N. 37 - Gennaio 2011
(LXVIII)
A EST DEL DANUBIO
Capitolo XVIII
di Leila Tavi
Bratislava,
dicembre
2003
Parlo
quelle
poche
parole
di
slovacco
necessarie
a
farmi
capire,
ma
sufficienti
per
poter
affrontare
la
città
da
sola.
Un
tempo
mi
spostavo
solo
in
taxi,
adesso
mi
sono
abituata
a
prendere
i
mezzi
pubblici,
solo
una
cosa
non
mi è
chiara.
Quando
prendi
un
autobus
e
scendi
a
una
fermata
ti
aspetti
che
dall’altra
parte
della
strada
ritroverai
lo
stesso
autobus
che
ritorna
nel
punto
da
dove
sei
venuta,
invece
no,
attraversi
la
strada
e lì
i
numeri
cambiano,
allora
non
resta
che
chiedere
e
spesso
ci
si
confonde.
Sei
partita
con
l’80,
al
ritorno
prendi
il
94,
poi
ancora,
per
tornare
al
punto
di
partenza,
cambi
con
il
93 e
ti
trovi
a
dover
ripercorrere
a
piedi
la
sponda
del
lago
artificiale
vicino
al
Moaza
per
cambiare
ancora
una
volta
di
autobus.
Basta
non
perdersi
d’animo,
altrimenti
si
diventa
facili
prede
dei
tassisti
d’assalto;
una
volta
ne
vedevi
a
gruppi
all’uscita
della
stazione
ferroviaria
di
Petržalka,
adesso
anche
gli
austriaci
hanno
imparato
a
prendere
l’autobus
per
raggiungere
i
centri
commerciali
della
città.
Le
ragazze
slovacche
mi
sorprendono
sempre.
Ho
capito
che
si
dividono
in
due
categorie:
quelle
belle
che
non
si
curano
del
loro
aspetto
esteriore
e
quelle
belle
e
brutte
che
non
lasciano
niente
al
caso.
Quelle
che
appartengono
alla
seconda
categoria
le
puoi
vedere
su
tacchi
a
spillo
vertiginosi
anche
nei
supermercati,
talvolta
accompagnate
da
uomini
trasandati,
che
non
hanno
neanche
la
premura
di
portare
loro
le
buste
della
spesa.
Le
donne
traballano
sui
loro
tacchi
a
spillo
a
causa
delle
pesanti
buste
di
plastica,
mentre
l’uomo
cammina
al
loro
fianco
con
le
mani
in
tasca.
Poche
invece
sono
le
donne
austriache
che
attirano
l’attenzione
in
pubblico
per
la
loro
bellezza,
ma
chi
tra
queste
poche
si
fa
vedere
per
la
strada
accompagnata
da
uomo
lo
fa
come
se
fosse
un
gioiello
assicurato.
I
loro
uomini
sono
sempre
curati
ed
eleganti,
li
vedi
dare
il
braccio
alle
loro
signore
all’ingresso
del
Dorotheum
o
alla
fiera
dell’antiquariato
all’Hofburg.
Con
le
loro
giacche
blu
sopra
agl’impeccabili
jeans,
si
muovono
sicuri
tra
un
Araki
e un
Warhol,
ne
conoscono
i
prezzi
meglio
dei
galleristi,
ma
disdegnano
coloro
che
li
acquistano.
Tra
bicchieri
del
XVI
secolo
e
trumeau
tirolesi
noto
degli
angeli
in
cartapesta,
penso
istintivamente
a
Davide,
a
lui
che
aveva
il
fisique
du
role
per
navigare
in
quegli
ambienti,
a
quando
si
arrabbiava
perché
lo
chiamavo
Preppy.
A
lui,
che
avrebbe
potuto
fare
da
testimonial
a
Tommy
Hilfiger
e
invece
indossava
quelle
camicie
indiane,
quando
la
parola
“etnico”
non
era
ancora
sulla
bocca
di
nessuno.
Penso
a
quando
si è
fatto
cacciare
dal
circolo
degli
ufficiali
davanti
ai
colleghi
di
suo
padre,
a
quando
a
casa
sua
ci
pregavano
di
non
sedere
a
tavola
scalzi.
A
quando
qualcosa
non
gli
riusciva
e
immancabilmente
esclamava:
“Merde”,
con
quell’aria
gentilizia
di
chi
era
nato
nella
città
delle
cento
torri.
Le
serate
passate
nella
villa
ai
colli
di
Tommaso
tutta
la
notte
a
parlare,
quando
nei
suoi
occhi
riuscivo
a
vedere
quell’immagine
speculare
di
me;
χείρ,
i
miei
due
nei
sul
palmo
della
mano
destra
e i
suoi
riccioli
biondi.
Quella
volta
al
freak
raduno
avevamo
montato
la
tenda
accanto
all’accampamento
di
tende
indiane;
ogni
sera
il
ragazzo
inglese
dai
lunghi
capelli
neri,
che
sembrava
avere
il
ruolo
del
capo
tribù
c’invitava
a
ballare
davanti
al
fuoco.
Davide
non
ballava,
se
ne
stava
vicino
al
fuoco
a
guardare
per
ore,
senza
parlare,
senza
cambiare
posizione.
Tommaso
e io
ballavamo
tutta
la
notte;
Tommaso
perché
era
calato
fradicio,
per
espellere
tutta
l’adrenalina
e la
psilocina
che
aveva
in
corpo,
io
perché
del
fumo
e
dei
funghetti
allucinogeni
non
ne
volevo
sapere
e
quella
della
danza
era
l’unica
attività
che
riuscivo
a
condividere
con
quella
folla
lì
convenuta.
Davide
mi
stimava
tanto
per
quella
mia
capacità
di
adattamento;
per
essere
riuscita
a
farmi
accettare
da
quel
gruppo
di
sognatori
senza
condividerne
il
modo
di
vita.
A
volte
mi
sembrava
che
i
giri
per
la
città
erano
interminabili;
iniziavamo
la
mattina
e le
tappe
erano
sempre
le
stesse:
l’amico
che
faceva
gli
origami
e
che
ogni
volta
mi
regalava
un
fiore
di
carta;
quello
che
aveva
la
più
vasta
collezione
di
cactus
in
città,
ne
aveva
centinaia
di
specie
tra
terrazza
e
interni;
quello
con
cui
Davide
arrampicava
e
che
si
lamentava
che
lo
Psilocybe
semilanceata
era
in
via
d’estinzione;
quello
con
il
cagnetto
a
cui
avevo
insegnato
a
mangiare
gli
acini
d’uva
direttamente
dalle
mie
labbra.
Ogni
volta
Davide
si
fermava
per
il
tempo
di
fumare
una
o
due
sigarette,
di
prendere
il
caffè
e
io,
che
non
fumavo
e né
prendevo
caffè,
gli
stavo
in
silenzio
accanto
e
passavo
il
tempo
osservando
gli
altri,
gli
oggetti,
le
particolarità
di
ogni
casa.
Davide
diceva
che
riuscivo
a
interagire
con
gli
animali
e le
cose
meglio
che
con
le
persone.
A
volte
si
arrabbiava,
mi
rimproverava
che
non
mi
lamentavo
mai
come
le
altre
che
non
andavamo
mai
al
cinema
o
che
i
suoi
gli
avevano
tolto
le
chiavi
dell’auto.
Io
sorridevo
e
non
dicevo
niente,
mi
piaceva
così
tanto
essere
portata
sulla
canna
della
bicicletta.
Diceva
sempre
che
ero
una
donna
da
sposare
perché
non
fumavo,
non
bevevo
e
non
portavo
gioielli;
allora
cercavo
d’immaginarmelo
prima
che
ci
fossimo
conosciuti,
prima
di
quella
sua
vita
da
ribelle:
le
vacanze
in
Sicilia,
i
regali
costosi
alle
sue
fidanzate,
le
lezioni
di
vela,
i
soggiorni
nei
college
inglesi,
le
uscita
in
barca
con
Tommaso
a
Capraia.
Ero
convinta
che
una
volta
che
gli
fosse
venuto
a
noia
quello
stile
di
vita
alternativo
sarebbe
tornato
a
cercare
Clelia
e la
sicurezza
di
una
stabilità
che
io
non
potevo
garantirgli
con
i
miei
silenzi,
il
mio
essere
troppo
simile
a
lui.
Tommaso
mi
presentava
agli
altri
sempre
come
“la
donna
di
Davide”,
per
orgoglio
controbattevo
sempre
che
non
ero
la
donna
di
nessuno,
ma
quando
lo
diceva
sentivo
il
cuore
espandersi,
quasi
ad
avere
uno
stiramento
del
miocardio
per
la
troppa
emozione.
Lo
avrei
seguito
in
capo
al
mondo,
eppure
quando
mi
ha
chiesto
di
partire
per
il
Messico
ho
detto
di
no,
l’aveva
chiesto
a me
e
non
a
Clelia,
non
alla
straniera
di
turno.
Quando
l’ho
detto
mi
sono
sentita
goffa
e
sofferente
come
il
Piggy
di
Golding
che
non
riesce
a
stare
dietro
a
Ralph
sull’isola
del
naufragio.
Il
suo
modo
induttivo
di
vivere
l’esperienze
sulla
sua
pelle,
anche
in
modo
doloroso,
si
completava
con
il
mio
essere
deduttiva,
interpretare
il
presente
accarezzando
il
passato.
Vienna,
novembre
2008
Le
droghe
sonore
e il
cyberbullismo.
L’acqua
che
scivola
via
sulle
braccia;
a
rivoli,
dalle
dita
verso
i
gomiti
e
poi
lungo
i
fianchi,
per
ricongiungersi
sul
ventre,
scivolare
nell’interno
coscia
fino
alle
caviglie.
Provo
un
senso
di
vergogna
a
far
scorrere
l’acqua
così
a
lungo,
come
se
fossi
una
ladra;
ne
assaporo
il
rumore
mentre
cade
come
pioggia
sui
palmi
delle
mani
congiunte.
Faccio
scendere
le
mani
davanti
al
viso
per
udire
meglio
lo
scroscio
e
una
nuvola
di
vapore
acquea
mi
scalda
le
guance,
adesso
che
il
getto
d’acqua
non
è
rotto
dalle
mie
braccia
mi
invade
la
nuca,
si
confonde
tra
i
capelli,
in
segno
di
sconfitta
reclino
ancora
di
più
il
capo,
premo
fronte,
naso
e
labbra
sulle
mattonelle
ghiacciate
della
parete,
apro
gli
occhi
e
non
riesco
a
vedere
che
delle
chiazze
bianche
abbacinanti
riflesse
nell’occhio,
istintivamente
mi
copro
il
volto
con
le
mani,
mentre
l’acqua
continua
a
scorrere.
Oggi
è
Fasching,
il
Carnevale
di
Colonia,
il
315.
giorno
dell’anno;
ne
mancano
solo
cinquanta
alla
fine
dell’anno.
I
pogrom
e le
ceneri
di
Haider,
i
funerali
di
Zilke,
due
populisti.
Osservo
la
scrivania
di
Rudolf,
il
Kronprinz,
e
noto
un
teschio,
mi
ricordo
di
averlo
visto
su
un’altra
scrivania,
penso
ai
mal
di
testa
degli
Asburgo
a
come
facevano
passare
la
smania
dei
denti
ai
lattanti
della
famiglia
reale
passando
un
fazzoletto
intriso
d’oppio
sulle
gengive
dei
bambini.
Penso
a
Rudolf
e ai
150
anni
dalla
sua
nascita,
a
quando
disertava
i
balli
di
corte
per
intrattenersi
con
i
massoni
praghesi,
alle
sue
spedizioni
archeologiche
in
Oriente,
alla
sua
passione
per
l’ornitologia.
Un
principe
ereditario
che
avrebbe
voluto
diventare
presidente
e
non
sovrano
del
suo
Stato
e
che
non
era
riuscito
a
essere
né
l’uno
né
l’altro.
Un
uomo
scomodo
per
i
reazionari
di
corte
e
per
le
aspirazioni
dei
Prussiani.
Rudolf
e la
sua
amante
slovacca.
Penso
alla
sua
dipendenza
da
morfina,
le
sue
supposte
di
cocaina
a
scopo
terapeutico
e la
sua
soluzione
per
gargarismi
a
base
di
oppio;
anche
Sissi,
sua
madre,
oltre
a
fare
uso
di
hashish
e
oppio
in
polvere,
si
ungeva
di
creme
a
base
di
morfina
o
cocaina;
suo
marito
Francesco
Giuseppe
faceva
uso
regolarmente
di
cocaina;
l’arciduca
Francesco
Ferdinando
d’Asburgo-Este
era
un
grande
consumatore
di
codeina,
oltre
a
fare
uso
di
cocaina,
eroina
e
oppio.
A
lattanti
della
casa
reale
era
passata
una
tintura
a
base
di
cocaina
sulle
gengive
contro
la
smania
per
i
primi
denti.
A
quei
tempi
la
pubblicità
delle
caramelle
a
base
di
cocaina
era
sui
giornali
dell’epoca.
Ivan
mi
ha
svegliata
all’alba
con
una
telefonata
allarmata
perché
sul
braccio
di
Denisa
è
attaccata
una
zecca.
Ancora?
D’inverno?
Si
precipita
a
casa
mia
e
corriamo
al
pronto
soccorso
dei
Cavalieri
di
Malta.
Perché
non
possa
andare
bene
un
comune
pronto
soccorso
di
un
ospedale
qualsiasi
non
l’ho
capito.
Perché
ci
vanno
troppi
turchi.
E
allora?
Invece
il
pronto
soccorso
dei
Cavalieri
di
Malta
è in
pieno
centro,
dietro
al
palazzo
della
Borsa;
Inge
va
solo
lì
in
caso
di
urgenze.
Alla
risposta
“Faccio
il
fisioterapista”
con
quel
suo
bell’accento
slavo
la
Florence
Nightingale
di
turno
cambia
subito
atteggiamento
nei
nostri
confronti,
non
siamo
austriaci.
Significa
che
senza
Inge
ad
accompagnarci
passiamo
per
la
tipica
famiglia
d’immigrati,
poco
importa
se
slava
o
turca:
il
capofamiglia
senza
istruzione
che
svolge
un
lavoro
manuale
e la
casalinga
che
non
parla
tedesco.
L’infermiera,
con
un
intercedere
lento
e
posato,
va
ad
avvertire
il
medico.
Nello
suo
studio
il
luminare,
che
interroga
Denisa
convinto
di
avere
davanti
l’essere
troglodita,
risultato
dell’unione
di
due
Untermenschen,
la
cui
stirpe
Hitler
non
è
riuscito,
sfortunatamente,
a
sterminare.
Si
riprende
quando
inizia
a
capire
tutte
le
connessioni
ed è
contento
di
sfoggiare
con
noi
il
suo
discreto
italiano.
Chiedo
se
per
lui
è
stato
facile
imparare
la
mia
lingua
perché
da
medico
ha
preso
dimestichezza
con
il
latino
e
subito
il
medico
saccente
comincia
uno
sproloquio
sulla
differenza
tra
l’italiano
e
l’inglese
rispetto
al
tedesco
e al
latino.
Taglio
subito
corto,
ribattendo
che
non
deve
spiegare
a
me,
che
ho
studiato
filologia,
la
differenza
tra
una
lingua
analitica
e
una
sintetica.
Il
medico
resta
con
una
parola
a
mezza
bocca
e
subito
cambia
atteggiamento
nei
miei
confronti;
Ivan
non
si
lascia
sfuggire
l’occasione
per
dire
un’ennesima
volta
“mia
moglie”,
anche
se
siamo
divorziati
da
anni.
Non
aggiungo
nulla,
perché
il
medico
saccente
ha
già
capito
tutto,
mi
saluta
cordialmente
e
lancia
un’occhiata
beffarda
a
Ivan
e
alle
sue
zecche
immaginarie.
Quando
usciamo
dall’ambulatorio
gli
chiedo
se
ha
capito
perché
non
potrei
vivere
in
questa
città.
Non
risponde.
Non
sopporterei
di
essere
trattata
così
come
quel
medico
ha
trattato
lui,
ma
per
Ivan
è
ormai
la
normalità,
chissà
quante
volte
gli
è
successo
e
non
serve
una
compagna
austriaca
e
l’averne
assimilato
le
amicizie
per
osmosi.
Resterà
sempre
uno
straniero,
come
quella
volta
che
ha
discusso
con
una
sua
anziana
cliente,
ex
insegnante
di
liceo,
che
gli
ha
contestato
un
appuntamento
“gegen
11”.
Non
abbiamo
mai
capito
quale
fosse
l’errore
di
Ivan;
ogni
tanto
ancora
me
lo
chiedo,
forse
avrebbe
dovuto
dire
“zirka
um
11
Uhr”
e
usare
gegen
solo
con
sostantivi
che
indicano
un’espressione
temporale.
Una
volta
mi
hanno
detto
che,
per
essere
una
turca,
parlo
l’italiano
benissimo.
Adesso
avrei
più
possibilità
di
parlare
turco
che
tedesco
a
Reumannplatz,
ma
ho
già
dimenticato
tutte
le
parole
che
Nurhan
mi
ha
insegnato
con
tanta
pazienza.
Mi
ricordo
ancora
l’umiliazione
di
quanto,
anni
fa,
la
vecchia
della
tabaccheria
della
Ybbsstraße,
jugoslava
d’origine,
residente
da
oltre
quarant’anni
in
Austria,
mi
aggredì
dicendomi
che
avrei
potuto
mettere
piede
nel
suo
negozio
solo
dopo
aver
fatto
un
corso
di
tedesco.
Eppure
mi
ero
appena
laureata
il
filologia
germanica
con
110,
discutendo
una
tesi
comparativa
tra
la
versione
del
Fisiologo
in
antico
alto
tedesco
e
quella
in
medio
alto
tedesco
contenuta
nel
Codex
Vindobonensis
2721.
All’inizio
mi
capitava
spesso
di
sbagliare
i
prefissi
verbali
e
quella
volta
in
tabaccheria
avevo
confuso
einladen,
invitare,
con
aufladen,
caricare
e,
invece
di
chiedere
un
ricarica
telefonica,
avevo
chiesto
un
invito
telefonico.
I
vicini
mi
rassicuravano
di
non
dar
peso
alle
parole
della
vecchia,
era
solo
l’aterosclerosi
galoppante
a
renderla
così
insopportabile.
Le
altre
vecchiette
del
quartiere
mi
adoravano,
soprattutto
la
portiera
dello
stabile
e la
vedova
del
mezzanino,
quella
che
mia
madre
aveva
soprannominato
“signora
Sehr
Groß”,
perché
ogni
volta
che
mia
madre
veniva
a
trovarci
e la
incontravamo
con
Denisa
piccola
nel
passeggino
la
signora,
con
il
suo
cappello
tradizionale
munito
di
penna
degli
alpini
e il
Tracht
verde
oliva
della
domenica,
ci
salutava
immancabilmente
con
l’espressione
“sehr
groß”,
riferita
a
Denisa,
sottolineando
ogni
volta
gli
strabilianti
progressi
nella
crescita.
Mi
ricordo,
quando
incinta,
l’avevo
consultata
per
la
storia
degli
scarafaggi,
che
dopo
un’estate
piovosa,
passeggiavano
di
notte
dappertutto
in
casa,
colpa
anche
delle
tubature
vecchie
e
malconce
della
deliziosa
palazzina
d’inizio
Novecento
dove
abitavamo.
Se
gli
scarafaggi
li
avevamo
al
quinto
piano,
era
lapalissiano
che
ci
fossero
anche
nel
mezzanino.
Alla
mia
domanda
la
signora
Sehr
Groß
ripeté
con
enfasi
la
parola
Schaben
come
se
non
riuscisse
ad
associarla
ad
un’immagine
familiare,
come
se
avessi
detto
qualcosa
d’esotico,
non
so,
scorpioni
al
posto
dei
comuni
scarafaggi.
Allora
ho
cambiato
termine,
Kakalaken;
il
suono
di
quella
parola
aveva
improvvisamente
fatto
mutare
l’espressione
della
signora
da
riflessiva
a
disgustata,
ma
almeno
era
riuscita
a
capire
di
cosa
stavo
parlando.
Mi
ha
pregata
di
attendere
sul
pianerottolo
ed è
corsa
in
casa.
Ero
soddisfatta
che
l’equivalente
colloquiale
del
romano
“bacarozzi”
avesse
sortito
l’effetto
desiderato.
Secondo
il
mio
punto
di
vista
i
popoli
di
lingua
tedesca
avrebbero
dovuto
avere
una
familiarità
maggiore
con
quegli
insetti
rispetto
a
noi
del
Sud,
per
via
della
metamorfosi
kafkiana.
La
signora,
Sehr
Groß
tornò
sull’uscio
della
porta
con
un
grosso
volume
che
alzava
polvere
ogni
volta
che
lo
sfogliava,
era
un
tomo
dell’enciclopedia.
Fece
scorrere
l’indice
destro
su
una
pagina
e mi
mostrò
soddisfatta
la
voce
relativa:
“Haben
Sie
genau
das
gesehen?”
Certo
che
era
quello,
nella
mia
infanzia
di
scarafaggi
ne
avevo
visti
a
sufficienza
nei
parchi
o
nelle
vecchie
case
di
campagna.
Quando
li
schiacciavi
con
il
piede
facevano
quello
scricchiolio
tipico.
Nel
giardino
della
scuola,
se
ne
uccidevamo
uno,
preparavamo
subito
una
sepoltura
con
tutti
i
crismi,
di
solito
la
folla
al
funerale
era
costituita
da
un’interminabile
fila
di
formiche
che,
secondo
noi,
era
lì
convenuta
per
le
esequie
del
compianto.
Fino
a
che
non
arrivava
suor
Consiglio
a
rimproverarci
che
ogni
essere
vivente
è
una
creatura
di
Dio
e
per
questo
degna
di
vivere.
Confesso
che
il
dilemma
del
farli
fuori
o no
me
lo
ero
posto
anche
prima
di
lanciare
l’allarme
nel
palazzo,
ma
la
situazione
era
ormai
fuori
controllo
e se
non
avessimo
messo
rimedio
al
più
presto
gli
scarafaggi
avrebbero
preso
il
sopravvento
sui
condomini.
Nelle
torride
notti
estive
li
vedevo
camminare
su
per
il
muro
del
soggiorno
in
perfetta
fila
indiana,
uno
dopo
l’altro;
risaltavano
sul
bianco
candido
e
spoglio
della
parete,
ma
era
sufficiente
accendere
la
luce,
che
in
una
frazione
di
secondo
sparivano
come
un’allucinazione
nel
sonno.
Eravamo
rimaste
in
piedi
nel
pianerottolo,
il
volume
dell’enciclopedia
era
passato
cautamente
nelle
mie
mani,
che
esitavo
a
rispondere
perché
sull’enciclopedia
le
foto
erano
tre
e
non
volevo
indicare
una
foto
sbagliata.
Non
riuscivo
a
decidermi
tra
le
tre
specie
di
scarafaggi;
sembravano
così
simili
e a
casa
non
ne
avevo
ancora
ucciso
nessuno
per
poterlo
analizzare
meglio,
avevo
solo
eliminato
dalla
cucina
tutto
il
commestibile
fuori
dal
frigorifero
per
evitare
il
contatto
con
le
bestiole.
Questo
era
l’aspetto
piacevole
della
questione,
mangiavamo
sempre
al
ristorante
e,
così,
avevo
più
tempo
per
studiare.
Nel
libro
erano
raffigurate
la
blatta
orientalis,
di
un
marrone
scuro
tendente
al
nero,
difficile
a
dirsi
se
si
trattava
proprio
di
quella
specie,
ma
sembrava
troppo
tozza
e
corta,
poi
la
periplaneta
americana,
ma
era
scritto
che
vive
nei
piani
interrati,
nei
porti
e
nelle
zone
di
mare,
quindi
era
da
escludere,
infine
era
descritta
la
blattella
germanica,
il
nome
si
confaceva
e
poi
avevo
letto
che
era
l’unica
a
riuscire
ad
arrampicarsi
sui
muri
e
anche
la
silhouette
corrispondeva.
Puntai
il
dito
sicura.
“Sind
Sie
sicher?”,
la
signora
mi
guardava
con
l’aria
interrogativa
di
un
commissario
di
polizia
che
mostra
un
identikit.
Sicura
lo
ero,
certo!
Avevo
letto
ancora
che
tali
insetti
erano
riusciti
a
sopravvivere
dopo
i
ventidue
test
nucleari
nell’atollo
di
Bikini
tra
il
1946
e il
1958
e
che
la
femmina
era
molto
prolifica:
durante
il
suo
breve
ciclo
di
vita
produce
otto
ooteche
con
circa
trenta,
quaranta
uova
che
si
schiudono
in
una
ventina
di
giorni.
Cercai
di
farmi
un
calcolo
approssimativo
su
quando
le
uova
si
sarebbero
schiuse
e
sulla
percentuale
di
femmine
che
avrebbero
potuto
esserci
nell’intera
colonia.
A
quel
punto
mi
interessava
saperlo
più
che
la
data
precisa
del
mio
di
parto.
Applicai
una
di
quelle
formule
che
il
professore
di
statistica
per
le
scienze
sociali
ci
aveva
insegnato
a
lezione,
la
proiezione
statistica
che
ne
era
venuta
fuori
mi
allarmò.
Sperai,
a
dispetto
del
mio
bel
voto
in
statistica
II,
di
aver
sbagliato
i
calcoli
o di
aver
utilizzato
la
formula
sbagliata.
A
giudicare
dalla
velocità
con
cui
la
ditta
di
disinfestazione
si
presentò
a
casa,
non
avevo
sbagliato
i
calcoli.
Avevo
trovano
l’ennesima
scusa
per
tornare
a
Roma
a
tempo
indeterminato.