N. 31 - Dicembre 2007
A EST
DEL DANUBIO
Come
vivevamo - Capitolo
V
di
Leila Tavi
Vienna gennaio 2000.
Il freddo contatto con la parete mi rassicura, come quando
da bambina mi svegliavo nella notte e avevo paura
del vento, allora poggiavo il palmo della mano sul
muro accarezzandone le imperfezioni.
Passo la mia mano tra i ricci biondi di Denisa, soffici
come batuffoli di cotone, così diversi dai miei
capelli folti e resistenti, tanto da poterli usare
per pescare, diceva il mio compagno di banco del
liceo.
Mi ricordo quando ragazzina, una volta in vacanza vicino
Taormina, mi ero messa in testa di fare una maratona
in mare e nessuno dei miei amici aveva accettato la
sfida, così una mattina presto avevo deciso di
provare da sola.
Non so per quanto ho nuotato fino a trovarmi risucchiata in
una corrente che non mi faceva andare né avanti né
indietro. Sfinita già mi sentivo tra le braccia di
Scilla, se non fosse stato per una barchetta di
pescatori che, una volta messa in salvo, mi hanno
insegnato a pescare senza canna, prima di rientrare
sulla terraferma.
Sotto il sole ore e ore aspettando che qualcosa abbocchi a
quel sottile filo seduti su uno scomodo asse di
legno.
Sentire la mollezza delle esche tra le dita mi piaceva
quasi come far scivolare le dita sul di un
pianoforte, quel vecchio Uhlmann di mia nonna
di cui non riesco a fare a meno a Vienna.
Se potessi almeno suonare qui anche gli accordi sbagliati
servirebbero a lenire il dolore sordo che sento nei
pomeriggi vuoti e nevosi in cui Denisa e io siamo
imprigionate in questo appartamento al quinto piano
senza ascensore della Ybbsstraße.
Ricordo quando, poco più grande di Denisa, aspettavo
nascosta dietro il divano del soggiorno di casa ad
ascoltare mia nonna suonare e uscivo fuori solo
quando il piano veniva abbandonato, allora mi
arrampicavo faticosamente sullo sgabello e provavo a
battere sui tasti, ma le dita erano troppo piccole e
tozze e il piano emetteva dei suoni flebili e
stonati.
Per dispetto, come reazione all’insuccesso, mandavo
all’aria tutti gli spartiti che trovavo a portata di
mano, divertita e soddisfatta di me; a quel punto
per tutta casa si sentivano le lamentele di mia
nonna che gridava a mia madre, o alla zia di turno,
di portare via quel “piccolo pestifero Mussolini”
dal suo amato piano.
Mia nonna Iolanda era stata tutta la vita una brava
comunista; ricordo le mie zie dire sempre che la
loro madre era sollevata del fatto che gli stenti
del dopoguerra e la vita difficile in una San
Lorenzo degli anni successivi al bombardamento le
avevano portato via suo marito, un uomo che era
stata costretta a sposare e che le aveva lasciato in
eredità una famiglia numerosa.
Mia nonna era stata una ferma sostenitrice del divorzio fin
dagli anni Quaranta, lo considerava il vero
strumento dell’emancipazione femminile per tante
italiane che non avevano potuto avere, come lei, la
fortuna di perdere il marito in giovane età.
A forza di accarezzarla Denisa si è addormentata, la lascio
dormire sul divano e mi sdraio sul caldo parquet,
mentre fuori ancora cade la neve.
Osservo le pareti bianche, lo stile scarno con cui
l’appartamento è stato arredato, un appartamento
pensato per degli universitari e che, per necessità,
si è dovuto trasformare in una casa dove vive una
bambina piccola, disseminata di giochi e libri
colorati, come quelli di Mačička Žofka, la
gattina slovacca che combina sempre guai.
Al muro ancora quel poster di Pulp Fiction e le foto
di Jan Saudek, che a noi piacciono tanto e che mia
madre è convinta, in occasione di ogni sua visita a
Vienna, potrebbero turbare la crescita di Denisa.
L’armadio di cartone è a esclusivo uso di Ivan, colorato
con la bomboletta spray di un cupo nero e utilizzato
durante le sue meditazioni di yoga a testa in giù; a
me è stato generosamente lasciata la cabina armadio,
il kumbal, nella stanza da letto, dove posso
nascondere quello che lui chiama il mio vergognoso
disordine.
I miei libri sparsi in tutto il soggiorno, impilati a
terra, sugli scaffali, su quel pezzo di compensato
comprato all’Ikea con due zampe che Ivan, dandosi un
tono, chiama Konferenztisch.
Oltre a quel tavolino non esistono altri tavoli in casa
nostra, è posizionato davanti a un vecchio
mastodontico divano bianco di stile sovietico anni
Settanta che, generosamente, i genitori di Ivan
hanno regalato ai loro figli quando hanno lasciato
l’appartamento nel 21 Bezirk, per iniziare
una vita agiata di ritorno nella loro Bratislava.
Quel divano a elle è stato per anni il nostro letto,
dormivamo testa contro testa, incassati come in un
sarcofago, fintanto che Adina ha avuto l’esclusiva
della stanza da letto, a cui a me è stato concesso
l’accesso fino a che ero in casa in veste di sua
amica, ma mi è stato negato non appena sono
diventata la ragazza di suo fratello.
Una casa senza il televisore, per preservare i neuroni del
cervello.
La stanza da letto è grande e l’unico mobile al suo interno
è un letto alla francese; con l’arrivo di Denisa, e
il conseguente abbandono di Adina, le pareti spoglie
sono diventate la sua lavagna personale, ogni sfogo
di creatività è tollerato e incoraggiato, con il
risultato di avere muri imbrattati a metà tra un
Matisse troppo ingenuo e uno scarabocchio senza
valore.
Sandberg agosto 2006
La montagna di sabbia appena fuori Bratislava, dove ai
tempi del comunismo era possibile camminare tra i
fossili, ora è una discarica abusiva.
Ivan e io facevamo ogni volta una sosta durante il nostro
pendolare tra Vienna e Bratislava; salivamo scalzi
per le pendici della montagnola e, in cima, ci
sedevamo, alla fine della giornata, a guardare i
campi che dividono i due agglomerati urbani così
vicini e così diversi.
Da lassù si vede anche il vecchio accampamento romano di
Carnuntum dove, una volta, abbiamo trovato una
valigia abbandonata e, senza aprirla, abbiamo deciso
di portarla con noi a Vienna cercando di eludere i
controlli alla frontiera.
Una volta a casa, prima di aprirla, siamo stati fino a
notte fonda a fare supposizioni su cosa vi fosse
dentro, per scoprire, poi, che si trattava in un
antiquato apparecchio per i raggi ultravioletti,
uguale a uno del padre, ha commentato Ivan, che, non
contento, ne ha provato l’effetto procurandosi una
leggera ustione sulla schiena.
Dopo ogni nostra passeggiata sul Sandberg ai miei
piedi restava appiccicata una sabbia dai riflessi
dorati e Ivan, guardando i suoi che rimanevano
puliti, commentava che si trattava di una cosa da
Saxana, da strega.
Ironizzava sempre sul fatto che non mi sarebbe mai più
capitato nella vita un uomo che al posto dei fiori
avrebbe colto per me fossili.
In casa ne avevamo di belli e particolari, fino a che un
giorno, di ritorno da un mio viaggio a Roma, non li
ho più trovati. Ho chiesto dove erano finiti e mi è
stato risposto che non aveva senso conservarsi in
casa quei pezzi di pietra.
Ho risposto se era pazzo e se sapeva quanto è antico un
fossile e che, di solito, si conservano nei musei di
scienze naturali e Ivan per risposta ha alzato le
spalle.
Ora sulla montagna di sabbia non si trova neanche più un
fossile, anche questa è una conseguenza del crollo
del regime e della progressiva introduzione della
egotistica filosofia occidentale: tutto quello che è
a portata di mano mi appartiene.
Prima nessuno slovacco si sarebbe permesso di appropriarsi
di un bene collettivo, la paura di essere fermati
dalla polizia faceva da deterrente, ora la polizia è
corrotta come in qualsiasi società capitalistica.
Del resto a quel tempo io stessa ero abbastanza marcia di
capitalismo da non resistere alla tentazione di
avere per me quei pezzi di roccia.
All’inizio la più attaccata ai beni materiali sembravo
essere io, che non sapevo rammendarmi neanche un
abito, un imperdonabile difetto, diceva sempre Ivan,
che con pazienza ricuciva tutte le mie cose.
Una sera cercò anche di insegnarmi a cucire, ma la mia è
sempre stata una naturale abnegazione per
determinate attività manuali che, nulla ha a che
vedere con lo snobismo.
E alla fine abbiamo perso entrambi la pazienza, allora è
finita come sempre, un drammatico crescendo che
iniziava con una latente aggressione verbale e
sfociava ineluttabilmente in una sorda violenza, al
termine della quale ognuno aveva le proprie ferite
da leccarsi.
Questo è stato per anni lo schizofrenico andamento della
nostra vita coniugale, di cui a me sono rimasti solo
dei riflessi automatici, come alzare l’indice e il
medio della mano destra in corrispondenza dello
specchietto retrovisore in macchina, al volante, in
cenno di ringraziamento, quando un altro
automobilista ci agevola una manovra.
Un gesto così poco femminile e che ho imparato da Ivan,
così come si prendono i difetti dei propri genitori
a tavola. |