N. 45 - Settembre 2011
(LXXVI)
Dark Horse
“disfunzioni” della famiglia consumistica
di Leila Tavi
Il regista indipendente, originario del New Jersey, torna in concorso al 68° festival del cinema di Venezia con il film Dark Horse dopo il successo di Life During Wartime, premiato nel 2009 come migliore sceneggiatura.
In
una
società
dove
il
consumismo
incoraggia
a
rimanere
adolescenti
Abe
(Jordan
Gelber),
un
quarantenne
che
è
ossessionato
dalla
sua
mania
di
collezionare
pupazzi
dei
cartoni
animati,
trascorre
la
sua
vita
ancora
sotto
lo
sguardo
protettivo,
e
allo
stesso
tempo
asfissiante,
dei
suoi
genitori.
Non
ha
mai
voluto
lasciare
la
casa
dove
è
cresciuto,
lavora
con
scarsi
risultati
nell’impresa
di
costruzioni
del
padre
(Christopher
Walken)
e
trascorre
il
suo
tempo
libero
giocando
a
backgammon
con
sua
madre
(Mia
Farrow).
La
sua
stanza
sembra
quella
di
un
adolescente,
dove
in
bella
mostra
sugli
scaffali
ci
sono
tutti
i
giocattoli
di
Abe,
il
quale
sembra
vivere
nel
compulsivo
bisogno
di
aumentare
la
sua
collezione.
I
suoi
diverbi
con
il
commesso
di
Toys
R Us
che,
barricato
dietro
un
bancone
fatto
di
enormi
tessere
simili
a
quelle
del
cubo
di
Rubik,
gli
nega
di
esporre
i
suoi
reclami
al
responsabile
della
filiale,
riecheggiano
i
frustranti
tentativi
del
protagonista
del
racconto
Davanti
alla
legge
scritto
da
Kafka,
che
inutilmente
cercava
di
convincere
il
guardiano
a
farlo
entrare
nella
legge.
Un
cubo
di
Rubik
penzola
chiassosamente
nel
suo
Hummer
giallo,
le
sue
oscillazioni
scandiscono
le
vuote
giornate
di
Abe
insieme
all’ossessivo
suono
dell’antifurto
del
suo
fuoristrada.
Il
cubo
rappresenta
per
il
quarantenne
il
simbolo
della
sua
generazione,
di
un’adolescenza
trascorsa
nell’era
dell’edonismo
reganiano;
una
condizione
che
Abe
non
vuole
lasciare
per
un
mondo
dell’incertezza
e
dell’omologazione
abitato
da
persone
orribili,
dove
“l’umanità
è
una
cloaca”.
Il
grasso
“college
dropout
mama’s
boy”
è
una
contraddizione
vivente:
somiglia
a un
bambinone
viziato
vittima
del
capitalismo
consumistico
occidentale,
beve
solo
Diet
Coke
ma
ci
tiene
a
dire
che
non
è
uno
stupido
Trekkie,
nel
suo
essere
goffo
e
sfortunato
cerca
di
resistere,
a
suo
modo,
alla
continua
tentazione
dell’omologazione
sociale
a
cui
i
suoi
genitori
e
suo
fratello,
figlio
modello,
sono
invece
assuefatti.
Perfetti
e
magri,
sembrano
usciti
da
uno
spot
pubblicitario
per
cui
Abe
non
avrebbe
nessuna
chance
di
essere
scritturato,
grasso
e
sciatto
come
è,
con
la
sua
collanina
di
brillantini
falsi
dove
fa
bella
mostra
il
suo
nome,
come
in
un
video
di J
Lo.
Abe
non
è un
Matzah
Baller,
bensì
un
Matzah
Bull’er,
come
è
scritto
sulla
sua
t-shirt
gialla,
una
specie
di
nerd
ebraico,
arriva
alle
riunioni
in
ufficio
nelle
sue
t-shirt
di
un
giallo
chiassoso
e
rigorosamente
in
giacca
blu
Reebok.
Improvvisamente
qualcosa
spinge
Abe
a
lasciare
l’ovattato
conforto
della
sua
stanza-reparto
di
giochi,
a un
matrimonio
conosce
Miranda
(Selma
Blair),
bella
aspirante
attrice
senza
futuro,
risoluta
ad
abbandonare
i
suoi
sogni
di
gloria
per
uno
squallido
matrimonio
d’interesse.
Abe
è
sicuro
al
“1.000%”
di
volerla
sposare,
è
una
questione
di
numeri
e di
date,
perché
la
numerologia
è
una
certezza
nella
sua
vita
come
la
Kabbalah.
È
convinto
di
poter
far
colpo
sulla
ragazza
perché
ha
le
qualità
di
un
dark
horse,
uno
che
contro
ogni
previsione
si
rivelerà
vincente,
il
ronzino
su
cui
scommettere
e
fare
una
fortuna.
Ma
all’apparenza
il
vincente
della
situazione
sembra
essere
suo
fratello
minore
Richard,
il
vero
cocco
di
mamma
e
papà,
affascinante
e
medico
in
carriera;
il
più
adatto
a
giudizio
degli
altri
a
sposare
Miranda;
Abe
nutre
per
lui
un
forte
risentimento,
perché
dieci
anni
prima
ha
mandato
all’aria
la
sua
vacanza
in
campeggio.
C’è
anche
un’altra
donna
nella
vita
di
Abe,
Marie,
la
segretaria
di
suo
padre
che
possiede
una
villa
e
gira
in
Ferrari
Testa
Rossa;
è il
grillo
parlante
della
situazione,
colei
che
a
parole
sprona
Abe
a
smettere
di
essere
“uno
spilorcio
scroccone”
e a
vivere
la
sua
vita
da
adulto,
de
facto
invece
lo
avviluppa
in
un
rapporto
morboso,
quel
rapporto
incestuoso
che
ad
Abe
è
mancato
con
la
sua
vera
madre.
Anche
nella
vita
di
Miranda
esiste
un
altro
uomo,
l’ex
fidanzato
Mahmoud,
che
Miranda
scherzosamente
definisce
un
“cliché
post-marxista”
e
che
da
musulmano
guarda
ad
Abe
come
al
peggior
risultato
della
perversione
consumistica
occidentale,
male
di
una
generazione
di
occidentali
inetti
e
insicuri.
A un
certo
punto
della
storia
il
padre,
che
per
anni
ha
scommesso
sui
Giants,
smetterà
di
puntare
soldi
sulla
squadra
di
football,
stanco,
dopo
tanto
tempo,
di
non
aver
ancora
avuto
un
ritorno
economico;
si
convince
che
sia
più
remunerativo
puntare
sui
vincitori
sicuri
e
non
correre
più
il
rischio
dell’azzardo,
così
smetterà
di
puntare
anche
su
Abe;
Justin
(Justin
Bartha),
suo
cugino,
prenderà
il
posto
di
Abe
in
ufficio.
Il
figlio
irreparabilmente
si
svelerà
agli
occhi
del
padre
come
un
fallito
capace
solo
di
sintonizzare
il
TiVo,
il
videoregistratore
digitale.
Abe
si
sente
per
la
prima
volta
veramente
un
perdente,
perché
capisce
di
aver
inconsapevolmente
rincorso
non
i
suoi
sogni,
ma
quelli
del
padre,
mentre
avrebbe
voluto
fare
il
cantante.
Ormai
vecchio
anche
per
American
Idol
immagina
una
vita
di
stenti
con
i
risparmi
del
suo
bar
mitzvahn,
s’illude
così
che
la
realtà
possa
essere
migliore
dei
sogni
e
finisce
col
fare
la
fine
dell’outsider,
del
terzo
incomodo
tra
Miranda
e
Richard,
tra
sua
madre
e
suo
padre,
tra
Marie
e
Justin.
Abe
farà
la
fine
di
quei
giocattoli
che
quando
sono
rotti
sono
d’impiccio
e si
buttano
via
senza
preoccuparsi
di
ripararli,
nessuno
sentirà
la
sua
mancanza,
nessuno
tranne
Marie,
forse…
Todd
Solondz
questa
volta
ci
fa
ridere
meno
con
il
suo
umorismo
ebraico;
è il
regista
stesso
a
dichiarare:
“As
much
as
it's
comedy
of
sorts,
I
never
really
laugh”
e ha
dichiarato
ancora:
“In
the
movie
business
the
manchild
has
been
an
overused
genre.
Frankly
if
Dark
Horse
was
the
end
of
those
movies
I
would
feel
I
could
go
to
sleep
as
happy
man”.