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N. 4 - Aprile 2008 (XXXV)

A EST DEL DANUBIO

Capitolo IX

di Leila Tavi

Giugno 2006.

 

La neve di giugno. Questa è stato un anno strano, un tempo insolito, un’estate nordica, la prima della mia vita.

 

Un giugno così freddo, con così tanta pioggia, non lo avevo mai visto. Spesso le strade intorno a casa si allagano per via degli aghi di pino che ostruiscono la canalizzazione.

 

Per alcuni gli aghi di pino sono un vero flagello. Nella piscina vicino casa hanno abbattuto otto pini a causa degli aghi che cadevano regolarmente nell’acqua, fino a coprirne la superficie.

 

I bagnini hanno chiesto un aumento di stipendio per ripulire dagli aghi che cadono senza pausa, allora i proprietari, per non pagare, hanno deciso di tagliare gli alberi intorno alla piscina.

 

La vita media di un albero in un parco è di circa 18.000 giorni, in una foresta ottanta anni e ai bordi di una strada trafficata sette anni.

 

Se mai in futuro cambieranno idea e decideranno di piantarne dei nuovi, ci vorranno quaranta anni per farli tornare alti e rigogliosi come quelli che hanno appena abbattuto.

 

Se ci ripensassero e decidessero di ripiantarli già adesso dovrebbero aspettare il 2046 affinché possano fare ombra ai bordi della piscina, allora io sarò già vecchia.

 

Qualche anno fa, in occasione di un’abbondante pioggia, le conduttore dell’acqua erano così ostruite dagli aghi di pino, che al nido di Denisa i letti dei bambini galleggiavano.

 

L’acqua piovana non riusciva a defluire e non smetteva di piovere.

 

Quando il padre di Denisa ha chiamato per dire che cadeva la neve a Vienna di giugno ho cercato di immaginarmela dall’alto di Kahlenberg.

 

Altre volte l’estate a Vienna è stata così piacevole, calda come quella romana. Ricordo quando accompagnavo Ivan durante le sue uscite in canoa sul Danubio negli anni Novanta; la sera la crepuscolo ci gettavamo dal molo senza vestiti per rinfrescarci.

 

Spesso Michaela, l’amica austriaca di Ivan appassionata di canoa, ci seguiva.

 

Sentivamo il suo sguardo su di noi, sui nostri corpi affusolati e muscolosi; il suo corpo era quello tipico della canoista, semplicemente sformato dal ventre in giù.

 

Dovevamo sembrarle dei semidei e io non capivo il perché di tale ossessiva ricerca della bellezza esteriore.

 

La mia Michela invece, l’amica genovese con cui uscivo a Vienna, della sua pienezza alla Botero ne faceva un vanto; si muoveva sulle spiagge di Gänsehäufel, il rinomato FKK sul Danubio, con una disinvoltura unica. Diceva che si sarebbe sentita più goffa in un costume da bagno, sarebbe apparsa agli occhi degli altri come un insaccato legato.

 

Spesso portava i bambini della sua Kindergruppe alla spiaggia nudista, le facevo compagnia con Denisa e Joshua, suo figlio, che sgambettavano felici a riva, ancora troppo piccoli per avere il concetto del pudore.

 

Ora, interrogati entrambi sul fatto, si dichiarano assolutamente contrari a mostrare le loro nudità in pubblico.

 

Era piacevole immergersi nell’acqua fredda del fiume, in quell’ansa che sembrava un’isola dimenticata dal mondo, appartata dal resto delle spiagge affollate di gente, cestini da pic-nic e ombrelloni. Lì nessuno cercava di invadere la riservatezza dell’altro.

 

Quando i genitori venivano a riprendersi i bambini nel pomeriggio si intrattenevano per un paio i ore con noi e nessuno faceva apprezzamenti o commenti sull’aspetto fisico dell’altro; tutto si svolgeva in una assoluta e normale naturalezza, come se fossimo stati all’uscita di scuola e tutti fossero vestiti.

 

Mi sono spesso immaginata la stessa scena a Roma e le possibili reazioni dei benpensanti genitori romani, come si sarebbero scrutati l’un l’altro a vedersi nudi, cercando i difetti degli altri, stabilendo gerarchie a seconda delle misure.

 

Una cosa faceva sorridere me, Michela e Susanna, la nostra amica inglese, compagna di tante avventure viennesi, una cosa soltanto: vedere gli Austriaci aggirarsi per il buffet armeggiando con vassoi, completamente nudi; vederli seduti sulle sedie con la pelle a diretto contatto con la plastica.

 

Un affresco rinascimentale con elementi di pop art. A noi quel cameratismo, che probabilmente hanno ereditato dai loro cugini tedeschi in qualche meandro della storia, era estraneo.

 

Quel ristorante gremito di corpi nudi mi ricordava i controlli sullo stato di salute ai nuovi arrivati nel lager.

 

Marzo 2008.

 

La Costituzione italiana sancisce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio all’art. 29.

 

È convinzione comune che, in passato, le famiglie tenevano grazie alla dipendenza economica della donna dal marito e che, adesso, se un matrimonio resiste alle continue crisi è perché ha una sua forza, a prescindere dall’emancipazione femminile.

 

Una volta vigeva in famiglia una regola tanto amata da Cechov: la vita segreta della passioni, una vita parallela a quella quotidiana degli affetti.

 

Vi era una dimensione pubblica della reputazione e una dimensione intima della sofferenza; a tutto questo i figli non partecipavano mai, era questa l’immaginaria linea che divideva il mondo dei bambini da quello degli adulti.

 

Adesso, nell’impeto della commistione tra sfera pubblica e privata, nella fusione delle inclinazioni dell’anima con l’affermazione nel sociale, i bambini diventano spettatori partecipi dei drammi e delle rotture familiari.

 

Li abbiamo resi adulti inconsapevolmente, a causa di una delle grandi paure del nostro tempo: la paura che le persone già adulte hanno di crescere, che è il presupposto dell’invecchiare.

 

L’uomo d’inizio XXI secolo vive nella presunzione che è possibile ormai governare la natura, sia essa intesa in senso lato che come natura umana.

 

Niente più infanzia, niente più vecchiaia, un organico scorrere del tempo biologico senza più divisioni o tappe, nell’illusione di poter, così, eludere la morte.

 

Proprio come le bestie da macello ammassate nelle fattorie industriali che passano il tempo, in attesa di essere mattate, a mangiare, senza mai vedere la luce del sole.

 

Noi che ci lasciamo ormai classificare come consumatori e non più come cittadini, che non battiamo ciglio all’introduzione dei controlli biometrici o alle chip sottocutanee, viviamo nell’illusione che l’omogeneizzazione del genere umano sarà la strada per la preservazione della specie.

 

 

 

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