N. 2 - Febbraio 2008
(XXXIII)
A EST
DEL DANUBIO
Capitolo
VIi
di Leila Tavi
Vienna, marzo 2003.
Sto
uscendo dalla fase dell’acquiescenza pragmatica, il
mondo interiore è apatico, sono stanca di alzare le
spalle, di vedere tutti affannarsi alla ricerca della
risoluzione di situazioni private, mentre digeriamo la
morte in diretta, ogni sera, puntuali tra le sette e le
otto.
Sono
arrivata a una fase di incontinenza del cervello.
У меня болит головá! Ma boli hlava!
Mein Kopf zerplazt!
È
arrivato il momento in cui la ragione mi abbandona e la
nausea diventa sempre più forte.
Neanche quando ero incinta soffrivo di nausee, neanche
quando sono rimasta sospesa a 200 metri, tra il vuoto e
una parete rocciosa, calata in quell’imbraco che premeva
sulla pancia, mentre la pioggia rendeva le corde pesanti
ed era difficile farle scorrere nella carabina.
Il
cervello continua a rimuginare parole in lingue diverse,
in una cacofonia simile al vomito. Va fatto il vaccino
contro le zecche, è primavera e bisogna vaccinarsi
contro le zecche.
Il
segreto è non pensare, non pensare rende felici e
riserba sorprese nella vita. Per chi specula tutto è
come dopo una sbornia.
Siamo
vittime dell’inquinamento visivo.
Subiamo gli effetti collaterali della luce artificiale.
Vorrebbero farci credere che viviamo in una
Schutzzone e si consuma il dramma delle nuove
crociate, senza che Tancredi possa abbracciare Clorinda
morente.
Il
mistero laico e la vertigine della fede.
In
questo Polizeistaat ricordo poliziotti in
borghese prendere a calci i cartoni degli immigrati
clandestini su via della Lungaretta e un ragazzo del
Bangladesh, che avevo visto sistemare poco prima
fischiettando i suoi teli con la merce, scappare con il
terrore sul viso, tirandosi dietro un lenzuolo con
dentro non so cosa. Tutto è stato così veloce che non
sono riuscita a capire che cosa vendesse.
La
morte di un comunitarista; l’halakhà e il peso
dell’agunah. Quando l’amore significa sfortuna
impari a prenderne le distanze e il dolore è una
presenza che percepisci, a cui però non puoi
avvicinarti.
Cosa
hanno da raccontarsi un attivista globale e una
localista? Li unisce una piazza in rivolta.
Dormire nel letto di Buchengasse, con la luce al
neon in strada puntata proprio verso i tuoi occhi,
attraverso i vetri, come qualcuno che ti punta una
torcia addosso nel buio della notte e ti svegli di
soprassalto.
Non so
per quanto tempo dormirò ancora in questo monolocale con
il bagno fuori, in comune con la mia vicina polacca.
Non so
per quanto tempo vivrò ancora in questo quartiere dove
non incontri un albero per chilometri, ma la gente ha lo
sguardo sincero e le mani screpolate dal lavoro.
Qui si
vedono solo pochi vecchi viennesi ma è un crocevia di
ucraini, russi, pakistani, yugo, turchi, curdi,
polacchi, slovacchi.
Come
una volta mi siedo sul ciglio del davanzale della
finestra, con i vetri spalancati, come ero solita fare
nelle notti d’estate, per ore, nell’appartamento sulla
Ybbsstraße.
L’Est
incontrava l’Oriente; qui, nella Buchengasse, per
vedere i tetti spioventi devi alzare lo sguardo, facendo
attenzione a non abbassarlo mai, per non rischiare di
incontrare quella luce al neon in strada, quella che non
ti fa dormire la notte.
Denisa
da quella foto fatta a Villa Borghese ti ricorda che
questo non è il tuo posto. Lo lascerò presto, come ne ho
lasciati tanti altri.
Da una
mansarda nel quinto Bezirk la città sembrava
un’altra: cupole illuminate, il duomo, oasi di luce
illuminano palazzi che appartengono al passato; il
ricordo dei salotti viennesi, il silenzio che allieta le
orecchie in cui rimbombano ancora quelle parole:
talianska piča.
L’acre
odore di alcool svanisce in quello caldo del caffé
italiano che Luisa non dimentica mai di offrire ai suoi
ospiti.
La
vedo ancora preparare la caffettiera con quelle sue mani
scure, piccole ma affusolate, e il suo viso tondo e
sorridente, che si è portata in eredità dalla sua calda
terra, la Sardegna.
In
quella mansarda, in cui Denisa e io avevamo trovato
rifugio, il cielo di notte sembrava dipinto.
In
quella mansarda il cui l’armonioso design, studiato fino
all’ultimo particolare, era rotto dalle dentiere
d’antiquariato, messe in bella vista in una vetrina
illuminata, gli arnesi da lavoro del padre di Paul e
Georg.
Un
mestiere che Paul ha voluto seguire e di cui Georg non
ha voluto sapere. Georg è sempre lì nell’angolo del
soggiorno, con un occhio al tavolo da disegno e uno al
computer. La notte con qualche scusa si affaccia dalla
sua stanza per controllare se Denisa e io dormiamo.
Mi
trova sveglia abbracciata a Denisa, ricambio il suo
sguardo preoccupato con uno pieno di gratitudine, allora
se ne va con un cenno del capo.
Georg
gioca spesso con suo nipote Luca, che parlerà, come suo
padre Paul, un perfetto italiano con una leggera
inflessione sarda. Georg è diventato padre a diciassette
anni, Florian vive a Salisburgo e qualche volta lo viene
a trovare, porta il cognome della madre, ma Georg ama
farsi chiamare papà, anche se per la strada, a degli
sconosciuti, sembrerebbero fratelli.
Ricordo la gita al Bad fuori Vienna con Luisa,
quell’atmosfera di fine impero, il mio regalo prima
della partenza per Roma.
Sono
ancora lì alla finestra e non voglio spostarmi, non
ancora; quando Denisa dorme nella notte mi capita di
pensare a qualcuno che non so mai dov’è, alla porzione
di cielo che questa volta potrebbe dividerci.
Vienna
dicembre 2007.
C’è
neve dappertutto, come non se ne vedeva da anni; è tutto
così bianco che fa luce nella notte.
Sento
le ruote di questo vecchio treno che viaggia attraverso
le montagne stridere sui binari e ho nelle orecchie
ancora il rumore degli sci sul ghiaccio, quando prendi
bene una curva in velocità e senti che gli sci tagliano
come lame e il tuo corpo rimane in equilibrio su quel
terreno ripido e scivoloso solo grazie a quell’appena
percettibile attrito con il ghiaccio.
Quando
scenderò dal treno potrò andare a mangiare in un
ristorante al centro di Vienna così come sono, con i
cargo della Burton, le scarpe da ginnastica slacciate e
gli Uvex sopra al berretto da neve.
Nel
vedermi nessuno dirà niente, sembrerà normale che
passeggio in tenuta da sci lungo la Rotenturmstraße
che, in occasione di questo Capodanno, è stata
illuminata con delle enormi sfere rosse al posto dei
lampioni.
Così
ricorda tanto la città di Blade Runner, fasci di
rosso tra il dominante blu notte, e io mi sento un po’
una replicante qui; nessun legame, nessun futuro, solo
un passato che ho imparato a recitare a memoria per non
dimenticare.
La
sera di Santo Stefano, appena arrivata, sono andata a
cena in un giapponese, gli altri seduti ai tavoli devono
avermi preso per una prostituta senza clienti, perché
quel giorno tutti gli uomini lo trascorrono in famiglia.
Eppure
ho camminato in cargo e Uvex per le vie del centro e
nessuno ha pensato male; questa mattina sono uscita così
da casa, con il giornale sottobraccio, e neanche i
turchi hanno detto niente.
Finalmente cade la neve a Vienna, è piacevole sentire i
fiocchi di neve sulle labbra e sulla pelle nuda quando
sei immersa nell’acqua bollente di Oberlaa, all’aperto.
Vedo
quei punti bianchi cadermi sul braccio e sciogliersi al
calore del mio corpo.
In
questa notte di Capodanno camminerò sotto la neve tra
tanti sconosciuti e le loro aspettative per il futuro.
Quando
sei sola in una notte come questa ti accorgi di cose che
gli altri sono distratti per vedere o per sentire. Come
quell’uomo che in metro si è avvicinato alla donna
seduta accanto a me e le ha detto che non si vedevano da
tempo e la donna era sorpresa che si ricordasse di lei.
L’uomo
ha continuato dicendo che non era passata più al suo
negozio e poi le ha chiesto se era araba, sperando che
rispondesse di sì.
La
donna ha scosso la testa sorridendogli e poi si è
avvicinata all’uscita. L’uomo l’ha seguita e le ha
augurato buon anno mentre le porte si richiudevano
dietro di lei. La donna di spalle sulla banchina non ha
visto lo sguardo pieno di malinconia e di passione
dell’uomo mentre si risedeva.
Se la
donna avesse visto quello sguardo avrebbe saputo cosa
avevano significato per il venditore quelle visite in
negozio.
Poi ti
capita di vedere il proprietario del sushi bar che
licenzia la sua vecchia cuoca di Ulaanbaatar perché non
sa cucinare, il tutto in un cattivo tedesco e nella sera
di Capodanno, mentre davanti a me tre ragazzi sordomuti
ridono felici in silenzio e sembrano avere tanto da
raccontarsi.
Forse
non mi capiterà più nella vita di passare l’ultimo
dell’anno da sola, non capita neanche ai combattenti in
Cecenia; sicuro capita agli anziani nelle corsie
d’ospedale.
Quel
barbone con i suoi sacchetti di plastica in mano non
trova pace oggi nei corridoi della fermata
Stephansdom, è convinto che quella sia casa sua e
non sa che giorno è oggi.
Spaventato dalla folla, vaga in cerca di un angolo dove
stendersi tranquillo. Nella sala di controllo della
stazione sono pronte le barelle per i feriti. |