N. 5 - Maggio 2008
(XXXVI)
A EST DEL
DANUBIO
CAPITOLO
X
di Leila Tavi
San Felice Circeo, dicembre 2003.
Scrivere talvolta può essere come sedere davanti a un
paesaggio cercando l’ispirazione per riprodurlo su una
tela, aspettando ore e ore con pazienza la luce giusta.
Non ho mai visto la neve al mare, deve essere uno
spettacolo unico.
La risacca è come musica. Mentre cammino a riva mi accorgo
delle bottiglie di plastica, di tutte quelle che sono
servite a dissetarci d’estate, quelle che d’estate sono
accuratamente rimosse a fine giornata dalle spiagge, ma
che d’inverno non danno fastidio sulla sabbia, quando
gli stabilimenti sono chiusi.
Dovremmo imparare dalla gente del Mustang, in Himalaya, lì
non esistono rifiuti, non si spreca neanche lo sterco
degli animali, è usato come combustibile.
Tra tante bottiglie vedo il corpo di un maialino, ormai di
colore livido, assediato dalle mosche. No, non è una
pagina di Lord of the flies, mi chiedo che ci fa
un maiale morto ai piedi della montagna di Circe? Uno
degli uomini di Ulisse? Così bianco e livido sembra una
creatura marina, uno di quei mostri di cui si legge nei
vecchi bestiari medievali.
Il vento salato spacca le labbra, penetra nelle narici,
tempra lo spirito. È come una droga di cui non puoi fare
a meno, mentre vorresti odiare quel mare che ti ha
portato via un grande amore.
Anche se sai benissimo che lui non avrebbe voluto che
morire in mare, nella sua eterna sfida con le onde.
Il palmo di una mano di un ragazzino che non ha vissuto il
cambio di millennio, un palmo già rugoso a vent’anni
perché deve resistere con forza al vento che tenta di
buttarli giù la vela; in quel momento il ragazzino è
solo contro vento, in mezzo all’immenso del mare.
E io dovrei pagare adesso per non aver voluto aspettare
come le altre a riva? Anche adesso ci sono delle donne
che aspettano a riva, fiere, i loro uomini che sfidano
il mare d’inverno in sella ai loro kitesurf.
Ma non sono capace di stare a guardare sfidare la vita, ho
sempre voluto partecipare, competere, con il corpo, con
la mente.
Forse adesso che non ho più la frenesia dei vent’anni,
potrei imparare ad aspettare, ma non ho nessuno da
aspettare.
Vienna, 20 giugno 1996.
Caro Davide,
è
passato molto tempo dalla nostra ultima telefonata. Le
nostre vite sono ormai troppo distanti da non
permetterci più neanche di essere amici. Quindi non ti
scriverò più cosa faccio, chi incontro, cosa sento, ma
solo cosa penso. Questo sì, ho ancora molto da dirti in
proposito. Ogni tanto mi piace ricordare una frase che
scrisse Camus: “Il faut imaginer Sysiphe heureux”.
Sisifo, condannato a portare senza sosta una roccia
sulle spalle su e giù per un pendio in eterno, è
comunque felice. Cerca di immaginarlo anche tu questo
Sisifo felice, magari immagina me china sui manoscritti
in antico alto tedesco, o tua sorella Stefania che vuole
diventare ingegnere. C’è un’alternativa all’essere
ribelle e non scendere a compromessi con la vita.
Dobbiamo cercare un equilibrio tra il rimanere bambini
che guardano tutto come se fosse un’affascinante novità
e diventare adulti in grado di scrollarsi di dosso
l’egotismo dei bambini. In mezzo a questo c’è l’orrore e
l’estati della vita. Sono contenta che tu sia riuscito a
realizzare il tuo desiderio di vivere oltre un’esistenza
borghese e ti vedo ancora andare, i pugni nelle tasche.
Chi può dire l’ultima parola sugli altri? Chi la può
dire su se stesso? Spesso non c’è un fondo in noi
stessi, ma una superficie all’infinito. Qualcuno
esorcizza la paura della morte esaltando il male, ma non
è che una paura infantile della finitezza umana. Non ti
trincerare, Preppy, dietro ai tuoi silenzi, dovresti
scrivere di tutto ciò che hai l’opportunità di conoscere
in questi tuoi anni di vagabondaggio per il mondo e
dovresti scrivere di quel dolore che ti porti dentro. È
un debito che hai con l’umanità. Quella che tu chiamavi
la mia padronanza della lingua mi permetterebbe di
scrivere dei libri puri, forbiti, suggestivi, ma non so
se riuscirebbero a raggiungere veramente l’animo dei
lettori. A me manca il disagio esistenziale
dell’artista, quello che ho visto in te. E io mi ritrovo
qui con un gomitolo di ricordi di cui riesco ormai a
vedere l’estremo opposto. È piccolo in fondo, sai?
Riesco a tenerlo anche dipanato chiuso in una mano. E
dire che pensavo che si sarebbe potuto farne un
pullover. Appartiene solo a me adesso. Lo rigiro, lo
avvolgo, lo dipano ancora, mentre tu vaghi nel labirinto
della vita. Mi domando con presunzione se riuscirai a
trovare la tua via. Tu, che cucciolo senza lupa, vaghi
ramingo nella steppa. Come poteva il mio esile filo
competere con il suo cordone? Era lei che cercavi quando
reclinavi il capo sul mio grembo e ti lasciavi
accarezzare? È lei che vuoi punire nelle altre donne? Un
giorno riuscirai a ritrovarla nel tuo viso, allora
capirai che ho cercato di amarti come avrebbe fatto lei.
Roma,
marzo 2008.
Qualche volta mi torna in mente un racconto russo su un
pittore squattrinato che credeva di poter parlare con il
suo bollitore del tè. In russo чайник, bollitore
del tè, sta a rappresentare, nella lingua colloquiale,
qualcuno che è fuori di testa; forse perché il bollitore
del tè, quello che si usa nei Paesi dell’Est ancora
oggi, è in ottone con un piccolo beccuccio attraverso
cui passa il vapore acqueo, con violenza, quando l’acqua
bolle e, se non si è pronti a spegnere il gas, emette un
fischio assordante, come quello della nostra pentola a
pressione.
È per questo che i Russi hanno fatto l’associazione tra i
pazzi e i bollitori del tè, i pazzi urlano e non si
contengono, proprio come i bollitori d’ottone fabbricati
nell’Est.
Io ne ho cambiati tanti di bollitori del tè, alcuni vecchi
e inutilizzabili li ho regalati a mia madre, che ci ha
piantato dei semi e li tiene sul balcone.
Quello che provo invece per la caffettiera è un odio
profondo, quasi da far pensare che, come molti
suppongono, non sia un caso che io abbia una figlia
slava che, anche se non lo ammetto, allora, ci sono
queste ascendenze dell’Est.
Eppure a casa mia hanno sempre bevuto il caffé; mio padre
non se lo faceva mai mancare nella pausa prima di
tornare a lavoro, preferibilmente corretto con una
goccia di sambuca o di mistrà. Per un certo tempo
abbiamo avuto anche il mistero della tazzina di caffé
scomparsa, quando mio padre si addormentava per qualche
minuto sul divano durante la siesta, con accanto il suo
caffé corretto, servito al vetro, e si risvegliava con
il bicchiere vuoto e non capiva cosa era successo. Era
solo certo che il caffé non lo aveva bevuto, un momento
era là, l’altro era già sparito.
Mia madre lo rassicurava che no, che si sbagliava, che
doveva averlo bevuto prima di addormentarsi senza farci
caso.
La storia è andata avanti per qualche giorno e poi i miei
genitori mi hanno interpellata, cominciando a fare delle
domande strane sul caffé fino a che, insoddisfatti delle
mie risposte, hanno preteso una confessione da me circa
il mistero del caffé.
A me, proprio a me, che del caffé non ho mai potuto
sopportare neanche l’odore. E sì che tra le due figlie
non potevo che essere stata io, la maggiore, quella che
già faceva la prima elementare. Invece un giorno mia
madre si vede spuntare la testolina di mia sorella Laura
dalla porta del soggiorno con due bei baffi di caffé.
Laura appena stava in piedi che già, da brava italiana,
concludeva il pranzo con una tazzina di caffé corretto.
Ancora oggi quando viene a casa nostra si lamenta che non
abbiamo una caffettiera decente, mi rimprovera che la
caffettiera non va lavata con il sapone, ma solo
sciacquata con dell’acqua corrente.
Sarò pure d’indole calmucca, ma quelle due dita di liquido
nero, magari rimpolpato con due cucchiaini di zucchero e
del liquore, non si può dire bevanda. Cosa bevi? Non fai
a tempo a metterci le labbra sopra, che già è finito. E
poi quei fastidiosi residui nel fondo della caffettiera,
che per togliere il filtro devi infilare le unghie o
battere la parte inferiore della caffettiera
direttamente nella pattumiera per farne uscire il
coriaceo fondo di caffé. Alcuni se lo battono perfino
sulla mano.
Il tè invece è una cosa seria, ha tutto un suo rito. Il
caffé cambia solo miscela, puoi decidere di acquistarlo
in chicchi e tostarlo in casa, questo è il massimo della
fantasia. Le varianti sul tè sono,al contrario, infinite
combinazioni di erbe, frutta e altri ingredienti.
Di solito amo tenere la tazza bollente tra le due mani e
assaporarne a piccoli sorsi la bevanda ancora fumante,
pura, senza zucchero o miele.
Quando Katarina e Ingo sono venuti a trovarmi qui a Roma da
Berlino, sapevano già cosa portarmi. Katarina ha chiesto
alla madre, originaria di San Pietroburgo, di comprare
per me un bollitore del tè; quando vengono gli ospiti o
i parenti dalla Slovacchia portano le migliori miscele
di tè alle erbe di montagna.
Quando sono andata io a trovare Katarina e Ingo a Berlino
mi hanno pregato di portare una confezione di Illy caffé;
se mi trovo a Bratislava e ho dimenticato di portare
qualcosa dall’Italia per la mia dottoressa o per la mia
ex suocera, e se per caso, invece che in centro, sono
costretta a rimediare in un supermercato di periferia,
l’unica cosa di italiano che si trova è il caffé Lavazza.
A Roma non ci sono molte alternative alle sale da tè, dove
il tè viene servito in tazze piccole e a prezzi
esorbitanti; in genere ti devi accontentare del tè nero
o della camomilla, al massimo di quello deteinato,
bevuto in piedi al bancone di un bar. Guai a chiedere
una tazza di tè a fine cena in un ristorante che non sia
cinese o giapponese, i camerieri ti guardano come se
avessi chiesto chissà cosa.
Allora la sala da tè russa dietro a Largo Argentina si
popola di nostalgici, di professori che ancora leggono
Marx, di amanti della letteratura russa e di qualche
straniero del Nord che non ha perso l’abitudine del tè
delle cinque.
Jane beve solo tè nero di Ceylon, da brava inglese, come,
del resto, fa anche Katia da italo-australiana a Sydney;
Jane con una lacrima di latte, Katia con una fetta di
limone.
A Bratislava, seduta a conversare con gli amici canoisti di
Ivan, ne bevevo a litri, costretta a tenere i ritmi
delle loro pinte di birra scura. Ogni giro di tavolo era
mezzo litro per loro e una tazza per me. Parlavamo di
politica internazionale, dell’imperialismo statunitense,
delle differenze con l’imperialismo sovietico.
All’inizio facevamo fatica a trovare una lingua veicolare,
se utilizzavo l’inglese mi capivano tutti gli amici di
Ivan, tranne lui, se parlavamo Ivan e io in tedesco gli
altri non capivano, se parlavano loro slovacco io
riuscivo solo a intuire, carpire qualche parola qua e
là, senza poter controbattere. Poi la birra faceva il
suo effetto e tutto era più semplice.
Posso considerare un grande onore, come donna che non ha
mai praticato canoa, l’avermi concesso di frequentare la
Boatshaus, quella casupola è per gli Slovacchi di
Bratislava, quello che rappresenta Trigoria per i
Romani.
La canoa è, con l’hockey su ghiaccio, lo sport nazionale
slovacco, da quella casupola sul Danubio vengono i
fratelli Martikan, uno di loro, Michal, è medaglia
d’oro, campione mondiale assoluto; suo padre è un
omaccione, li allena da sempre alla Boatshaus; da
piccoli li ha addestrati alla paura facendoli saltare
dal tetto della casupola, così da non avere paura poi
delle rapide più impervie.
Dopo gli allenamenti i ragazzi e gli allenatori fanno la
sauna e poi escono al freddo sulla riva del fiume solo
con un asciugamano sui fianchi e una bottiglia di birra
in mano. Sono uomini duri, sanno domare le cascate,
hanno i calli sulle mani a forza di pagaiare contro
corrente.
Tra di loro si chiamano con dei soprannomi, quello di Ivan
è Cuco, poi c’è Kikiriki, Martin, che ha
allenato i migliori atleti negli Stati Uniti e in Nuova
Zelanda, eppure non ha neanche trent’anni. Čaro,
Peter, è il più affascinante di tutti loro, nessuna
donna gli resiste; a Roma, durante i festeggiamenti per
il nostro matrimonio, ha fatto strage di cuori, io
stessa, anni dopo, ho dovuto faticare per non cadere
nella trappola della sua inconsapevole seduzione, in
fondo è il miglior amico del mio ex marito, nonché
testimone di nozze.
Ora Peter gira il mondo con il suo windsurf, quando
non lavora come ingegnere per la Vajda, una ditta di
produzione di canoe che un altro del gruppo, Robert,
detto Vajda, ha tirato su dal niente, dentro un
capannone in periferia, all’inizio degli anni Novanta, e
che adesso fa concorrenza alle marche migliori come la
Prijon e la Rainbow.
Sembra strano da credere, ma tanto forte era il cameratismo
che legava Ivan al suo gruppo di compagni della
Boatshaus, che la prima notte di nozze l’abbiamo
passata in sacco a pelo insieme agli altri. Erano bei
tempi, quando andare in vacanza significava per noi
prendere un sacco a pelo e le corde per arrampicare.
Adesso Ivan va in vacanza solo negli alberghi dozzinali,
quelli dell’all inclusive, possibilmente in zone
poco rumorose, perché la sua compagna cinquantenne, che
gli fa da madre prima che da amante, non riesce a
dormire se non ha un assoluto silenzio e un bagno solo
per lei.
Noi dormivano dove capitava, a terra, negli aeroporti,
nelle stazioni, non ci disturbava il rumore o lo sporco,
eravamo solo eccitati all’idea di visitare un posto
nuovo, di poter scambiare opinioni ed esperienze con le
persone del luogo. Spesso dormivamo in riva la mare,
anche d’inverno se capitava, dopo aver arrampicato,
avvolti nel sacco a pelo da esploratori dell’Antartico,
quello che non disperde il calore del corpo fino a -20.
Avevo preso il posto di Denisa, in ricordo di cui Ivan
aveva chiamato nostra figlia. Denisa si arrampicava
sulla roccia come un abile ragno, solo, senza
protezioni; quando avevano fatto insieme le Tre Cime di
Lavaredo Denisa era appena diciottenne, ma a farsela a
sotto era stato Ivan, mentre scalavano la roccia.
Durante i miei controlli dal ginecologo, nel periodo della
maternità, non avevo voluto sapere il sesso del
nascituro poi, un giorno, il dottore si era lasciato
scappare “Dem Butzi geht’s gut!”. Senza chiedere,
pensando a una dimenticanza del dottore, al fatto che
involontariamente si era lasciato scappare che era un
der, un er, un lui insomma, a casa ne
abbiamo parlato a lungo e Ivan aveva deciso che se si
trattava di un maschio era giusto che portasse il nome
di Davide.
Pensi che glielo devo scrivere? Che sarà orgoglioso? Ma in
cuor mio sapevo che Ivan avrebbe voluto una femmina per
ricordare la sua coraggiosa Deniska, morta a diciannove
anni precipitando da una roccia di Palstein per uno
stupido errore, per essersi assicurata in un punto
sbagliato, dove il gancio non poteva reggere il peso del
suo corpo.
Denisa è volata nel vuoto per trenta metri per poi
sfracellarsi su una roccia.
I primi tempi insieme a Ivan dovevo tenerlo quando eravamo
in montagna, usare tutta la forza per impedirgli di
buttarsi da una roccia; se non fossi stata forte come
sono, saremmo precipitati tutti e due, ma io a quel
tempo non potevo capire, non sapevo che cosa significava
vivere con quel dolore. Vedevo solo un ragazzo
disperato.
Pensavo che il tempo allevia ogni dolore e invece mi
sbagliavo.
Nonostante gli insulti, le violenze che ci siamo fatti l’un
l’altra, Ivan e io sappiano in quale stato ti può
rendere il dolore, ma quando è toccato a me, quando
volevo saltare io giù dal ponte del Danubio, Ivan non è
stato in grado di tenermi, ho dovuto farmi forza da
sola.
Denisa è precipitata nel vuoto, Davide non è riuscito a
risalire il fondale marino.
E noi due siamo ancora qui a doverci improvvisare genitori,
con i nostri progetti, i nostri sogni, le nostre piccole
noie quotidiane, forse se non avessimo avuto loro vicino
non avremmo saputo veramente cosa vuol dire avere
accanto una persona di cui non puoi fare a meno, che ti
basta averla accanto e ti sembra che hai tutto.
Forse saremmo ancora marito e moglie, avremmo tirato
avanti tra ipocrisie e tradimenti una vita senza qualità
pensando che tanto, alla fine, le relazioni coniugali
sono una prassi sociale, invece nel nostro dolore siamo
stati fortunati, in questo ci capiamo ancora adesso che
siamo diventati quasi due perfetti estranei. |