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N. 77 - Maggio 2014 (CVIII)

Il comandante Ulisse
DAVIDE Lajolo, tra Pavese e Vittorini

di Gaetano Cellura

 

Le colline delle Langhe sono tra “le più ricche d’uva e di boschi e di verde e di ossigeno e di salute”. Non c’è luogo d’Italia più silenzioso dei paesi e dei sentieri di terra rossa e nera lì raccolti.

 

E lì la Resistenza, l’odio per il nemico è stato così forte fino a impazzirne. Davide Lajolo e Beppe Fenoglio quei luoghi li conoscono come le loro tasche – paesi, colline e sentieri descritti nei loro racconti e romanzi.

 

Uno era di Vinchio, provincia di Asti. L’altro di Alba, provincia di Cuneo. Tutti e due erano partigiani. Il comandante Lajolo, chiamato Ulisse, portava il berretto con la stella rossa garibaldina. Beppe Fenoglio, o Beppe-Johnny, apparteneva ai partigiani azzurri. Senza ideologie, ma animati dalla forte passione per la giustizia.

 

Era stata l’ignominia dell’8 Settembre ad averlo spinto nella Resistenza, nella lotta per la Liberazione. Che rese epica con il romanzo Il partigiano Johnny, scritto in italiano e in inglese e uscito postumo nel 1968.

 

Figlio di un garzone di macellaio, Fenoglio incontrò non poche difficoltà economiche per frequentare il liceo di Alba e poi l’università di Torino. Imparò la lingua inglese, per la quale mostrava uno straordinario talento, senza essersi mai mosso dall’Italia. E la lettura delle opere di Marlowe, di Coleridge e di Melville lo aiutò a diventare scrittore metafisico che salpa verso l’assoluto. Diceva di scrivere per un’infinità di motivi, ma non certo per divertimento. Perché gli costava parecchia fatica. La più spensierata delle sue pagine usciva “da una decina di penosi rifacimenti”.

 

Lajolo e Fenoglio s’incontrano su una di quelle colline: e frammezzo alla guerra nefanda, alla guerra che ti cambia i connotati, ti rende irriconoscibile pure ai tuoi, trovano il momento per parlare di letteratura, loro irrinunciabile amore. Lajolo gli parla del giudizio di Vittorini su La malora, il libro ancora inedito di Fenoglio: “Dice che tiri il fiato troppo lungo”. E Beppe risponde: “Vittorini ha ragione. Perché ce l’ho corto”. La malora sarà pubblicato dieci anni dopo, nel 1954.

 

Lajolo tornerà su quella collina, a guerra finita, durante una delle tante passeggiate con i suoi amati cani, Febo e Socrate. Passeggiate che faceva tutte le volte che, da Milano o da Roma, tornava al paese.

 

E ricorderà quell’incontro con Fenoglio, con cui poi ebbe qualche contrasto per la pubblicazione da Einaudi dei Ventitré giorni della città di Alba, in uno dei suoi racconti della raccolta I Mè. Dove il vecchio partigiano Gustu gli indica il bricco sul quale anche lui, durante la Resistenza, aveva incontrato lo scrittore di Alba; e gli dice di essere pronto, come un tempo, ad aspettare il camerata Kesselring: “Noi, comandante, non abbiamo età, non siamo gente da pensione, né da resa di fronte a nessuno”. Gustu ora malinconicamente assiste allo spopolamento delle campagne: tutti corrono – dice – verso la città, la Fiat, la Ferrero, a imprigionarsi nelle fabbriche senza sole né luce. Lajolo stroncò sull’Unità il racconto di Fenoglio I ventitré giorni della città di Alba perché, a suo giudizio, falsava la realtà dando un quadro per nulla eroico, e anzi caricaturale, della Resistenza.

 

I Mé (racconto senza fine tra Langhe e Monferrato: ci spiega il sottotitolo) è un omaggio ai contadini del suo paese: “tutti color terra, bruciati dal sole, rassegnati e caustici..., ancora troppo poveri di terra e di scuole e di tutto”. Libro commovente e sincero, specialmente sincero, per Mario Soldati che ne scrive la prefazione. E tutto è davvero commozione. Tutto è ricordo.

 

Le strade di Vinchio “che, pur distanziate da lunghi tratti di piante e vigne, s’allungano alle case di campagna”. La grandine e la filossera che devastano i vigneti, lasciandoli senza uva e senza vendemmia, e riducono in miseria i contadini costringendoli a emigrare. A tentare l’avventura dell’America o dell’Australia. Le albe scure della loro partenza.

 

Della partenza dei vicini di casa, come Vigin, che andavano a fare i lavapiatti per mandare soldi a casa. Gli altri mangiavano e loro pulivano. E prima dell’emigrazione forzata le partenze, ancora più dolorose, per la guerra. Con i padri che non piangevano, ma dicevano di no con tutto il loro portamento.

 

Perché i figli se li vedevano rubare. E perché le mani, dicevano, bisogna usarle per dissodare la terra, non per sparare. I ricordi color sangue della guerra partigiana, tra le colline monferrine e le Langhe: la neve, i posti di blocco, i rastrellamenti, il pugnale dei fascisti puntato contro il petto degli inermi, la vita nelle stalle per sfuggire al nemico che ti bracca e il ruminare di buoi e mucche che “ti aiuta a dormire”.

 

Il primo di questi racconti di Lajolo s’intitola Le Masche. Ed è la storia di Pinin – giovane alto e forte, sensibile e sfortunato – e della maestra Maria Rosa, che gli racconta l’Iliade e l’Odissea. Pinin è contro la guerra: e quando riceve la cartolina precetto spranga la porta di casa con la scritta “partito per ignota destinazione”.

 

Va a vivere nei boschi sotto la protezione delle Masche, che sono le anime delle piante. E nessuno riesce a trovarlo finché dura la luce bianca del loro incantesimo protettivo. Una volta ritrovato, una volta scoperta la sua “ignota destinazione”, Pinin parte, è costretto a partire per la guerra.

 

Ma il suo fucile resta sempre con il colpo in canna. Mentre è una bomba sfracellare lui, mutilandolo per tutta la vita. Ora è di nuovo al suo paese, nell’attesa che le evanescenze dei boschi ritornino. Erano tre le Masche. “Una più vecchia che io chiamavo la madre e due più giovani – dice Pinin, mutilato di guerra. – Una l’ho chiamata Maria Rosa”. Con lei consumava anche l’amore, nelle notti di plenilunio. Ed era, per Pinin, come cadere nel delirio, bagnarsi nel mare: “una dolcezza senza limiti”.

 

Finita la guerra, a Davide Lajolo viene affidata dal Partito comunista la direzione dell’Unità di Milano. È l’inizio di una carriera – di giornalista, scrittore e politico – che lo vedrà deputato per tre legislature. Ma pur vivendo lontano da Vinchio, Lajolo mantiene vivo il legame con il suo paese e la sua gente. E quando vi torna, tra i vigneti carichi d’uva, nei volti dei contadini che incontra, rivede sempre il volto di Pavese, che negli occhi portava la solitudine della città, e pensa di capire meglio le sue contraddizioni, i suoi dubbi.

 

Era bello per il comandante Ulisse starsene seduto nel cortile di casa, i cani Febo e Socrate sdraiati ai suoi piedi sull’erba nel sole del meriggio, ad ascoltare le indicibili cose che gli sussurrava il profumo dei glicini di maggio. E a chiedersi se le piante parlano, se hanno un’anima come credeva Pinin.

 

Certo che le piante parlano, almeno quelle di Vinchio, perché Lajolo ne ha ascoltato la voce da bambino. La morte del padre gli fa venire l’idea di scrivere un racconto sul suo paese. Per ricordare i tanti altri personaggi conosciuti nell’infanzia e per dimostrare che anche in una piccola borgata contadina si vivono i drammi del mondo. Il tempo passa, inesorabile. E i figli crescono, senza che ce n’accorgiamo.

 

Così, durante uno dei suoi ritorni, Elio, bel giovane di Asti che frequentava la sua casa, gli dice che vuole sposare Laurana, sua figlia. “Ma come – risponde Lajolo – è ancora una bambina? Ha ancora un anno davanti per prendere la laurea”. “Sei tu a vederla come una bambina. Io e lei andiamo d’accordo” dice il giovane. E la figlia conferma: “Sì, papà è vero!”.

 

 

Lajolo li vede allontanare allacciati e si sente come spodestato. Ma dalla finestra sua moglie Rosetta sorride. Sì, il tempo passa. E le nostalgie sono dure da debellare. Al paese non è più possibile vedere le bigonce piene di grappoli d’uva o sentire le ruote dei carri.

 

Perché lui non è più bambino e i trattori ora hanno sostituito per intero buoi e cavalli. Perché ora anche l’uva sembra diversa, e lui non è più il comandante Ulisse della guerra partigiana.

 

Bisognerebbe non tornare mai nei luoghi sperando di ritrovarvi quello che non c’è più. Da questo suo dormiveglia incantato e nostalgico lo risvegliano i contadini di Vinchio, che gli riempiono la casa. Vogliono che lui, l’onorevole Davide Lajolo del Partito comunista, porti a Roma l’elenco delle loro proteste.

 

Strangolati come sono dai pochi compratori e dai prezzi bassi, mentre aumentano quelli dei concimi e degli attrezzi di lavoro, non hanno nessuna curiosità, nessuna voglia d’ammirare la sua ventennale collezione di pipe, ordinate nella rastrelliera. Era una collezione invidiabile quella di Lajolo.

 

Tre pipe, di schiuma, gli erano state donate a Vienna dal segretario del Partito comunista australiano; due erano di Ehrenburg, una di Hemingway, una di Buzzati. Sono irritati i contadini del suo paese e minacciano manifestazioni clamorose. Oltre ai problemi appena esposti, ne hanno altri.

 

Come il fallimento delle cantine sociali, in mano alla Democrazia Cristiana. Soffre Lajolo per le condizioni dei suoi amici contadini. Soffre perché in parlamento lui si sentiva come Saint-Just, che diceva: “Io qui sono come un santo, e la vita da santo è una ben triste vita”.

 

Soffre perché lui è rimasto nell’animo il partigiano pronto a imbracciare il vecchio mitra e con quello risolvere le questioni. “Ma ne varrebbe la pena ormai?” chiede a se stesso, sconsolato. “Prima gli americani hanno fatto disarmare la Resistenza, e oggi abbiamo sulla testa la Cia a spiare e a tramare”.

 

Davide Lajolo (1912-1984) racconta la sua vita in Ventiquattro anni. Storia spregiudicata di un uomo fortunato. Si possono rileggere o ripassare in questa autobiografia la politica, la cultura, gli avvenimenti più significativi della storia dell’Italia e del mondo dal 1945 al 1969.

 

Una folla di grandi personaggi – quanti ne ha messi insieme la seconda metà del Novecento – e una sequenza di ricordi, affetti, amicizie, testimonianze, passioni sempre velati dalla più profonda nostalgia per ciò che poteva essere e non è stato.

 

La vita di un uomo ribelle infervorato da ideali di libertà e di giustizia, fedele al partito e alla sua religione ma non fino al punto di accettarne sempre la linea senza momenti di scontro e di vera insubordinazione quando non coincideva con le sue idee.

 

Lajolo sapeva porsi a tu per tu con Togliatti, Longo, Amendola e con un testardo come Vidali. Sapeva essere amico, compagno di lotta, ma pronto a dire la sua, a discutere a testa alta, per far valere le proprie ragioni, la propria indipendenza intellettuale in fatto di politica, di letteratura e arte. E per questo la sua direzione di un organo di partito come l’Unità fu raro esempio di giornalismo libero, più di quanto poteva esserlo in quei tempi di guerra fredda, divisione del mondo e forte contrapposizione ideologica.

 

Non ci resta che riproporli i personaggi (con relativi giudizi) e i fatti della ricca autobiografia di Davide Lajolo. Li vedi scorrere, passare e tornare. Pavese, Nuto Revelli, Chiodi, Terracini, Pajetta, Marchesi, De Gasperi, Scelba, Mattei, Kruscev, Mao, Di Vittorio, Bilenghi, Vittorini, Carlo Levi, Pratolini, Comisso, Quasimodo, Vitaliano Brancati, Longanesi, Cecchi, De Chirico, Hemingway, Zavattini, il pittore messicano Alfaro Siqueiros per citarne tanti ma non tutti.

 

Di Carlo Levi scrive che era un uomo del nord che non solo capisce il sud ma per il sud profonde le sue energie. Di Pratolini, il cui nome risultava negli elenchi dell’OVRA, che era un uomo limpido in tempi oscuri. Di Comisso che era tenero come la sua prosa. Di Quasimodo ricorda soprattutto il giorno in cui gli viene assegnato il Nobel, il suo venirgli incontro raggiante.

 

Del poeta siciliano amava i canti civili del dopoguerra, d’un accento particolare. Brancati l’aveva incontrato a Roma e a Milano ed era sempre vestito di scuro, inappuntabile. Lo riteneva autore fortunato e stimato. “Anna Proclemer, sempre al suo fianco, lo sovrastava in statura, lui in intelligenza creativa”.

 

Leo Longanesi aveva per Lajolo il destino di salvarsi comunque, “appoggiando e criticando contemporaneamente tutti i regimi, dal fascismo a quello democristiano”. Abbaiava e mordeva: ma i suoi denti erano di “raffinato qualunquismo intellettuale”: non affondavano nelle carni.

 

E di Emilio Cecchi, incontrato a Roma parecchie volte, diceva che era critico acuto. Chi non desiderava una sua recensione?

 

Anche Pavese, per i propri libri, aspettava le sue parole. Soprattutto le sue parole. De Chirico lo ricorda seduto al Caffè Greco. Il pittore guardava tutti e non vedeva nessuno.

 

E ricorda Gillo Pontecorvo, che diceva di lui: “Quello ha superato il problema di Amleto definitivamente. Non ha più dubbi né su se stesso né sugli altri. È trasvolato nel mondo della perfezione. Dialoga con i miti greci, con le divinità”.

 

Hemingway lo incontrò alla mostra del cinema di Venezia un anno prima di apprendere dai giornali la notizia del suo suicidio. Lo scrittore americano lo aveva investito. “Perché si è ucciso Pavese?” gli aveva chiesto. E nel riflesso notturno del mare pareva più alto. “Voi, che eravate suoi amici, avreste dovuto offrirgli la compagnia per aiutarlo a vivere. Pavese non si doveva suicidare. Portati dentro la tua parte di rimorso”.

 

Proprio lui diceva queste cose. Lui che un anno dopo avrebbe puntato il fucile contro il suo cuore e si sarebbe sparato. Perché l’aveva fatto Hemingway? Era diverso da Pavese “in tutte la manifestazioni della vita”. Aveva la voce tonante, era cacciatore di belve, era l’immagine della vitalità. Perché l’aveva fatto? Ma gli era difficile trovare la risposta.

 

Uomo di collina, Lajolo apprezzava anche il fascino triste della pianura, infinita a perdita d’occhio come il mare. La sua aria ferma, le piante immobili.

 

Ma quando vi passeggiava con Zavattini e discutevano del cinema, delle lettere e di tutto, un orecchio al Po e gli occhi al cielo, aveva la sensazione che il vero fascino che avvertiva era quello di questo poeta, scrittore e pittore. Infine il giudizio su Alfaro Siqueiros, “che dipinge per lottare e lotta per dipingere. Vibra in ogni sua parola il Messico dolorante e battagliero”.

 

Riteneva De Gasperi personalmente un galantuomo, ma di sfruttamento dei lavoratori la sua politica. Con Nenni, Lajolo discuteva a lungo.

 

E così scontentava Togliatti che riteneva il leader socialista non molto preparato ideologicamente. Pietro Nenni era un uomo che masticava politica di continuo, ma pagava ingenuamente la sua fiducia negli uomini.

 

A Giuseppe Di Vittorio, storico leader della Cgil, Lajolo riserva parole molte belle nella sua autobiografia. Scrive che chi gli stringeva la mano una volta se lo sentiva amico e che era l’italiano che con più successo aveva contribuito a unire il nord e il sud.

 

Enrico Mattei lo incontrò a Milano, città senz’occhi e avvolta dalla ragnatela della nebbia lutulenta. Parlarono degli “infiniti” giacimenti di metano. Infiniti? “Tu fai politica più di me – gli disse il presidente dell’Eni – e sai bene che si vive un po’ tutti più di demagogia che di verità”.

 

Il 5 giugno del 1956 le parole del Rapporto Segreto di Kruscev, pubblicato dal New York Times, cadono sulla testa di Lajolo come chicchi di grandine. Tanto da ricordargli la tempesta violenta che colse lui e suo padre nella vigna di San Michele.

 

Ma la grandinata metaforica di adesso, la grandinata di quel Rapporto di cui il mondo veniva all’improvviso a conoscenza, era per lui più devastante di quella vera dei ricordi contadini. Passano i mesi, e quello stesso anno torna a grandinare con violenza sui comunisti di tutto il mondo.

 

Gli intellettuali del circolo Petöfi accendono la scintilla della libertà in Ungheria, dove operai e studenti muoiono combattendo contro i soldati dell’Urss intervenuti per reprimere la rivolta. Una tragedia. La tragedia “di ognuno di noi” scrive Lajolo.

 

Triste campanello d’allarme, la campagna di disgelo di Nikita Kruscev, la sua politica di pacifica convivenza tra paesi a diverso regime politico, dopo la morte di Stalin, si arresta in Ungheria. Verrà destituito nel 1963 (l’anno in cui escono di scena anche Kennedy e papa Giovanni): e Suslov sarà l’artefice della sua caduta.

 

Quando Lajolo si reca in Cina per intervistarlo, nella Cina infinita e misteriosa, Mao sorseggia il tè, la sua bevanda celeste; e gli dice che “il compagno Kruscev ha avuto il coraggio di alzare il coperchio rovente della pentola e di impedirne lo scoppio... (perché, NdA) Stalin si era comportato come il Gengis Khan del comunismo: negli ultimi anni e nelle sue ultime decisioni, aveva trasferito nel marxismo un clima feudale”. Prima di partire, di tornare in Italia, Lajolo scrive dei versi per l’ultima ragazza interprete di Canton: “Nelle perle degli occhi/luminoso è il mondo”.

 

Uno dei compagni che Lajolo ricorda con più affetto è Celeste Negarville, che aveva pagato per la sconfitta alla Fiat. Alla Gelateria Giolitti, presso Montecitorio, i gelati avevano per Negarville un gusto speciale. Sul letto di morte, chiede a Lajolo, che era andato a trovarlo, di prendergliene uno. E poi gli dice, con amarezza: “Tu, come me, hai solo una figlia. Per tutta la vita io ho pensato prima al partito e poi a mia figlia. Non è stato giusto, non imitarmi”. Era vero. I figli son figli, diceva Eduardo De Filippo. Non si devono trascurare. Per nessuna ragione al mondo.

 

Lajolo ha avuto due infarti e il secondo gli è stato fatale. Da tempo la disillusione s’era impadronita di lui. Più dei fatti d’Ungheria o del Rapporto di Kruscev, grandinate violente sulla testa dei comunisti, era la Resistenza dimenticata insieme ai suoi padri, e ora anche nei cortei giovanili del Sessantotto, che lo tormentava.

 

Il sociologo Marcuse era diventato il nuovo dominatore del pensiero politico. E al comandante Ulisse non riusciva facile accettarlo.

 

La biografia di Cesare Pavese la scrisse di notte “nel fumo della pipa e dei sigari”. E a spingerlo era stato Giacomo Debenedetti, che ogni settimana gli chiedeva a che punto fosse. Erano degli stessi luoghi lui e Pavese, degli stessi paesi; conoscevano il sole dei filari, erano stati strappati dalla campagna e portati nel grigiore delle grandi città, avevano molti ricordi in comune, avevano trascorso notti e notti in lunghi colloqui accompagnandosi a casa l’un l’altro.

 

Per cui la penna di Lajolo scorreva sulla pagina senza sforzo, come sotto dettatura. E quando il libro fu pronto lo intitolò Il vizio assurdo (Premio Crotone, 1960).

 

Quale titolo poteva dare alla biografia umana e poetica di Pavese se non ricercandolo nei suoi versi, nei suoi ultimi versi?

 

“Questa morte che ci accompagna/dal mattino alla sera insonne/sorda, come un vecchio rimorso/o un vizio assurdo”. Cesare Pavese, altro fumatore di pipa, aveva scatti d’orgoglio improvvisi come i suoi silenzi, che erano tetri e gli serravano la bocca.

 

Soprattutto di notte si trasfigurava, diventava irriconoscibile. Nel baule dove la sorella di Cesare aveva conservato le sue cose, Lajolo trovò molte lettere, indirizzate a donne, studiosi americani. Trovò anche la tessera del partito comunista.

 

Ma la spiegazione del suo suicidio (lui non aveva scelto il fucile come farà Hemingway, ma i barbiturici) era nella Belva dei Dialoghi con Leucò: “Ciascuno ha il sonno che gli tocca. E il tuo... dormilo con coraggio”. Lajolo dice che Hemingway e Pavese soffrivano di solitudine interiore e che temevano l’aridità, la fine della poesia e delle parole.

 

Anche con Vittorini, a Milano, Lajolo discuteva fino alle tre del mattino. Lo accompagnava a casa di fronte al Naviglio. E anche a lui era difficile tirare le parole di bocca. Ma una notte parlò tanto quest’uomo incantevole, questo scrittore che era fiamma incontaminata, fuoco che non fa cenere. La notte in cui il suo arrivederci a Lajolo sembrò un addio.

 

Parlò proprio delle parole, dell’universo che sono, e di come presto si consumano, tanto da doverne sempre inventare di nuove. Parlava della Sicilia, della sua nostalgia per i fichi d’India. Tornarvi, tornare nella sua terra gli procurava più sofferenza che starne lontano. Ricordarne persone e immagini, strade, campagne e i “caldi silenzi” notturni delle stazioni ferroviarie era invece per lui meno doloroso.

 

“Io non posso accettare l’idea d’una Sicilia immobile” diceva a Lajolo. “Ecco perché ho detto no senza rimorsi alla pubblicazione del Gattopardo: è un romanzo polveroso di passato, che dei drammi umani dà soltanto il senso dell’immobilità. E io non accetto che tutto cambi perché nulla cambi”.

 

Per Vittorini era essenziale rinnovarsi nella scrittura, anche quando si parla del passato, dei tempi che Lampedusa racconta. Perché tutto si trasforma. Si trasforma nel profondo. È dentro a Lampedusa, dentro ai siciliani che non si scuotono che tutto è rimasto immobile. Il pessimismo va sconfitto, e quello dei siciliani in particolar modo. “Io sono per gli uomini che trasformano il mondo” gli dice, mentre il Naviglio scorre silenzioso e lui sale in casa per vederlo ancora dalla finestra “splendere sotto le luci”.

 

Le pagine che Davide Lajolo dedica a Pavese e a Vittorini sono indubbiamente le più belle di questa grande autobiografia che abbraccia ventiquattro anni della storia politica e culturale dell’Italia. Chi era Elio Vittorini? – si chiede Lajolo all’improvviso.

 

E pare mettere nella domanda l’obbligo di una risposta degna. Una risposta che non ci fa mancare. Vittorini era per Lajolo la coscienza civile di ognuno di noi; attraverso di lui parlava tutta l’umana cultura non soltanto la letteratura. Questo siculo era davvero un “gran lombardo”. Quello di cui parla in Conversazione in Sicilia.

 

Nelle ultime pagine Lajolo racconta dell’incontro sul treno con il ragazzo che legge il manifesto. Ha anche lui la testa piena di Marcuse, ma adora Dostoevskij i cui messaggi vengono da quella terra dove “è avvenuta l’unica rivoluzione che ha cambiato la faccia del mondo”. Che doveva cambiarla.

 

Lo consola il fatto che tra pochi giorni è Natale e che lui sta per ritornare a Vinchio, nella serenità del suo paese coperto di neve dove si può ascoltare la voce delle piante e dove i boschi sono abitati dalle Masche.



 

 

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