N. 77 - Maggio 2014
(CVIII)
Il comandante Ulisse
DAVIDE Lajolo, tra Pavese e Vittorini
di Gaetano Cellura
Le
colline
delle
Langhe
sono
tra
“le
più
ricche
d’uva
e di
boschi
e di
verde
e di
ossigeno
e di
salute”.
Non
c’è
luogo
d’Italia
più
silenzioso
dei
paesi
e
dei
sentieri
di
terra
rossa
e
nera
lì
raccolti.
E lì
la
Resistenza,
l’odio
per
il
nemico
è
stato
così
forte
fino
a
impazzirne.
Davide Lajolo
e
Beppe Fenoglio
quei
luoghi
li
conoscono
come
le
loro
tasche
–
paesi,
colline
e
sentieri
descritti
nei
loro
racconti
e
romanzi.
Uno
era
di
Vinchio,
provincia
di
Asti.
L’altro
di
Alba,
provincia
di
Cuneo.
Tutti
e
due
erano
partigiani.
Il
comandante Lajolo,
chiamato
Ulisse,
portava
il
berretto
con
la
stella
rossa
garibaldina.
Beppe
Fenoglio,
o
Beppe-Johnny,
apparteneva
ai
partigiani
azzurri.
Senza
ideologie,
ma
animati
dalla
forte
passione
per
la
giustizia.
Era
stata
l’ignominia
dell’8
Settembre
ad
averlo
spinto
nella
Resistenza,
nella
lotta
per
la
Liberazione.
Che
rese
epica
con
il
romanzo
Il
partigiano
Johnny,
scritto
in
italiano
e in
inglese
e
uscito
postumo
nel
1968.
Figlio
di
un
garzone
di
macellaio,
Fenoglio
incontrò
non
poche
difficoltà
economiche
per
frequentare
il
liceo
di
Alba
e
poi
l’università
di
Torino.
Imparò
la
lingua
inglese,
per
la
quale
mostrava
uno
straordinario
talento,
senza
essersi
mai
mosso
dall’Italia.
E la
lettura
delle
opere
di
Marlowe,
di
Coleridge
e di
Melville
lo
aiutò
a
diventare
scrittore
metafisico
che
salpa
verso
l’assoluto.
Diceva
di
scrivere
per
un’infinità
di
motivi,
ma
non
certo
per
divertimento.
Perché
gli
costava
parecchia
fatica.
La
più
spensierata
delle
sue
pagine
usciva
“da
una
decina
di
penosi
rifacimenti”.
Lajolo
e
Fenoglio
s’incontrano
su
una
di
quelle
colline:
e
frammezzo
alla
guerra
nefanda,
alla
guerra
che
ti
cambia
i
connotati,
ti
rende
irriconoscibile
pure
ai
tuoi,
trovano
il
momento
per
parlare
di
letteratura,
loro
irrinunciabile
amore.
Lajolo
gli
parla
del
giudizio
di
Vittorini
su
La
malora,
il
libro
ancora
inedito
di
Fenoglio:
“Dice
che
tiri
il
fiato
troppo
lungo”.
E
Beppe
risponde:
“Vittorini
ha
ragione.
Perché
ce
l’ho
corto”.
La
malora
sarà
pubblicato
dieci
anni
dopo,
nel
1954.
Lajolo
tornerà
su
quella
collina,
a
guerra
finita,
durante
una
delle
tante
passeggiate
con
i
suoi
amati
cani,
Febo
e
Socrate.
Passeggiate
che
faceva
tutte
le
volte
che,
da
Milano
o da
Roma,
tornava
al
paese.
E
ricorderà
quell’incontro
con
Fenoglio,
con
cui
poi
ebbe
qualche
contrasto
per
la
pubblicazione
da
Einaudi
dei
Ventitré
giorni
della
città
di
Alba,
in
uno
dei
suoi
racconti
della
raccolta
I
Mè.
Dove
il
vecchio
partigiano
Gustu
gli
indica
il
bricco
sul
quale
anche
lui,
durante
la
Resistenza,
aveva
incontrato
lo
scrittore
di
Alba;
e
gli
dice
di
essere
pronto,
come
un
tempo,
ad
aspettare
il
camerata
Kesselring:
“Noi,
comandante,
non
abbiamo
età,
non
siamo
gente
da
pensione,
né
da
resa
di
fronte
a
nessuno”.
Gustu
ora
malinconicamente
assiste
allo
spopolamento
delle
campagne:
tutti
corrono
–
dice
–
verso
la
città,
la
Fiat,
la
Ferrero,
a
imprigionarsi
nelle
fabbriche
senza
sole
né
luce.
Lajolo
stroncò
sull’Unità
il
racconto
di
Fenoglio
I
ventitré
giorni
della
città
di
Alba
perché,
a
suo
giudizio,
falsava
la
realtà
dando
un
quadro
per
nulla
eroico,
e
anzi
caricaturale,
della
Resistenza.
I Mé
(racconto
senza
fine
tra
Langhe
e
Monferrato:
ci
spiega
il
sottotitolo)
è un
omaggio
ai
contadini
del
suo
paese:
“tutti
color
terra,
bruciati
dal
sole,
rassegnati
e
caustici...,
ancora
troppo
poveri
di
terra
e di
scuole
e di
tutto”.
Libro
commovente
e
sincero,
specialmente
sincero,
per
Mario
Soldati
che
ne
scrive
la
prefazione.
E
tutto
è
davvero
commozione.
Tutto
è
ricordo.
Le
strade
di
Vinchio
“che,
pur
distanziate
da
lunghi
tratti
di
piante
e
vigne,
s’allungano
alle
case
di
campagna”.
La
grandine
e la
filossera
che
devastano
i
vigneti,
lasciandoli
senza
uva
e
senza
vendemmia,
e
riducono
in
miseria
i
contadini
costringendoli
a
emigrare.
A
tentare
l’avventura
dell’America
o
dell’Australia.
Le
albe
scure
della
loro
partenza.
Della
partenza
dei
vicini
di
casa,
come
Vigin,
che
andavano
a
fare
i
lavapiatti
per
mandare
soldi
a
casa.
Gli
altri
mangiavano
e
loro
pulivano.
E
prima
dell’emigrazione
forzata
le
partenze,
ancora
più
dolorose,
per
la
guerra.
Con
i
padri
che
non
piangevano,
ma
dicevano
di
no
con
tutto
il
loro
portamento.
Perché
i
figli
se
li
vedevano
rubare.
E
perché
le
mani,
dicevano,
bisogna
usarle
per
dissodare
la
terra,
non
per
sparare.
I
ricordi
color
sangue
della
guerra
partigiana,
tra
le
colline
monferrine
e le
Langhe:
la
neve,
i
posti
di
blocco,
i
rastrellamenti,
il
pugnale
dei
fascisti
puntato
contro
il
petto
degli
inermi,
la
vita
nelle
stalle
per
sfuggire
al
nemico
che
ti
bracca
e il
ruminare
di
buoi
e
mucche
che
“ti
aiuta
a
dormire”.
Il
primo
di
questi
racconti
di
Lajolo
s’intitola
Le
Masche.
Ed è
la
storia
di
Pinin
–
giovane
alto
e
forte,
sensibile
e
sfortunato
– e
della
maestra
Maria
Rosa,
che
gli
racconta
l’Iliade
e l’Odissea.
Pinin
è
contro
la
guerra:
e
quando
riceve
la
cartolina
precetto
spranga
la
porta
di
casa
con
la
scritta
“partito
per
ignota
destinazione”.
Va a
vivere
nei
boschi
sotto
la
protezione
delle
Masche,
che
sono
le
anime
delle
piante.
E
nessuno
riesce
a
trovarlo
finché
dura
la
luce
bianca
del
loro
incantesimo
protettivo.
Una
volta
ritrovato,
una
volta
scoperta
la
sua
“ignota
destinazione”,
Pinin
parte,
è
costretto
a
partire
per
la
guerra.
Ma
il
suo
fucile
resta
sempre
con
il
colpo
in
canna.
Mentre
è
una
bomba
sfracellare
lui,
mutilandolo
per
tutta
la
vita.
Ora
è di
nuovo
al
suo
paese,
nell’attesa
che
le
evanescenze
dei
boschi
ritornino.
Erano
tre
le
Masche.
“Una
più
vecchia
che
io
chiamavo
la
madre
e
due
più
giovani
–
dice
Pinin,
mutilato
di
guerra.
–
Una
l’ho
chiamata
Maria
Rosa”.
Con
lei
consumava
anche
l’amore,
nelle
notti
di
plenilunio.
Ed
era,
per
Pinin,
come
cadere
nel
delirio,
bagnarsi
nel
mare:
“una
dolcezza
senza
limiti”.
Finita
la
guerra,
a
Davide
Lajolo
viene
affidata
dal
Partito
comunista
la
direzione
dell’Unità
di
Milano.
È
l’inizio
di
una
carriera
– di
giornalista,
scrittore
e
politico
–
che
lo
vedrà
deputato
per
tre
legislature.
Ma
pur
vivendo
lontano
da
Vinchio,
Lajolo
mantiene
vivo
il
legame
con
il
suo
paese
e la
sua
gente.
E
quando
vi
torna,
tra
i
vigneti
carichi
d’uva,
nei
volti
dei
contadini
che
incontra,
rivede
sempre
il
volto
di
Pavese,
che
negli
occhi
portava
la
solitudine
della
città,
e
pensa
di
capire
meglio
le
sue
contraddizioni,
i
suoi
dubbi.
Era
bello
per
il
comandante
Ulisse
starsene
seduto
nel
cortile
di
casa,
i
cani
Febo
e
Socrate
sdraiati
ai
suoi
piedi
sull’erba
nel
sole
del
meriggio,
ad
ascoltare
le
indicibili
cose
che
gli
sussurrava
il
profumo
dei
glicini
di
maggio.
E a
chiedersi
se
le
piante
parlano,
se
hanno
un’anima
come
credeva Pinin.
Certo
che
le
piante
parlano,
almeno
quelle
di
Vinchio,
perché
Lajolo
ne
ha
ascoltato
la
voce
da
bambino.
La
morte
del
padre
gli
fa
venire
l’idea
di
scrivere
un
racconto
sul
suo
paese.
Per
ricordare
i
tanti
altri
personaggi
conosciuti
nell’infanzia
e
per
dimostrare
che
anche
in
una
piccola
borgata
contadina
si
vivono
i
drammi
del
mondo.
Il
tempo
passa,
inesorabile.
E i
figli
crescono,
senza
che
ce
n’accorgiamo.
Così,
durante
uno
dei
suoi
ritorni,
Elio,
bel
giovane
di
Asti
che
frequentava
la
sua
casa,
gli
dice
che
vuole
sposare
Laurana,
sua
figlia.
“Ma
come
–
risponde
Lajolo
– è
ancora
una
bambina?
Ha
ancora
un
anno
davanti
per
prendere
la
laurea”.
“Sei
tu a
vederla
come
una
bambina.
Io e
lei
andiamo
d’accordo”
dice
il
giovane.
E la
figlia
conferma:
“Sì,
papà
è
vero!”.
Lajolo
li
vede
allontanare
allacciati
e si
sente
come
spodestato.
Ma
dalla
finestra
sua
moglie
Rosetta
sorride.
Sì,
il
tempo
passa.
E le
nostalgie
sono
dure
da
debellare.
Al
paese
non
è
più
possibile
vedere
le
bigonce
piene
di
grappoli
d’uva
o
sentire
le
ruote
dei
carri.
Perché
lui
non
è
più
bambino
e i
trattori
ora
hanno
sostituito
per
intero
buoi
e
cavalli.
Perché
ora
anche
l’uva
sembra
diversa,
e
lui
non
è
più
il
comandante
Ulisse
della
guerra
partigiana.
Bisognerebbe
non
tornare
mai
nei
luoghi
sperando
di
ritrovarvi
quello
che
non
c’è
più.
Da
questo
suo
dormiveglia
incantato
e
nostalgico
lo
risvegliano
i
contadini
di
Vinchio,
che
gli
riempiono
la
casa.
Vogliono
che
lui,
l’onorevole
Davide
Lajolo
del
Partito
comunista,
porti
a
Roma
l’elenco
delle
loro
proteste.
Strangolati
come
sono
dai
pochi
compratori
e
dai
prezzi
bassi,
mentre
aumentano
quelli
dei
concimi
e
degli
attrezzi
di
lavoro,
non
hanno
nessuna
curiosità,
nessuna
voglia
d’ammirare
la
sua
ventennale
collezione
di
pipe,
ordinate
nella
rastrelliera.
Era
una
collezione
invidiabile
quella
di
Lajolo.
Tre
pipe,
di
schiuma,
gli
erano
state
donate
a
Vienna
dal
segretario
del
Partito
comunista
australiano;
due
erano
di
Ehrenburg,
una
di
Hemingway,
una
di
Buzzati.
Sono
irritati
i
contadini
del
suo
paese
e
minacciano
manifestazioni
clamorose.
Oltre
ai
problemi
appena
esposti,
ne
hanno
altri.
Come
il
fallimento
delle
cantine
sociali,
in
mano
alla
Democrazia
Cristiana.
Soffre
Lajolo
per
le
condizioni
dei
suoi
amici
contadini.
Soffre
perché
in
parlamento
lui
si
sentiva
come
Saint-Just,
che
diceva:
“Io
qui
sono
come
un
santo,
e la
vita
da
santo
è
una
ben
triste
vita”.
Soffre
perché
lui
è
rimasto
nell’animo
il
partigiano
pronto
a
imbracciare
il
vecchio
mitra
e
con
quello
risolvere
le
questioni.
“Ma
ne
varrebbe
la
pena
ormai?”
chiede
a se
stesso,
sconsolato.
“Prima
gli
americani
hanno
fatto
disarmare
la
Resistenza,
e
oggi
abbiamo
sulla
testa
la
Cia
a
spiare
e a
tramare”.
Davide
Lajolo
(1912-1984)
racconta
la
sua
vita
in
Ventiquattro
anni.
Storia
spregiudicata
di
un
uomo
fortunato.
Si
possono
rileggere
o
ripassare
in
questa
autobiografia
la
politica,
la
cultura,
gli
avvenimenti
più
significativi
della
storia
dell’Italia
e
del
mondo
dal
1945
al
1969.
Una
folla
di
grandi
personaggi
–
quanti
ne
ha
messi
insieme
la
seconda
metà
del
Novecento
– e
una
sequenza
di
ricordi,
affetti,
amicizie,
testimonianze,
passioni
sempre
velati
dalla
più
profonda
nostalgia
per
ciò
che
poteva
essere
e
non
è
stato.
La
vita
di
un
uomo
ribelle
infervorato
da
ideali
di
libertà
e di
giustizia,
fedele
al
partito
e
alla
sua
religione
ma
non
fino
al
punto
di
accettarne
sempre
la
linea
senza
momenti
di
scontro
e di
vera
insubordinazione
quando
non
coincideva
con
le
sue
idee.
Lajolo
sapeva
porsi
a tu
per
tu
con
Togliatti,
Longo,
Amendola
e
con
un
testardo
come
Vidali.
Sapeva
essere
amico,
compagno
di
lotta,
ma
pronto
a
dire
la
sua,
a
discutere
a
testa
alta,
per
far
valere
le
proprie
ragioni,
la
propria
indipendenza
intellettuale
in
fatto
di
politica,
di
letteratura
e
arte.
E
per
questo
la
sua
direzione
di
un
organo
di
partito
come
l’Unità
fu
raro
esempio
di
giornalismo
libero,
più
di
quanto
poteva
esserlo
in
quei
tempi
di
guerra
fredda,
divisione
del
mondo
e
forte
contrapposizione
ideologica.
Non
ci
resta
che
riproporli
i
personaggi
(con
relativi
giudizi)
e i
fatti
della
ricca
autobiografia
di
Davide
Lajolo.
Li
vedi
scorrere,
passare
e
tornare.
Pavese,
Nuto
Revelli,
Chiodi,
Terracini,
Pajetta,
Marchesi,
De
Gasperi,
Scelba,
Mattei,
Kruscev,
Mao,
Di
Vittorio,
Bilenghi,
Vittorini,
Carlo
Levi,
Pratolini,
Comisso,
Quasimodo,
Vitaliano
Brancati,
Longanesi,
Cecchi,
De
Chirico,
Hemingway,
Zavattini,
il
pittore
messicano
Alfaro
Siqueiros
per
citarne
tanti
ma
non
tutti.
Di
Carlo
Levi
scrive
che
era
un
uomo
del
nord
che
non
solo
capisce
il
sud
ma
per
il
sud
profonde
le
sue
energie.
Di
Pratolini,
il
cui
nome
risultava
negli
elenchi
dell’OVRA,
che
era
un
uomo
limpido
in
tempi
oscuri.
Di
Comisso
che
era
tenero
come
la
sua
prosa.
Di
Quasimodo
ricorda
soprattutto
il
giorno
in
cui
gli
viene
assegnato
il
Nobel,
il
suo
venirgli
incontro
raggiante.
Del
poeta
siciliano
amava
i
canti
civili
del
dopoguerra,
d’un
accento
particolare.
Brancati
l’aveva
incontrato
a
Roma
e a
Milano
ed
era
sempre
vestito
di
scuro,
inappuntabile.
Lo
riteneva
autore
fortunato
e
stimato.
“Anna
Proclemer,
sempre
al
suo
fianco,
lo
sovrastava
in
statura,
lui
in
intelligenza
creativa”.
Leo
Longanesi
aveva
per
Lajolo
il
destino
di
salvarsi
comunque,
“appoggiando
e
criticando
contemporaneamente
tutti
i
regimi,
dal
fascismo
a
quello
democristiano”.
Abbaiava
e
mordeva:
ma i
suoi
denti
erano
di
“raffinato
qualunquismo
intellettuale”:
non
affondavano
nelle
carni.
E di
Emilio
Cecchi,
incontrato
a
Roma
parecchie
volte,
diceva
che
era
critico
acuto.
Chi
non
desiderava
una
sua
recensione?
Anche
Pavese,
per
i
propri
libri,
aspettava
le
sue
parole.
Soprattutto
le
sue
parole.
De
Chirico
lo
ricorda
seduto
al
Caffè
Greco.
Il
pittore
guardava
tutti
e
non
vedeva
nessuno.
E
ricorda
Gillo
Pontecorvo,
che
diceva
di
lui:
“Quello
ha
superato
il
problema
di
Amleto
definitivamente.
Non
ha
più
dubbi
né
su
se
stesso
né
sugli
altri.
È
trasvolato
nel
mondo
della
perfezione.
Dialoga
con
i
miti
greci,
con
le
divinità”.
Hemingway
lo
incontrò
alla
mostra
del
cinema
di
Venezia
un
anno
prima
di
apprendere
dai
giornali
la
notizia
del
suo
suicidio.
Lo
scrittore
americano
lo
aveva
investito.
“Perché
si è
ucciso
Pavese?”
gli
aveva
chiesto.
E
nel
riflesso
notturno
del
mare
pareva
più
alto.
“Voi,
che
eravate
suoi
amici,
avreste
dovuto
offrirgli
la
compagnia
per
aiutarlo
a
vivere.
Pavese
non
si
doveva
suicidare.
Portati
dentro
la
tua
parte
di
rimorso”.
Proprio
lui
diceva
queste
cose.
Lui
che
un
anno
dopo
avrebbe
puntato
il
fucile
contro
il
suo
cuore
e si
sarebbe
sparato.
Perché
l’aveva
fatto
Hemingway?
Era
diverso
da
Pavese
“in
tutte
la
manifestazioni
della
vita”.
Aveva
la
voce
tonante,
era
cacciatore
di
belve,
era
l’immagine
della
vitalità.
Perché
l’aveva
fatto?
Ma
gli
era
difficile
trovare
la
risposta.
Uomo
di
collina,
Lajolo
apprezzava
anche
il
fascino
triste
della
pianura,
infinita
a
perdita
d’occhio
come
il
mare.
La
sua
aria
ferma,
le
piante
immobili.
Ma
quando
vi
passeggiava
con
Zavattini
e
discutevano
del
cinema,
delle
lettere
e di
tutto,
un
orecchio
al
Po e
gli
occhi
al
cielo,
aveva
la
sensazione
che
il
vero
fascino
che
avvertiva
era
quello
di
questo
poeta,
scrittore
e
pittore.
Infine
il
giudizio
su
Alfaro
Siqueiros,
“che
dipinge
per
lottare
e
lotta
per
dipingere.
Vibra
in
ogni
sua
parola
il
Messico
dolorante
e
battagliero”.
Riteneva
De
Gasperi
personalmente
un
galantuomo,
ma
di
sfruttamento
dei
lavoratori
la
sua
politica.
Con
Nenni,
Lajolo
discuteva
a
lungo.
E
così
scontentava
Togliatti
che
riteneva
il
leader
socialista
non
molto
preparato
ideologicamente.
Pietro
Nenni
era
un
uomo
che
masticava
politica
di
continuo,
ma
pagava
ingenuamente
la
sua
fiducia
negli
uomini.
A
Giuseppe
Di
Vittorio,
storico
leader
della
Cgil,
Lajolo
riserva
parole
molte
belle
nella
sua
autobiografia.
Scrive
che
chi
gli
stringeva
la
mano
una
volta
se
lo
sentiva
amico
e
che
era
l’italiano
che
con
più
successo
aveva
contribuito
a
unire
il
nord
e il
sud.
Enrico
Mattei
lo
incontrò
a
Milano,
città
senz’occhi
e
avvolta
dalla
ragnatela
della
nebbia
lutulenta.
Parlarono
degli
“infiniti”
giacimenti
di
metano.
Infiniti?
“Tu
fai
politica
più
di
me –
gli
disse
il
presidente
dell’Eni
– e
sai
bene
che
si
vive
un
po’
tutti
più
di
demagogia
che
di
verità”.
Il 5
giugno
del
1956
le
parole
del
Rapporto
Segreto
di
Kruscev,
pubblicato
dal
New
York
Times,
cadono
sulla
testa
di
Lajolo
come
chicchi
di
grandine.
Tanto
da
ricordargli
la
tempesta
violenta
che
colse
lui
e
suo
padre
nella
vigna
di
San
Michele.
Ma
la
grandinata
metaforica
di
adesso,
la
grandinata
di
quel
Rapporto
di
cui
il
mondo
veniva
all’improvviso
a
conoscenza,
era
per
lui
più
devastante
di
quella
vera
dei
ricordi
contadini.
Passano
i
mesi,
e
quello
stesso
anno
torna
a
grandinare
con
violenza
sui
comunisti
di
tutto
il
mondo.
Gli
intellettuali
del
circolo
Petöfi
accendono
la
scintilla
della
libertà
in
Ungheria,
dove
operai
e
studenti
muoiono
combattendo
contro
i
soldati
dell’Urss
intervenuti
per
reprimere
la
rivolta.
Una
tragedia.
La
tragedia
“di
ognuno
di
noi”
scrive
Lajolo.
Triste
campanello
d’allarme,
la
campagna
di
disgelo
di
Nikita
Kruscev,
la
sua
politica
di
pacifica
convivenza
tra
paesi
a
diverso
regime
politico,
dopo
la
morte
di
Stalin,
si
arresta
in
Ungheria.
Verrà
destituito
nel
1963
(l’anno
in
cui
escono
di
scena
anche
Kennedy
e
papa
Giovanni):
e
Suslov
sarà
l’artefice
della
sua
caduta.
Quando
Lajolo
si
reca
in
Cina
per
intervistarlo,
nella
Cina
infinita
e
misteriosa,
Mao
sorseggia
il
tè,
la
sua
bevanda
celeste;
e
gli
dice
che
“il
compagno
Kruscev
ha
avuto
il
coraggio
di
alzare
il
coperchio
rovente
della
pentola
e di
impedirne
lo
scoppio...
(perché,
NdA)
Stalin
si
era
comportato
come
il
Gengis
Khan
del
comunismo:
negli
ultimi
anni
e
nelle
sue
ultime
decisioni,
aveva
trasferito
nel
marxismo
un
clima
feudale”.
Prima
di
partire,
di
tornare
in
Italia,
Lajolo
scrive
dei
versi
per
l’ultima
ragazza
interprete
di
Canton:
“Nelle
perle
degli
occhi/luminoso
è il
mondo”.
Uno
dei
compagni
che
Lajolo
ricorda
con
più
affetto
è
Celeste
Negarville,
che
aveva
pagato
per
la
sconfitta
alla
Fiat.
Alla
Gelateria
Giolitti,
presso
Montecitorio,
i
gelati
avevano
per
Negarville
un
gusto
speciale.
Sul
letto
di
morte,
chiede
a
Lajolo,
che
era
andato
a
trovarlo,
di
prendergliene
uno.
E
poi
gli
dice,
con
amarezza:
“Tu,
come
me,
hai
solo
una
figlia.
Per
tutta
la
vita
io
ho
pensato
prima
al
partito
e
poi
a
mia
figlia.
Non
è
stato
giusto,
non
imitarmi”.
Era
vero.
I
figli
son
figli,
diceva
Eduardo
De
Filippo.
Non
si
devono
trascurare.
Per
nessuna
ragione
al
mondo.
Lajolo
ha
avuto
due
infarti
e il
secondo
gli
è
stato
fatale.
Da
tempo
la
disillusione
s’era
impadronita
di
lui.
Più
dei
fatti
d’Ungheria
o
del
Rapporto
di
Kruscev,
grandinate
violente
sulla
testa
dei
comunisti,
era
la
Resistenza
dimenticata
insieme
ai
suoi
padri,
e
ora
anche
nei
cortei
giovanili
del
Sessantotto,
che
lo
tormentava.
Il
sociologo
Marcuse
era
diventato
il
nuovo
dominatore
del
pensiero
politico.
E al
comandante
Ulisse
non
riusciva
facile
accettarlo.
La
biografia
di
Cesare
Pavese
la
scrisse
di
notte
“nel
fumo
della
pipa
e
dei
sigari”.
E a
spingerlo
era
stato
Giacomo
Debenedetti,
che
ogni
settimana
gli
chiedeva
a
che
punto
fosse.
Erano
degli
stessi
luoghi
lui
e
Pavese,
degli
stessi
paesi;
conoscevano
il
sole
dei
filari,
erano
stati
strappati
dalla
campagna
e
portati
nel
grigiore
delle
grandi
città,
avevano
molti
ricordi
in
comune,
avevano
trascorso
notti
e
notti
in
lunghi
colloqui
accompagnandosi
a
casa
l’un
l’altro.
Per
cui
la
penna
di
Lajolo
scorreva
sulla
pagina
senza
sforzo,
come
sotto
dettatura.
E
quando
il
libro
fu
pronto
lo
intitolò
Il
vizio
assurdo
(Premio
Crotone,
1960).
Quale
titolo
poteva
dare
alla
biografia
umana
e
poetica
di
Pavese
se
non
ricercandolo
nei
suoi
versi,
nei
suoi
ultimi
versi?
“Questa
morte
che
ci
accompagna/dal
mattino
alla
sera
insonne/sorda,
come
un
vecchio
rimorso/o
un
vizio
assurdo”.
Cesare
Pavese,
altro
fumatore
di
pipa,
aveva
scatti
d’orgoglio
improvvisi
come
i
suoi
silenzi,
che
erano
tetri
e
gli
serravano
la
bocca.
Soprattutto
di
notte
si
trasfigurava,
diventava
irriconoscibile.
Nel
baule
dove
la
sorella
di
Cesare
aveva
conservato
le
sue
cose,
Lajolo
trovò
molte
lettere,
indirizzate
a
donne,
studiosi
americani.
Trovò
anche
la
tessera
del
partito
comunista.
Ma
la
spiegazione
del
suo
suicidio
(lui
non
aveva
scelto
il
fucile
come
farà
Hemingway,
ma i
barbiturici)
era
nella
Belva
dei
Dialoghi
con
Leucò:
“Ciascuno
ha
il
sonno
che
gli
tocca.
E il
tuo...
dormilo
con
coraggio”.
Lajolo
dice
che
Hemingway
e
Pavese
soffrivano
di
solitudine
interiore
e
che
temevano
l’aridità,
la
fine
della
poesia
e
delle
parole.
Anche
con
Vittorini,
a
Milano,
Lajolo
discuteva
fino
alle
tre
del
mattino.
Lo
accompagnava
a
casa
di
fronte
al
Naviglio.
E
anche
a
lui
era
difficile
tirare
le
parole
di
bocca.
Ma
una
notte
parlò
tanto
quest’uomo
incantevole,
questo
scrittore
che
era
fiamma
incontaminata,
fuoco
che
non
fa
cenere.
La
notte
in
cui
il
suo
arrivederci
a
Lajolo
sembrò
un
addio.
Parlò
proprio
delle
parole,
dell’universo
che
sono,
e di
come
presto
si
consumano,
tanto
da
doverne
sempre
inventare
di
nuove.
Parlava
della
Sicilia,
della
sua
nostalgia
per
i
fichi
d’India.
Tornarvi,
tornare
nella
sua
terra
gli
procurava
più
sofferenza
che
starne
lontano.
Ricordarne
persone
e
immagini,
strade,
campagne
e i
“caldi
silenzi”
notturni
delle
stazioni
ferroviarie
era
invece
per
lui
meno
doloroso.
“Io
non
posso
accettare
l’idea
d’una
Sicilia
immobile”
diceva
a
Lajolo.
“Ecco
perché
ho
detto
no
senza
rimorsi
alla
pubblicazione
del
Gattopardo:
è un
romanzo
polveroso
di
passato,
che
dei
drammi
umani
dà
soltanto
il
senso
dell’immobilità.
E io
non
accetto
che
tutto
cambi
perché
nulla
cambi”.
Per
Vittorini
era
essenziale
rinnovarsi
nella
scrittura,
anche
quando
si
parla
del
passato,
dei
tempi
che
Lampedusa
racconta.
Perché
tutto
si
trasforma.
Si
trasforma
nel
profondo.
È
dentro
a
Lampedusa,
dentro
ai
siciliani
che
non
si
scuotono
che
tutto
è
rimasto
immobile.
Il
pessimismo
va
sconfitto,
e
quello
dei
siciliani
in
particolar
modo.
“Io
sono
per
gli
uomini
che
trasformano
il
mondo”
gli
dice,
mentre
il
Naviglio
scorre
silenzioso
e
lui
sale
in
casa
per
vederlo
ancora
dalla
finestra
“splendere
sotto
le
luci”.
Le
pagine
che
Davide
Lajolo
dedica
a
Pavese
e a
Vittorini
sono
indubbiamente
le
più
belle
di
questa
grande
autobiografia
che
abbraccia
ventiquattro
anni
della
storia
politica
e
culturale
dell’Italia.
Chi
era
Elio
Vittorini?
– si
chiede
Lajolo
all’improvviso.
E
pare
mettere
nella
domanda
l’obbligo
di
una
risposta
degna.
Una
risposta
che
non
ci
fa
mancare.
Vittorini
era
per
Lajolo
la
coscienza
civile
di
ognuno
di
noi;
attraverso
di
lui
parlava
tutta
l’umana
cultura
non
soltanto
la
letteratura.
Questo
siculo
era
davvero
un
“gran
lombardo”.
Quello
di
cui
parla
in
Conversazione
in
Sicilia.
Nelle
ultime
pagine
Lajolo
racconta
dell’incontro
sul
treno
con
il
ragazzo
che
legge
il
manifesto.
Ha
anche
lui
la
testa
piena
di
Marcuse,
ma
adora
Dostoevskij
i
cui
messaggi
vengono
da
quella
terra
dove
“è
avvenuta
l’unica
rivoluzione
che
ha
cambiato
la
faccia
del
mondo”.
Che
doveva
cambiarla.
Lo
consola
il
fatto
che
tra
pochi
giorni
è
Natale
e
che
lui
sta
per
ritornare
a
Vinchio,
nella
serenità
del
suo
paese
coperto
di
neve
dove
si
può
ascoltare
la
voce
delle
piante
e
dove
i
boschi
sono
abitati
dalle
Masche.