N. 1 - Gennaio 2008
(XXXII)
A EST DEL DANUBIO
Capitolo
VI
di Leila Tavi
Luglio 1999.
Il dolore fisico ci rende vili, quello dell’anima forti.
Quando si guarisce dal dolore fisico si è ritemprati,
quando si guarisce da quello dell’anima ci si sente
soli.
Me ne sto stesa su questo letto d’ospedale da tra giorni
senza far niente, ferma immobile, attenta a non muovere
il braccio a cui è attaccata la flebo. Non mi ricordo
bene cosa è successo, ancora rivedo quella salita
ripida, la marcia estenuante che abbiamo fatto per
arrivare alla vetta, senza mangiare, senza acqua, con
solo un succo di frutta e dei biscotti per Denisa, che
Ivan ha portato a spalla tutto il tempo senza la minima
smorfia di fatica per tutto il tempo.
Stavo impazzendo dalla sete, abbiamo passato la zona dei
laghi intorno a mezzogiorno per trovare una fonte solo a
pomeriggio inoltrato. Non avrei voluto bere, per quella
repulsione animale verso l’ignoto al primo impatto, ma
Ivan ha insistito. L’unico modo per resistere ancora a
due ore di risalita e alla lunga marcia del ritorno.
Una volta in cima non c’è stato neanche il tempo per
riposarsi, eravamo in ritardo, saremmo dovuti tornare a
valle prima di notte. Ivan ha voluto immortalarci sotto
la bandiera della vetta mentre mi chiedevo che tipo di
soddisfazione provava a spingerci sempre alla soglia dei
nostro limite fisico.
Per me valeva la regola contraria, amavo le sfide della
mente, riuscire a tenere la concentrazione viva sempre.
La notte in baita mi sono svegliata di soprassalto,
alternavo momenti in cui mi sentivo bruciare ad altri in
cui tremavo, poi ho barcollato fino a fuori con niente
addosso per non sporcare il parquet della baita,
per non dover sentire le lamentele di Hana.
Quando Ivan è venuto a riprendermi mi ha trovata piegata
sul ventre con la faccia nell’erba.
Credo che sia venuto più per la vergogna di quello che
avrebbe detto la gente del paese di sua moglie se,
all’indomani, mi avessero trovata nuda a terra accanto
al mio vomito, che per altro.
Mi ricordo che mi ha afferrata così come ero, senza
coprirmi, proprio come si fa con una cagna; deve avermi
sciacquato il viso e rimessa a letto in una stanza da
sola senza chiedermi niente.
La mattina mi sono trovata un consulto di vecchie del paese
ai piedi del letto; una di loro cercava di farmi bere
qualcosa di viola, dal sapore sembrava decotto di
mirtillo. Sentivo degli spacchi sulle labbra, che mi
bruciavano ogni volta che le muovevo. Non ero in grado
di fare nulla.
Ivan mi ha fatto vestire davanti alle vecchie, mi ha
sorretto per la ripida scale che porta al piano
inferiore e mi ha fatto entrare nell’auto di Joško,
sempre senza dire nulla; è rientrato in casa per
riuscirne poco dopo con Denisa in braccio.
Joško
ha messo in moto, Ivan si è seduto davanti con Denisa
sulle ginocchia; io occupavo il sedile posteriore,
distesa, con la testa appoggiata al vetro; da quella
posizione riuscivo a intravedere la mia faccia nello
specchietto retrovisore e non mi riconoscevo.
Joško
guidava piano e a me sembrava di morire, i due hanno
conversato durante tutto il tragitto, Ivan non si è mai
girato verso di me, non mi ha mai rivolto la parola.
Ho capito che stavamo andando a Poprad; a Vikartovce
abbiamo fatto una sosta dalla sorella di Joško
per lasciare Denisa. Avrei voluto dire che sarebbe
dovuta rimanere con il padre e non con degli estranei,
ma non avevo la forza di parlare. Non avevo avuto
neanche la forza di guadarla mentre l’auto si
allontanava dalla fattoria.
Adesso sono tre giorni che non la vedo, tre giorni che non
ricevo notizie da Ivan.
Vedo solo le infermiere che vengono per cambiarmi la flebo,
chiedono come sto e poi se ne vanno via; sono in stanza
da sola, credo in isolamento, e mi balena in mente che
forse potrei aver contratto l’epatite.
Poi mi convinco che deve avere a che fare con l’acqua della
fonte da cui ho bevuto; Ivan ne uscito illeso perché
abituato fin da piccolo a quell’acqua e io che pensavo
che queste cose accadessero solo ai turisti in India.
Ecco di nuovo l’infermiera, questa volta non la lascio
andare via, le tiro il lembo della manica e dopo giorni
di mutismo mi lascio uscire il fiato: - Moj muž je prasa!
–
La forza della disperazione mi ha fatto parlare in
slovacco, per la prima volta, per esprime tutta la
rabbia che provo per Ivan in questo momento.
L’infermiera non dice niente, mi guarda per un attimo e
poi se ne rivà.
Riprendo a guardare il soffitto bianco e mi viene
improvvisamente in mente quante volte Davide e io ci
siamo tolti dai guai l’un l’altra, anche se lontani. Di
quando a Padova spalancava la porta di casa di Tommaso e
mi mostrava fiero un sacchetto di frutta che, diceva,
aveva rubato da sua madre solo per me. Mi sono ricordata
di quando ero vegetariana convinta e mi nutrivo di
cocktail a base di latte e uva e poi ero in balia
delle coliche. Una volta mentre mi massaggiava la
pancia, abbracciandomi da dietro sul divano mi aveva
detto, serio, di avere la soluzione ai miei disordini
alimentari.
Il giorno dopo l’ho visto arrivare con un vasetto di
omogeneizzato di carne, che voleva convincermi a
mangiare, lo aveva messo sul tavolo della cucina e
aspettava la mia reazione; ho preso il vasetto in mano,
l’ho girato e rigirato scrutandolo attentamente, sapeva
che non avevo mai smesso di mangiare omogeneizzati di
frutta, così, al posto del gelato, ma di quelli di carne
non ne avevo mai mangiati, neanche nell’età giusta; mia
madre era convinta che non fossero abbastanza sani.
D’impeto gli ho scomposto il cespo di capelli biondi in
segno di gratitudine e ho risposto che se, per caso, mi
fossi decisa a tornare onnivora avrei optato per una
bella bistecca, come poi ho fatto. Davide mi aveva fatto
sedere sulle sue ginocchia e si lamentava che farmi
ragionare era impossibile, che per alcune cose ero
geniale e raffinata, per altre primitiva come un
selvaggio incolto.
Se fosse stato Ivan allora al suo posto non mi avrebbe
chiesto spiegazioni, mi avrebbe infilato il cucchiaio in
bocca senza lasciarmi parlare, senza lasciarmi sputare.
Cercavo con il pensiero Davide e questa volta non riuscivo
a trovarlo e non mi spiegavo il perché di quel vuoto.
Agosto 2007.
Uno dei posti a Vienna in cui torno volentieri è il
Museumsquartier, dove mi sento sempre a mio agio tra
i giovani artisti viennesi e non che ogni sera si
trovano o si ritrovano nel cortile del complesso museale
più innovativo d’Austria.
D’estate un chiasso insolito, la piazza gremita e neanche
un posto libero sui canapé di metallo; questa volta ho
portato Nurhan con me, il mio amico turco che vive da
più di un anno nel decimo e non ha ancora visitato il
centro.
Si sente come un pesce fuor d’acqua, non si vuole togliere
i mocassini sul canapé, io invece non vedevo l’ora di
stendermi sul canapé e guardare il cielo a piedi nudi,
di far finta di arrivare a calciare la luna.
Nurhan mi ringrazia di averlo portato lì, di averlo portato
prima alla spiaggia sul canale, dietro il cinema Urania,
da Ehrmann.
Anche lì non sono riuscita a fargli togliere i mocassini,
ha camminato sulla sabbia così con le scarpe, poi ci
siamo seduti sulla sdraio con due birre, io analcolica e
lui abbastanza alcolica per essere musulmano. Ci siamo
raccontati della spiaggia di Izmir che ha lasciato da
poco e di quella del Circeo che avrei rivisto presto.
Distesi sul canapé mi chiede se credo, se prego; rispondo
mai e aggiungo che il paradiso per me è sulla terra,
così come l’inferno. Inizia a descrivermi il paradiso
dei musulmani ed è esattamente come una nota pubblicità
del caffè italiana e mai avrei pensato che potesse
esserci un nesso tra la Turchia e quella pubblicità, a
dispetto dell’agnostica. Mi chiedo se è più ragazzino
Nurhan o chi ha realizzato lo spot.
Di far entrare Nurhan in uno dei musei non c’è verso, una
volta che è venuto in visita il Dalai Lama
all’università, mi ha scritto un sms con toni gelosi,
chiedendomi se era solo un mio amico. Come si possono
rovinare migliaia di ragazzi facendoli pregare cinque
volte al giorno? Non lasciando loro lo spazio per
invaghirsi di qualcos’altro.
Dopo la disquisizione sul paradiso non credo che abbiamo
più nulla da dirci e mi sembra che ormai anche Nurhan
abbia trovato un suo spazio in questa città, diverso dal
mio, e che non abbia più bisogno di me adesso.
Nei musei viennesi si fanno sempre incontri interessanti,
soprattutto quando si decide di andare in giorni festivi
come pasquetta o santo Stefano; tutti i non
convenzionali aborriscono i noiosi pomeriggi da passare
in famiglia o in coppia e si rifugiano nelle sale dei
musei; lì si incrociano sguardi, ci si cerca, ci si
rincorre tra un dipinto e l’altro, sono un po’ dei
bordelli per le anime inquiete.
Non mi dimenticherò di quel viso pulito da figlio di papà
in maglione di cachemire blu che mi sono trovata davanti
dentro un’istallazione, ci siano guardati a lungo mentre
il proiettore ci sparava in faccia fasci di luce ogni
volta di colore diverso. Gli altri visitatori ci
analizzavano come se fossimo parte dell’istallazione e
noi non riuscivamo a muoverci e continuavamo a fissarci.
All’uscita l’ho trovato ad aspettarmi seduto al caffè del
museo, avrei potuto avvicinarmi e salutarlo, invece ho
tirato dritta per la mia strada senza voltarmi. |