N. 71 - Novembre 2013
(CII)
il Cuore di De Amicis
un testo letterario simbolo di un'epoca
di Giovanni Valletta
Numerosi
sono
stati
nel
passato
i
grandi
studiosi
che,
nonostante
la
diversità
degli
ambiti
disciplinari
e la
distanza
temporale,
hanno
esaltato
la
funzione
della
letteratura,
considerandola
spesso
come
un
utilissimo
mezzo
per
la
ricostruzione
di
contesti
storici
che
potrebbero,
in
alcuni
casi,
restare
totalmente
ignoti
per
la
carenza
di
documentazione
a
disposizione
degli
studiosi.
Considerazione
quasi
ovvia
oggi,
ma
che
nel
tempo
ha
avuto
modo
di
consolidarsi
in
virtù
di
validissimi
esempi;
come
non
ricordare
la
“Divina
Commedia”,
sublime
opera
del
fervido
ingegno
dantesco
e,
allo
stesso
tempo,
concreta
rappresentazione
di
un'Italia
lacerata
dai
conflitti
comunali
fra
le
fazioni
guelfe
e
quelle
ghibelline;
oppure,
saltando
di
qualche
secolo
(solo
per
motivi
logistici),
doveroso
mi
pare
citare
non
un
singolo
autore
letterario,
bensì
un
movimento
letterario
quale
quello
neorealista,
diffusosi
nel
secondo
dopoguerra
e
specchio
fedele
di
un
tragico
patrimonio
di
truci
immagini
e
ricordi
bellici
indelebilmente
scolpiti
nella
mente
dei
lettori
e
degli
autori
neorealisti.
In
questo
succinto
articolo
focalizzerò
la
mia
attenzione
intorno
ad
una
pagina
celeberrima
del
libro
"Cuore",
testo
pubblicato
nel
corso
del
1886
da
Edmondo
De
Amicis.
Come
spesso
accade
per
i
libri
di
successo,
la
loro
fama
tende
a
far
obliare
la
sorte
dell'autore,
oppure
a
ridimensionare
la
sua
esperienza
letteraria
esclusivamente
alla
pubblicazione
di
quel
determinato
testo.
Più
volte
De
Amicis
si
mostrò
polivalente,
dato
ravvisabile
anche
dai
testi
da
lui
pubblicati
ed
oggi
quasi
totalmente
sconosciuti
ai
più:
"Spagna",
"Olanda",
senza
dimenticare
la
copiosissima
produzione
giornalistica
(De
amicis
inventò
il
genere
dell'intervista).
Questi
dati
basterebbero
da
soli
a
mostrare
quanto
questo
letterato
fosse
ben
insito
nel
contesto
in
cui
viveva,
ma
proverò
a
dimostrare
ciò
ripercorrendo
soprattutto
un
passo
della
sua
opera
più
celebrata:
"Il
ragazzo
calabrese".
In
breve,
il
passo
racconta
dell'arrivo
nelle
terza
elementare
del
maestro
Perboni
di
un
nuovo
alunno
calabrese.
Quanto
mai
interessanti
risultano,
però,
alcune
caratteristiche
di
questo
estratto
che
tra
poco
evidenzierò.
In
primis,
dense
di
significato
risultano
le
parole
che
il
piccolo
narratore
Enrico
utilizza
per
descrivere
in
neo
arrivato:
"un
ragazzo
di
viso
molto
bruno,
coi
capelli
neri,con
gli
occhi
grandi
e
neri,
con
le
sopracciglia
folte
e
raggiunte
sulla
fronte",
parole
che
riportano
inequivocabilmente
uno
stereotipo
della
meridionalità
(termine
quanto
mai
capzioso
nella
fase
post-unitaria)
ben
diffuso
all'epoca
e
che
mostra
quanto
la
nuova
patria
fosse
ancora
tutta
da
scoprire
nelle
sue
bellezze
e
nelle
sue
diversità;
un'Italia
che
appariva
quanto
mai
sconosciuta
soprattutto
ai
nuovi
Italiani
che,
solamente
a
partire
dall'ultimo
trentennio
dell'Ottocento,
favoriti
da
un
progressivo
miglioramento
dell'economia
italiana
e
dalla
maggiore
accessibilità
dei
prezzi
dei
nuovi
mezzi
di
trasporto
(nave
e
treno),
ebbero
maggiori
opportunità
per
conoscere
il
loro
Paese,
ma
soprattutto
le
molteplici
genti
che
lo
componevano,
così
diverse,
quanto
così
repentinamente
e
pertinacemente
unite.
Per
mostrare
quanto
realmente
fosse
sconosciuta
la
Patria
ai
neo
Italiani,
farò
riferimento
a
due
episodi.
Restando
ancorati
alla
pagina
sopra
citata
di
De
Amicis,
possiamo
"leggere",
nel
gesto
del
maestro
Perboni
che
indica
ai
suoi
scolari
l'ubicazione
di
Reggio
Calabria,
la
dimostrazione
di
quanto
fosse
labile,
anche
geograficamente,
la
conoscenza
del
territorio
nazionale.
Inoltre,
aneddoto
storico,
è
possibile
rammentare
l'esperienza
di
Camillo
Benso
conte
di
Cavour,
anima
del
processo
unitario
che,
pur
avendo
viaggiato
moltissimo
per
l'Europa,
mai
varcò
la
linea
gotica.
Proseguendo
con
l'analisi
del
passo
considerato,
dense
di
significato
risultano
le
parole
e le
azioni
del
maestro
che,
dopo
aver
elogiato
Reggio
Calabria
perché
"terra
gloriosa,
che
diede
all'Italia
degli
uomini
illustri,
e le
dà
dei
forti
lavoratori
e
dei
buoni
soldati",
invita
i
suoi
ragazzi
ad
accogliere
il
piccolo
reggino
in
modo
tale
da
evitare
che
possa
avvertire
la
lontananza
dal
luogo
natìo.
Infine,
sempre
animato
da
tono
paterno
e
bonario,
invoglia
Derossi,
"quello
che
ha
sempre
il
primo
premio",
ad
abbracciare
il
neo
arrivato.
Dietro
la
scena
testé
descritta
si
celano
i
tangibili
segni
della
politica
post-unitaria
della
neo
classe
dirigente,
ben
percepita
dallo
scrittore
piemontese.
Volendo
costruire
uno
schema
interpretativo
dell'episodio
appena
citato,
potremmo
considerare
il
maestro
Perboni
come
una
metafora
della
monarchia
sabauda
o,
in
modo
più
ampio,
della
classe
dirigente
o
dell'
intellighenzia
che,
subito
dopo
il
1861,
fu
chiamata
a
"fare
gli
Italiani"
(per
usare
le
parole
di
Massimo
D'Azeglio),
adottando
una
strategia
di
"mescolamento"
che
in
molteplici
ambiti
può
essere
ravvisata.
Onde
evitare
di
appesantire
eccessivamente
il
testo,
mi
limiterò
a
citare
solamente
due
casi
che
possano
testimoniare
quanto
ho
appena
detto.
Il
primo,
facilmente
ravvisabile,
è
rappresentato
dalla
volontà
manifesta
dopo
il
1882
(anno
della
morte
di
Garibaldi)
di
abbandonare
ogni
fora
di
ideologia
contrastante,
nel
tentativo
di
mostrare
quanto
fossero
stati
uniti
i
quattro
padri
della
Nazione
durante
il
processo
unitario,
dimentichi
dei
molteplici
contrasti
che
intercorsero
fra
di
loro.
Campeggiavano
sui
giornali
e
nei
discorsi
immagini
e
rappresentazioni
di
Cavour
e
Garibaldi
uniti
assieme,
Mazzini
come
uno
dei
"vincitori"
del
Risorgimento,
fatti
del
tutto
lontani
dalla
realtà
storica.
Il
secondo
caso
che
citerò
è
notevolmente
implicito
ed è
rappresentato
dalla
politica
di
"mescolamento"
adottata
nell'ambito
della
neonata
amministrazione
italiana,
nel
tentativo
di
uniformare
ed
omogeneizzare
dal
punto
di
vista
burocratico
ed
umano
una
classe
burocratica
che,
facendo
parte
di
diversi
regni
pre-unitari,
provenivano
da
differenti
impostazioni
lavorative
e
culturali.
Illuminanti
sono
a
tal
proposito
gli
studi
del
Prof.
Guido
Melis,
dai
quali
ben
si
evince
come
l'apparato
burocratico
italiano
sia
stato
utilizzato
come
vettore
unitario
nell'immediato
post-unità.
Ritornando
allo
schema
interpretativo
precedentemente
adottato,
potremmo
considerare
l'abbraccio
fra
il
primeggiante
Derossi
ed
il
nuovo
alcuno
come
il
perfetto
suggello
della
politica
di
omogeneizzazione
che
nelle
righe
precedenti
ho
tentato
di
mostrare.
Queste
sono
solamente
le
molteplici
echi
che
si
possono
ravvisare
e
carpire
da
un
singolo
estratto
di
Cuore.
Il
testo
di
Edmondo
De
Amicis
viene
quindi
annoverato
giustamente
fra
i
capolavori
della
letteratura,
ciò
è
reso
possibile
non
solo
dagli
aspetti
linguistici
e
stilistici
o
dalla
brillante
intuizione
tematica
dello
scrittore
piemontese,
ma
anche
e
soprattutto
dalla
capacità
di
essere
un'opera
che
riesce
a
dar
vita
e
voce
ad
un'epoca
storica,
facendone
trapelare
i
costumi,
la
mentalità
ed
il
contesto
politico,
evidenziando
così
degli
aspetti
che
in
modo
fecondo
possono
aiutare
il
lavoro
della
storiografia
nell'andare
a
ricostruire
il
contesto
storico
della
seconda
metà
dell'Ottocento.