N. 32 - Agosto 2010
(LXIII)
A EST DEL DANUBIO
Capitolo XVII
di Leila Tavi
Vienna.
Ottobre
2004
Una
jalousie.
Il
cristallo
Swarovski.
Un
pendolo.
Questa
è
Vienna,
una
città
dagli
automatismi
poetici
e
dalle
produzioni
industriali
intrise
di
cultura.
Italia
vs.
Slovacchia
Stesso
appuntamento,
stesso
posto,
giorni
diversi.
Con
l’italiano
è
semplice
intendersi,
durata
della
telefonata
quaranta
secondi:
“Ci
vediamo
alle
due
in
Heldenplatz
davanti
all’OSCE”.
Con
lo
slovacco
è
tutto
più
complicato,
obietta
subito
che
un
posto
più
grande
per
dare
un
appuntamento
non
potevo
trovarlo
e
non
ha
mai
sentito
parlare
dell’OSCE:
“Aber
der
Heldenplatz
ist
doch
so
gross!
Was
ist
denn
diese
OSZE!”.
Durata
della
telefonata
tre
minuti.
Le
due
e un
quarto
del
pomeriggio;
l’italiano
aspetta
tranquillo
in
un
punto
ben
visibile
della
piazza,
come
concordato,
al
mio
arrivo
sorride
e
non
fa
pesare
il
ritardo.
Le
due
e un
quarto
del
giorno
dopo,
lo
slovacco
aspetta
seminascosto
nell’atrio
della
Nationalbibliothek,
al
mio
arrivo
non
saluta
neanche,
mi
fa
notare
a
brutto
muso
che
sono
in
ritardo.
L’italiano
e io
vaghiamo
senza
meta
per
la
città
conversando
e
tenendo
lo
stesso
passo,
o se
è
l’accompagnatore
ad
adeguarsi
al
mio,
lo
fa
così
bene
che
neanche
me
ne
accorgo.
Lo
slovacco
tira
dritto
senza
parlare,
sembra
di
fare
una
maratona
dove
mi
devo
concentrare
solo
a
tenere
il
passo,
senza
potermi
guardare
intorno,
come
se
invece
di
fare
una
passeggiata
ci
trovassimo
in
una
situazione
di
pericolo.
Al
Freyung
l’italiano
si
lascia
subito
convincere
a
entrare
nel
Palais
Harrach
per
una
mostra
d’arte
contemporanea.
Lo
slovacco
nel
Passage
dello
stesso
palazzo
si
ferma
bruscamente
davanti
alle
vetrine
di
una
galleria
d’arte,
osserva
un
quadro
esposto
e
dice
a
voce
abbastanza
alta:
“Das
ist
aber
kitschig!”
e
poi
riprende
la
sua
folle
corsa.
L’italiano
sceglie
un
vecchio
caffè,
sediamo
accanto
al
pianoforte,
commentiamo
le
notizie
dei
quotidiani
prima
di
mangiare
e il
tempo
vola.
Lo
slovacco
sceglie
Akakiko,
prende
due
lunch
box
con
sushi
e
sashimi,
senza
neanche
chiedermi
cosa
ordino,
poi
ingurgita
il
più
veloce
possibile
il
cibo
dal
vassoio,
senza
parlarmi.
Roma.
Settembre
2008
La
Thaïs
e la
vertigine
dell’Opera
dal
loggione.
Il
palco
reale
dimenticato
e
neanche
un
tassista
che
sappia
dove
si
trova
il
Teatro
dell’Opera.
Mia
madre
ha
l’abbonamento
in
una
specie
di
curva
Sud
della
lirica,
dove
si
ritrovano
anziani
esperti
pronti
a
fischiare
il
tenore,
se
non
è
stato
bravo.
Il
primo
violino
è
una
donna,
l’ho
vista
con
il
binocolo.
Il
politico
a
pranzo
dar
Meschino
e la
sua
scorta
fuori.
La
mia
Matiz
sospetta;
parcheggio
accanto
all’auto
con
i
vetri
oscurati,
apro
il
portabagagli
e
subito
si
avvicina
un
gorilla.
Forse
si
aspetta
che
tiro
fuori
un
kalashnikov,
e
già,
si
sente
aria
di
ritorno
di
Sessantotto
in
città,
ma
se
ne
rivà
quando
vede
che
tiro
fuori
i
miei
pattini.
Dalla
pista
mi
accorgo
che
continuano
a
osservarmi,
certo
fanno
il
loro
lavoro,
sicuramente
il
politico
non
deve
essere
questa
personalità,
se
nel
giro
di
chilometri
non
ci
sono
che
io e
i
suoi
gorilla,
che
non
hanno
perciò
che
me
da
guardare.
Forse
pensano
che
farò
come
l’iracheno
del
film
della
Bigalow;
aspetto
che
il
politico
esca
dal
ristorante
per
far
saltare
l’autobomba
posta
sotto
la
mia
auto
con
un
telecomando?
Se
sapessero
che
sono
anche
io
un
funzionario
dello
Stato,
nonostante
i
miei
jeans
strappati,
così
come
tanti
di
quelli
che
l’indifferenza
della
classe
politica
ha
mandato
a
morire
durante
il
periodo
della
guerra
civile
in
Italia,
che
una
certa
parte
del
Paese
ancora
preferisce
chiamare
“anni
di
piombo”.
Lo
Stato
che
servo
io è
fatto
di
persone,
quello
che
servono
i
gorilla
incravattati
davanti
alla
mia
auto
è un
apparato
burocratico
che
cigola,
fatto
di
politici,
alti
funzionari
e
magistrati
che
tengono
in
piedi
progetti
di
cooperazione
nei
Balcani
solo
per
non
far
stare
senza
lavoro
l’amate
locale
di
turno,
che
spacciano
per
loro
traduttrice.
Gente
che
tira
cocaina
per
non
avere
il
senso
di
colpa
nei
confronti
dei
giovani
che
lasciano
senza
cultura,
degli
anziani
che
hanno
costretto
a
rubare
un
pezzo
di
formaggio
o un
grappolo
d’uva
nei
supermercati.
Il
senso
di
colpa
lo
hanno
lasciato
a
noi,
quando
diamo
il
voto
a
questi
individui
senza
spina
dorsale,
così
come
lasciamo
fare
al
cane
del
vicino
i
bisogni
davanti
al
portone
e
non
ci
accorgiamo
di
come
questi
escrementi
ci
abbiamo
imbrattato
anche
l’anima.