N. 3 - Marzo 2008
(XXXIV)
A EST DEL
DANUBIO
Capitolo VIII
di Leila Tavi
Vienna, agosto 2006.
Dopo sei anni sono tornata a casa mia, vicino al fiume.
Ho camminato come facevo sempre d’estate, quando a
Vienna fa caldo, dal fiume verso casa.
È
tutto uguale, tranne che per quel grattacielo con la
punta, come una torre di controllo di un aeroporto.
Per un momento ero come persa, non ho saputo spiegare come
si arriva a Copa Cagrana a due turisti giapponesi, poi
pian piano tutto è riaffiorato alla memoria.
Mi fermo per un momento a guardare il Danubio dal
sottopassaggio pedonale della Reichsbrücke, dove corre
la metropolitana, qui, nel punto dove è segnata la metà
precisa del ponte che collega il secondo distretto con
il ventiduesimo.
Una notte di febbraio di sei anni fa decisi di scavalcare
il ponte proprio in quel punto; nel panorama si staglia
la chiesa di Mexicoplatz lì, dopo tante esitazioni e
ripensamenti, abbiamo deciso di battezzare Denisa ormai
grande; mi ricordo ancora quel prete italiano, padre
Mario, che doveva correrle dietro intorno all’altare e
come Adriana e Hana non smettevano di masticare la gomma
americana durante la funzione.
Che pretendeva quel prete da una famiglia di origine
cecoslovacca a cui era stato detto che le chiese
cattoliche erano utili solo come spazi per le piscine
comunali?
Quando sono arrivata a Vienna per la prima volta nel
1992 quella chiesa era stata adibita a rifugio per i
profughi della ex Jugoslavia.
Quante navi ogni giorno attraccano in questa parte del
Danubio, quante ne abbiamo visitate con Denisa per
salutare il nonno di passaggio a Vienna: navi da
crociera, per il trasporto merci, case-battello, come
quella di una coppia di olandesi, che all’interno aveva
perfino un pianoforte e un gatto persiano.
In
quella notte di febbraio qui non riuscivo neanche a
sentire freddo per quanto stavo male dentro. Mi sono
seduta dall’altra parte della balaustra, nevicava. In
quel punto di solito soffia il vento anche d’estate;
quella notte non passava nessuno.
Adesso mi chiedo quanto ho dovuto pagare, per quanto
ancora sarò punita per non aver saputo aspettare, per
non aver capito a suo tempo. Mi sento un’idiota per non
essere riuscita a cambiare il corso della storia, della
mia storia.
I
flussi d’acqua sono imponenti in quel punto, quei flussi
attraversano intere nazioni prima di giungere al mare.
Ecco davanti a me Ybbsstraße; a prima vista sembra la
stessa di sempre: gli stessi fiori alle finestre, gli
stessi locali, all’angolo la birreria ceca dove lavora
la cameriera che ha firmato Charta 77.
Mi
sembra addirittura di vedere le stesse facce e come è
strano capire adesso la babele di lingue dell’Est che
all’inizio era solo una melodiosa cantilena alle mie
orecchie.
Le auto continuano a fermarsi in attesa che le prostitute
si avvicinino, c’è lo Strich come allora.
Clienti in cerca di soddisfare i loro bisogni o le loro
perversioni, non molestano mai, aspettano discreti che
sia la donna ad avvicinarsi; le prostitute di Ybbsstraße
si confondono con le altre donne.
Un
tempo ce n’era una incinta, me lo hanno spiegato quando
anche io ero incinta e non capivo come mai, anche con la
pancia, avevo le auto che si fermavano sotto casa.
Una volta Denisa si è fermata davanti a uno dei bordelli
vicino casa, davanti a quello che si trovava di fronte
al doposcuola comunale, accanto al ristorante russo, i
cui padroni gestivano l’interno giro di prostituzione
della zona.
Si
era fermata perché nella vetrina del bordello stava
seduta una donna modesta, vestita normalmente, con le
gambe aperte. Stava su quella sedia e sembrava non
guardare; Denisa aveva appena due anni e non mi chiese
nulla, rimase lì a osservare quella donna immobile sulla
sedia.
Alzo gli occhi al cielo e vedo le finestre di casa mia,
ci sono ancora quelle tapparelle rosse, una delle
tapparelle della camera da letto è ancora rotta; i nuovi
inquilini lasciano le finestre aperte, così come facevo
io.
Forse anche per loro è una casa di passaggio, come lo è
stata per me.
Torno in metropolitana e senza accorgermene sbaglio
direzione. Il tempo ci fa dimenticare le nostre azioni
quotidiane, quelle che ripetiamo fino a farle diventare
automatismi, tanto da credere che saranno fisse nella
nostra memoria, invece ci sbagliamo, sono solo alcuni
momenti, quelli che ti segnano per sempre, a non
sbiadire con il passare del tempo.
Non sono una statista in grado di cambiare il corso
della storia, dell’umanità; non ho avuto la possibilità
di evitare quell’incidente, non l’ho capito, non sono
riuscita a comunicarlo nel modo giusto.
Non sono stata convincente quanto basta, non ho avuto la
determinatezza di prendere un aereo senza uno scopo
preciso; ho sempre avuto erroneamente la convinzione che
prima o poi il destino fa il suo corso.
Aver perso Davide mi ha dato il coraggio di buttare via
quegli occhiali da materialista incallita, questo mi fa
apparire qualche volta un po’ miope, meno invulnerabile,
non più sagace come una volta.
Ho
perso la dote di saper osservare tutto da una cinica
distanza e vedo i contorni ondulati di qualcosa che non
riesco più a mettere a fuoco, qualcosa che mi sembra
familiare e sconosciuto allo stesso tempo, qualcosa di
finito e chiaro nella sua incompletezza.
Roma,
febbraio 2008
La
musica ha il potere di unire la massa e le
individualità.
Sto ballando da sola in mezzo a tanti altri. Lo faccio da
quando andavo a scuola, lo sa bene Sandro che dalla
consolle ogni tanto mi butta uno sguardo; dopo tutti
questi anni sa che non c’è uomo che riesca ad
avvicinarmi mentre ballo.
Mentre mi muovo guardo nel vuoto, sento la musica che
rimbalza nella cassa toracica; è il principio delle armi
subsoniche, spappolare le membra senza traccia di
sangue.
Uno dei metodi di tortura nella prigione di Guantanamo,
fare del male a dei ragazzi usando qualcosa che amano,
la musica.
Musulmano era chiamato nei lager nazisti l’uomo piegato
su se stesso, colui che non è più neanche un uomo.
Anche io quando voglio farmi del male uso la musica, più
è sincopata è meglio è; lo faccio in auto, nel traffico
del centro, alzo il volume della radio fino a farmi
male, fino a non riuscire più a pensare.
Adesso si avvicinano due uomini, uno balla e suda, si
dicono qualcosa e mi guardano, io faccio finta di non
averli notati, ma già stringo i pugni e continuo a
fissare nel vuoto.
Come mi fanno pena quelle donne che vengono qui sole in
attesa di farsi adescare, addobbate come abeti nel
periodo natalizio, il trucco copre le pieghe agli angoli
della bocca, per gli uomini sono facili prede; al centro
della pista una coppia si abbraccia e scherza, qualche
anno fa non li avrebbe notati nessuno, oggi sono una
rarità tra una quantità di gente sola.
Un
preludio di Bach lo senti pulsare sui polpastrelli e poi
lentamente salire per la schiena fino alla nuca.
La
musica ti può entrare dentro con violenza o dolcemente,
proprio come un uomo.
Quando ho chiuso gli occhi mio padre non poteva sapere
che quel nome che mi ha dato avrebbe potuto essere
motivo di discriminazione in questa nuova Shoah contro i
musulmani.
La
Shoah dell’Occidente pragmatico sul Medio Oriente che
ancora cerca di credere nello spiritualismo diviso tra
natiche ben rasate che ondeggiano sui canali satellitari
e volti appena impercettibili dietro a veli neri.
Proprio mio padre, che una volta rimproverò dei parenti
per aver messo nome Sarah alla figlia. Non aveva
dimenticato le persecuzioni fatte solo in base a un
nome.
E
adesso come me Denisa, che dice di aver in classe altri
tre bambini “estranei” come lei. |