e
Pink
Floyd,
ma
mantengono
intatto
e
originale
il
complessivo
impianto
compositivo;
Il
tutto
diventa
un
affresco
umano
che
viene
colto
nella
sua
profonda
verità
e
interezza,
una
realtà
percepita
istintivamente,
lontana
da
intenti
moralistici.
La
varietà
e
l'intensità
delle
scelte
di
Fabrizio
De
André,
unite
al
suo
spiccato
anticonformismo
e al
coraggio,
ne
fanno
un
autore
raffinatissimo,
colto,
e
molto
apprezzato,
che
spesso
per
meglio
rappresentare
il
proprio
lavoro,
ha
utilizzato
idiomi
differenti
dall'italiano
come
il
Gallurese
o il
genovese
antico,
che
in
quel
particolare
momento
di
ricerca
artistica
costituivano
il
mezzo
espressivo
più
diretto
e
consono
per
trasmettere
il
suo
personale
messaggio
e lo
spaccato
sociale,
storico
e
politico
che
voleva
raccontare.
I
testi
delle
sue
canzoni,
forse
più
delle
interviste,
rappresentano
il
più
concreto
e
chiaro
manifesto
del
suo
indagare
intellettuale
e
spirituale,
dove
l'acutezza,
l'intelligenza
e
una
profonda
sensibilità,
esprimono
compiutamente
l'essenza
autentica
della
sua
poesia,
rendendolo
un
autore
unico,
un
rivoluzionario
che,
come
tutti
i
grandi
è
diventato
un
classico.