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N. 37 - Gennaio 2011 (LXVIII)

A EST DEL DANUBIO
Capitolo XVIII

di Leila Tavi

 

Bratislava, dicembre 2003

 

Parlo quelle poche parole di slovacco necessarie a farmi capire, ma sufficienti per poter affrontare la città da sola. Un tempo mi spostavo solo in taxi, adesso mi sono abituata a prendere i mezzi pubblici, solo una cosa non mi è chiara.

 

Quando prendi un autobus e scendi a una fermata ti aspetti che dall’altra parte della strada ritroverai lo stesso autobus che ritorna nel punto da dove sei venuta, invece no, attraversi la strada e lì i numeri cambiano, allora non resta che chiedere e spesso ci si confonde. Sei partita con l’80, al ritorno prendi il 94, poi ancora, per tornare al punto di partenza, cambi con il 93 e ti trovi a dover ripercorrere a piedi la sponda del lago artificiale vicino al Moaza per cambiare ancora una volta di autobus.

 

Basta non perdersi d’animo, altrimenti si diventa facili prede dei tassisti d’assalto; una volta ne vedevi a gruppi all’uscita della stazione ferroviaria di Petržalka, adesso anche gli austriaci hanno imparato a prendere l’autobus per raggiungere i centri commerciali della città.

 

Le ragazze slovacche mi sorprendono sempre. Ho capito che si dividono in due categorie: quelle belle che non si curano del loro aspetto esteriore e quelle belle e brutte che non lasciano niente al caso. Quelle che appartengono alla seconda categoria le puoi vedere su tacchi a spillo vertiginosi anche nei supermercati, talvolta accompagnate da uomini trasandati, che non hanno neanche la premura di portare loro le buste della spesa. Le donne traballano sui loro tacchi a spillo a causa delle pesanti buste di plastica, mentre l’uomo cammina al loro fianco con le mani in tasca.

 

Poche invece sono le donne austriache che attirano l’attenzione in pubblico per la loro bellezza, ma chi tra queste poche si fa vedere per la strada accompagnata da uomo lo fa come se fosse un gioiello assicurato.

 

I loro uomini sono sempre curati ed eleganti, li vedi dare il braccio alle loro signore all’ingresso del Dorotheum o alla fiera dell’antiquariato all’Hofburg. Con le loro giacche blu sopra agl’impeccabili jeans, si muovono sicuri tra un Araki e un Warhol, ne conoscono i prezzi meglio dei galleristi, ma disdegnano coloro che li acquistano.

 

Tra bicchieri del XVI secolo e trumeau tirolesi noto degli angeli in cartapesta, penso istintivamente a Davide, a lui che aveva il fisique du role per navigare in quegli ambienti, a quando si arrabbiava perché lo chiamavo Preppy. A lui, che avrebbe potuto fare da testimonial a Tommy Hilfiger e invece indossava quelle camicie indiane, quando la parola “etnico” non era ancora sulla bocca di nessuno. Penso a quando si è fatto cacciare dal circolo degli ufficiali davanti ai colleghi di suo padre, a quando a casa sua ci pregavano di non sedere a tavola scalzi. A quando qualcosa non gli riusciva e immancabilmente esclamava: “Merde”, con quell’aria gentilizia di chi era nato nella città delle cento torri.

 

Le serate passate nella villa ai colli di Tommaso tutta la notte a parlare, quando nei suoi occhi riuscivo a vedere quell’immagine speculare di me; χείρ, i miei due nei sul palmo della mano destra e i suoi riccioli biondi.

 

Quella volta al freak raduno avevamo montato la tenda accanto all’accampamento di tende indiane; ogni sera il ragazzo inglese dai lunghi capelli neri, che sembrava avere il ruolo del capo tribù c’invitava a ballare davanti al fuoco. Davide non ballava, se ne stava vicino al fuoco a guardare per ore, senza parlare, senza cambiare posizione. Tommaso e io ballavamo tutta la notte; Tommaso perché era calato fradicio, per espellere tutta l’adrenalina e la psilocina che aveva in corpo, io perché del fumo e dei funghetti allucinogeni non ne volevo sapere e quella della danza era l’unica attività che riuscivo a condividere con quella folla lì convenuta.

 

Davide mi stimava tanto per quella mia capacità di adattamento; per essere riuscita a farmi accettare da quel gruppo di sognatori senza condividerne il modo di vita. A volte mi sembrava che i giri per la città erano interminabili; iniziavamo la mattina e le tappe erano sempre le stesse: l’amico che faceva gli origami e che ogni volta mi regalava un fiore di carta; quello che aveva la più vasta collezione di cactus in città, ne aveva centinaia di specie tra terrazza e interni; quello con cui Davide arrampicava e che si lamentava che lo Psilocybe semilanceata era in via d’estinzione; quello con il cagnetto a cui avevo insegnato a mangiare gli acini d’uva direttamente dalle mie labbra. Ogni volta Davide si fermava per il tempo di fumare una o due sigarette, di prendere il caffè e io, che non fumavo e né prendevo caffè, gli stavo in silenzio accanto e passavo il tempo osservando gli altri, gli oggetti, le particolarità di ogni casa.

 

Davide diceva che riuscivo a interagire con gli animali e le cose meglio che con le persone. A volte si arrabbiava, mi rimproverava che non mi lamentavo mai come le altre che non andavamo mai al cinema o che i suoi gli avevano tolto le chiavi dell’auto. Io sorridevo e non dicevo niente, mi piaceva così tanto essere portata sulla canna della bicicletta.

 

Diceva sempre che ero una donna da sposare perché non fumavo, non bevevo e non portavo gioielli; allora cercavo d’immaginarmelo prima che ci fossimo conosciuti, prima di quella sua vita da ribelle: le vacanze in Sicilia, i regali costosi alle sue fidanzate, le lezioni di vela, i soggiorni nei college inglesi, le uscita in barca con Tommaso a Capraia. Ero convinta che una volta che gli fosse venuto a noia quello stile di vita alternativo sarebbe tornato a cercare Clelia e la sicurezza di una stabilità che io non potevo garantirgli con i miei silenzi, il mio essere troppo simile a lui.

 

Tommaso mi presentava agli altri sempre come “la donna di Davide”, per orgoglio controbattevo sempre che non ero la donna di nessuno, ma quando lo diceva sentivo il cuore espandersi, quasi ad avere uno stiramento del miocardio per la troppa emozione.

 

Lo avrei seguito in capo al mondo, eppure quando mi ha chiesto di partire per il Messico ho detto di no, l’aveva chiesto a me e non a Clelia, non alla straniera di turno. Quando l’ho detto mi sono sentita goffa e sofferente come il Piggy di Golding che non riesce a stare dietro a Ralph sull’isola del naufragio.

 

Il suo modo induttivo di vivere l’esperienze sulla sua pelle, anche in modo doloroso, si completava con il mio essere deduttiva, interpretare il presente accarezzando il passato.

 

Vienna, novembre 2008

 

Le droghe sonore e il cyberbullismo.

 

L’acqua che scivola via sulle braccia; a rivoli, dalle dita verso i gomiti e poi lungo i fianchi, per ricongiungersi sul ventre, scivolare nell’interno coscia fino alle caviglie.

 

Provo un senso di vergogna a far scorrere l’acqua così a lungo, come se fossi una ladra; ne assaporo il rumore mentre cade come pioggia sui palmi delle mani congiunte.

 

Faccio scendere le mani davanti al viso per udire meglio lo scroscio e una nuvola di vapore acquea mi scalda le guance, adesso che il getto d’acqua non è rotto dalle mie braccia mi invade la nuca, si confonde tra i capelli, in segno di sconfitta reclino ancora di più il capo, premo fronte, naso e labbra sulle mattonelle ghiacciate della parete, apro gli occhi e non riesco a vedere che delle chiazze bianche abbacinanti riflesse nell’occhio, istintivamente mi copro il volto con le mani, mentre l’acqua continua a scorrere.

 

Oggi è Fasching, il Carnevale di Colonia, il 315. giorno dell’anno; ne mancano solo cinquanta alla fine dell’anno. I pogrom e le ceneri di Haider, i funerali di Zilke, due populisti. Osservo la scrivania di Rudolf, il Kronprinz, e noto un teschio, mi ricordo di averlo visto su un’altra scrivania, penso ai mal di testa degli Asburgo a come facevano passare la smania dei denti ai lattanti della famiglia reale passando un fazzoletto intriso d’oppio sulle gengive dei bambini.

 

Penso a Rudolf e ai 150 anni dalla sua nascita, a quando disertava i balli di corte per intrattenersi con i massoni praghesi, alle sue spedizioni archeologiche in Oriente, alla sua passione per l’ornitologia. Un principe ereditario che avrebbe voluto diventare presidente e non sovrano del suo Stato e che non era riuscito a essere né l’uno né l’altro. Un uomo scomodo per i reazionari di corte e per le aspirazioni dei Prussiani. Rudolf e la sua amante slovacca. Penso alla sua dipendenza da morfina, le sue supposte di cocaina a scopo terapeutico e la sua soluzione per gargarismi a base di oppio; anche Sissi, sua madre, oltre a fare uso di hashish e oppio in polvere, si ungeva di creme a base di morfina o cocaina; suo marito Francesco Giuseppe faceva uso regolarmente di cocaina; l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este era un grande consumatore di codeina, oltre a fare uso di cocaina, eroina e oppio. A lattanti della casa reale era passata una tintura a base di cocaina sulle gengive contro la smania per i primi denti. A quei tempi la pubblicità delle caramelle a base di cocaina era sui giornali dell’epoca.

 

Ivan mi ha svegliata all’alba con una telefonata allarmata perché sul braccio di Denisa è attaccata una zecca. Ancora? D’inverno? Si precipita a casa mia e corriamo al pronto soccorso dei Cavalieri di Malta. Perché non possa andare bene un comune pronto soccorso di un ospedale qualsiasi non l’ho capito. Perché ci vanno troppi turchi. E allora?

 

Invece il pronto soccorso dei Cavalieri di Malta è in pieno centro, dietro al palazzo della Borsa; Inge va solo lì in caso di urgenze.

 

Alla risposta “Faccio il fisioterapista” con quel suo bell’accento slavo la Florence Nightingale di turno cambia subito atteggiamento nei nostri confronti, non siamo austriaci. Significa che senza Inge ad accompagnarci passiamo per la tipica famiglia d’immigrati, poco importa se slava o turca: il capofamiglia senza istruzione che svolge un lavoro manuale e la casalinga che non parla tedesco.

 

L’infermiera, con un intercedere lento e posato, va ad avvertire il medico.

 

Nello suo studio il luminare, che interroga Denisa convinto di avere davanti l’essere troglodita, risultato dell’unione di due Untermenschen, la cui stirpe Hitler non è riuscito, sfortunatamente, a sterminare. Si riprende quando inizia a capire tutte le connessioni ed è contento di sfoggiare con noi il suo discreto italiano. Chiedo se per lui è stato facile imparare la mia lingua perché da medico ha preso dimestichezza con il latino e subito il medico saccente comincia uno sproloquio sulla differenza tra l’italiano e l’inglese rispetto al tedesco e al latino. Taglio subito corto, ribattendo che non deve spiegare a me, che ho studiato filologia, la differenza tra una lingua analitica e una sintetica.

 

Il medico resta con una parola a mezza bocca e subito cambia atteggiamento nei miei confronti; Ivan non si lascia sfuggire l’occasione per dire un’ennesima volta “mia moglie”, anche se siamo divorziati da anni. Non aggiungo nulla, perché il medico saccente ha già capito tutto, mi saluta cordialmente e lancia un’occhiata beffarda a Ivan e alle sue zecche immaginarie.

 

Quando usciamo dall’ambulatorio gli chiedo se ha capito perché non potrei vivere in questa città. Non risponde. Non sopporterei di essere trattata così come quel medico ha trattato lui, ma per Ivan è ormai la normalità, chissà quante volte gli è successo e non serve una compagna austriaca e l’averne assimilato le amicizie per osmosi. Resterà sempre uno straniero, come quella volta che ha discusso con una sua anziana cliente, ex insegnante di liceo, che gli ha contestato un appuntamento “gegen 11”. Non abbiamo mai capito quale fosse l’errore di Ivan; ogni tanto ancora me lo chiedo, forse avrebbe dovuto dire “zirka um 11 Uhr” e usare gegen solo con sostantivi che indicano un’espressione temporale.

 

Una volta mi hanno detto che, per essere una turca, parlo l’italiano benissimo. Adesso avrei più possibilità di parlare turco che tedesco a Reumannplatz, ma ho già dimenticato tutte le parole che Nurhan mi ha insegnato con tanta pazienza.

 

Mi ricordo ancora l’umiliazione di quanto, anni fa, la vecchia della tabaccheria della Ybbsstraße, jugoslava d’origine, residente da oltre quarant’anni in Austria, mi aggredì dicendomi che avrei potuto mettere piede nel suo negozio solo dopo aver fatto un corso di tedesco. Eppure mi ero appena laureata il filologia germanica con 110, discutendo una tesi comparativa tra la versione del Fisiologo in antico alto tedesco e quella in medio alto tedesco contenuta nel Codex Vindobonensis 2721. All’inizio mi capitava spesso di sbagliare i prefissi verbali e quella volta in tabaccheria avevo confuso einladen, invitare, con aufladen, caricare e, invece di chiedere un ricarica telefonica, avevo chiesto un invito telefonico.

 

I vicini mi rassicuravano di non dar peso alle parole della vecchia, era solo l’aterosclerosi galoppante a renderla così insopportabile. Le altre vecchiette del quartiere mi adoravano, soprattutto la portiera dello stabile e la vedova del mezzanino, quella che mia madre aveva soprannominato “signora Sehr Groß”, perché ogni volta che mia madre veniva a trovarci e la incontravamo con Denisa piccola nel passeggino la signora, con il suo cappello tradizionale munito di penna degli alpini e il Tracht verde oliva della domenica, ci salutava immancabilmente con l’espressione “sehr groß”, riferita a Denisa, sottolineando ogni volta gli strabilianti progressi nella crescita.

 

Mi ricordo, quando incinta, l’avevo consultata per la storia degli scarafaggi, che dopo un’estate piovosa, passeggiavano di notte dappertutto in casa, colpa anche delle tubature vecchie e malconce della deliziosa palazzina d’inizio Novecento dove abitavamo. Se gli scarafaggi li avevamo al quinto piano, era lapalissiano che ci fossero anche nel mezzanino.

 

Alla mia domanda la signora Sehr Groß ripeté con enfasi la parola Schaben come se non riuscisse ad associarla ad un’immagine familiare, come se avessi detto qualcosa d’esotico, non so, scorpioni al posto dei comuni scarafaggi. Allora ho cambiato termine, Kakalaken; il suono di quella parola aveva improvvisamente fatto mutare l’espressione della signora da riflessiva a disgustata, ma almeno era riuscita a capire di cosa stavo parlando. Mi ha pregata di attendere sul pianerottolo ed è corsa in casa. Ero soddisfatta che l’equivalente colloquiale del romano “bacarozzi” avesse sortito l’effetto desiderato. Secondo il mio punto di vista i popoli di lingua tedesca avrebbero dovuto avere una familiarità maggiore con quegli insetti rispetto a noi del Sud, per via della metamorfosi kafkiana.

 

La signora, Sehr Groß tornò sull’uscio della porta con un grosso volume che alzava polvere ogni volta che lo sfogliava, era un tomo dell’enciclopedia. Fece scorrere l’indice destro su una pagina e mi mostrò soddisfatta la voce relativa: “Haben Sie genau das gesehen?”

 

Certo che era quello, nella mia infanzia di scarafaggi ne avevo visti a sufficienza nei parchi o nelle vecchie case di campagna. Quando li schiacciavi con il piede facevano quello scricchiolio tipico. Nel giardino della scuola, se ne uccidevamo uno, preparavamo subito una sepoltura con tutti i crismi, di solito la folla al funerale era costituita da un’interminabile fila di formiche che, secondo noi, era lì convenuta per le esequie del compianto. Fino a che non arrivava suor Consiglio a rimproverarci che ogni essere vivente è una creatura di Dio e per questo degna di vivere.

 

Confesso che il dilemma del farli fuori o no me lo ero posto anche prima di lanciare l’allarme nel palazzo, ma la situazione era ormai fuori controllo e se non avessimo messo rimedio al più presto gli scarafaggi avrebbero preso il sopravvento sui condomini. Nelle torride notti estive li vedevo camminare su per il muro del soggiorno in perfetta fila indiana, uno dopo l’altro; risaltavano sul bianco candido e spoglio della parete, ma era sufficiente accendere la luce, che in una frazione di secondo sparivano come un’allucinazione nel sonno.

 

Eravamo rimaste in piedi nel pianerottolo, il volume dell’enciclopedia era passato cautamente nelle mie mani, che esitavo a rispondere perché sull’enciclopedia le foto erano tre e non volevo indicare una foto sbagliata. Non riuscivo a decidermi tra le tre specie di scarafaggi; sembravano così simili e a casa non ne avevo ancora ucciso nessuno per poterlo analizzare meglio, avevo solo eliminato dalla cucina tutto il commestibile fuori dal frigorifero per evitare il contatto con le bestiole. Questo era l’aspetto piacevole della questione, mangiavamo sempre al ristorante e, così, avevo più tempo per studiare.

 

Nel libro erano raffigurate la blatta orientalis, di un marrone scuro tendente al nero, difficile a dirsi se si trattava proprio di quella specie, ma sembrava troppo tozza e corta, poi la periplaneta americana, ma era scritto che vive nei piani interrati, nei porti e nelle zone di mare, quindi era da escludere, infine era descritta la blattella germanica, il nome si confaceva e poi avevo letto che era l’unica a riuscire ad arrampicarsi sui muri e anche la silhouette corrispondeva. Puntai il dito sicura.

 

“Sind Sie sicher?”, la signora mi guardava con l’aria interrogativa di un commissario di polizia che mostra un identikit. Sicura lo ero, certo! Avevo letto ancora che tali insetti erano riusciti a sopravvivere dopo i ventidue test nucleari nell’atollo di Bikini tra il 1946 e il 1958 e che la femmina era molto prolifica: durante il suo breve ciclo di vita produce otto ooteche con circa trenta, quaranta uova che si schiudono in una ventina di giorni.

 

Cercai di farmi un calcolo approssimativo su quando le uova si sarebbero schiuse e sulla percentuale di femmine che avrebbero potuto esserci nell’intera colonia. A quel punto mi interessava saperlo più che la data precisa del mio di parto. Applicai una di quelle formule che il professore di statistica per le scienze sociali ci aveva insegnato a lezione, la proiezione statistica che ne era venuta fuori mi allarmò. Sperai, a dispetto del mio bel voto in statistica II, di aver sbagliato i calcoli o di aver utilizzato la formula sbagliata.

 

A giudicare dalla velocità con cui la ditta di disinfestazione si presentò a casa, non avevo sbagliato i calcoli.

Avevo trovano l’ennesima scusa per tornare a Roma a tempo indeterminato.



 

 

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