Febbraio 1997.
Il ritorno.
Due volte mi sono separata da un uomo e l’ho visto
piangere: mio padre quando ho lasciato Roma per
vivere a Vienna e il mio uomo adesso che ritorno a
casa da mio padre.
Ho asciugato le lacrime di entrambi, quelle di mio padre,
una maschera impassibile, e quelle del mio uomo, una
roccia impervia.
A volte è la vita a decidere per noi e noi dobbiamo solo
accettare quello che troviamo davanti a noi a testa
alta, anche se è duro mandare giù che un padre bello
e autoritario come il mio possa avere le piaghe da
decubito e orini in una padella.
Mia sorella e mia madre sono sole a Roma e devono avere già
una crisi di nervi, soprattutto mia madre che non
dorme da quattro notti.
Una telefonata nel cuore della notte, Ivan si
scioglie dal mio abbraccio e va per rispondere, ma
gli trattengo il braccio e, fissandolo senza
guardarlo, gli dico: - È la mamma, non voglio
sapere, lascialo squillare –
Un’altra volta ancora, a lungo, il telefono squilla nel
silenzio della fredda stanza; dovrei scendere e
alzare la cornetta per accertarmi se veramente le
condizioni di mio padre sono peggiorate, ma tiro a
me la coperta e mi addormento sfinita, il mio uomo
fa lo stesso.
Siamo due ragazzi e non sappiano cosa significa la parola
sofferenza, eppure a casa mi aspettano una madre e
una sorella che va ancora a scuola.
Ho promesso a mio padre il giorno che sono ripartita per
Vienna e ci siamo salutati, che sarei stata loro
vicina nei momenti di difficoltà.
Quella promessa strappatami mi era sembrata diversa dai
soliti moniti che mi indirizzava ogni volta che
prendevo la porta di casa in una foga da ribelle;
quel mio modo che a parole biasimava, ma che, credo,
dentro di sé guardava con una punta di orgoglio.
Quella volta, quel nostro addio prima della partenza per
Vienna, era stato un colloquio diverso dai soliti,
che terminavano con la sua voce alterata e io che
andavo via; quella volta no, l’ho trovato già
sveglio, ma ancora a letto, all’alba della partenza;
mi sono seduta sul ciglio del letto e l’ho
accarezzato sul viso, come si fa con un bambino.
Come al solito a cena la sera prima non avevo detto nulla;
era una mia abitudine metterlo davanti al fatto
compiuto.
Prima di bussare avevo esitato un attimo, temendo una sua
brusca reazione; le nostre liti erano la tempesta
nella quiete della nostra famiglia, la pensavamo in
modo diverso su tutto, tranne che sul cinema e il
tennis, le nostre passioni.
Invece le uniche parole che gli ho sentito dire sono state:
- Salutiamoci adesso perché quando tornerai forse
non ci sarò più -
Ho capito che quell’uomo che a noi sembrava così duro e
severo ci amava molto, gli ho visto scendere le
lacrime dagli occhi e una ha raggiunto il dorso
della mia mano.
Non riuscivo più a parlare, è stato mio padre a rompere il
silenzio, si è tirato su e ha parlato così come
faceva con i suoi soci, in modo cordiale e
convincente.
Allora sono riuscita a farmi animo e lo ho rassicurato
prendendolo un po’ in giro, dicendogli che con gli
anni era diventato patetico e che, quando ci saremo
rivisti, sarebbe stato il brontolone di sempre.
Di Ivan nessuna parola con me, una volta, per caso, l’ho
sentito lamentarsi con mia madre mentre diceva che
non era da me accoppiarmi così.
Un’unica ultima raccomandazione: - Andate piano! -
…
La terza telefonata, questa volta sono io ad alzarmi.
- Dormi? -
- Siamo tornati da poco – La solita bugia per pudore.
…
- Anticipare la data del volo? Nessuna possibilità di
storno o di cambio -
- Giovedì è troppo tardi -
La mamma dice che nei suoi deliri mi chiama, mi cerca.
Di nuovo alle sette dell’indomani una telefonata. Devo
partire, esco in fretta per andare alla stazione.
Erledigen,
una parola che mi è entrata dentro come un
automatismo da quando vivo in questa società così
diversa da quella che ho lasciato a Roma, dove
l’arte dell’arrangiarsi è la migliore virtù.
Il treno, tredici ore di noia, non ho altra soluzione.
Riporto le chiavi del Kletterzentrum a Ingrid,
che è sempre premurosa come una mamma ed è una delle
poche austriache con cui ho fatto amicizia.
All’università gli stranieri che decidono fare studi
umanistici o filosofici sono visti dai colleghi come
pazzi senza speranze.
Va bene se studi medicina o ingegneria, tanto hai a che
fare con dei numeri o pezzi umani, non importa come
ti esprimi, ma in certe categorie gli Austriaci
preferiscono mantenere l’esclusiva.
Adina
mi ha sempre sconsigliato d’iscrivermi a scienze
politiche, a suo parere avrei dovuto fare il
dottorato di ricerca o la scuola di interpretariato
a Lingue, dove si era trasferita lei dopo
l’insuccesso e l’isolamento degli anni alla Boku,
la Bodenkultur.
Lì l’ambiente è stimolante, solo stranieri da tutte le
parti del mondo, Adina da quando studia a
Lingue si sente rinata.
Vado a ritirare le ultime dannate fotocopie per la tesi da
aggiungere al resto, che rimuginerò come un bovino
per risputarle in bella copia in uno scritto
rilegato in undici copie.
Ivan
legge mentre preparo la valigia, fa l’indifferente,
fa finta di dormire in quella sua posizione fetale
solita che, nonostante la schiena muscolosa ed
enorme da canoista, rivela il suo essere
estremamente vulnerabile.
Appena mi avvicino per salutarlo si avvinghia a me e sento
le sue lacrime scendere sulla mia schiena.
Ho lasciato il mio uomo da un’ora e già non so se non
riuscirò a stare senza o se tra due giorni non mi
ricorderò più come è fatto il suo viso.
Non è riuscito a strapparmi la promessa di andare ad
arrampicare a Sperlonga a Pasqua.
Ancora dodici ore seduta e la schiena è già dolorante.
Dalla stazione di Süd Banhof ho chiamato mia
sorella da un telefono pubblico: - Come sta? –
- Gli antidolorifici lo hanno rimbambito, sta così da
giorni ormai. Chiama te, poi la sua ex moglie Rina,
ma non dice nulla di senso compiuto -
I dolori sono ormai così forti che non riesce a ragionare,
ma credo che si sia reso conto di essere un peso per
tutti, una cosa buttata lì sul letto, che sporca.
L’impatto con Roma è piacevole come sempre, nonostante
Termini sia lurida e maleodorante, nonostante i
mendicanti che l’assaltano e i benpensanti che
girano loro alla larga.
Tutti gesticolano e parlano a voce alta, non ci ero più
abituata, mi chiedo se mia sorella sarà cambiata, se
ha una nuova pettinatura.
Di mio padre non voglio che mi dicano nulla per il momento,
voglio trovarmelo davanti.
Questa luce forte che a Vienna non trovi neanche d’agosto;
gli occhi degli uomini addosso.
A Vienna è il contrario, sono le donne a guardare con
insistenza gli uomini, come degli avvoltoi che non
sanno cosa significa il gioco della seduzione:
guardano, ruotano intorno e, quando la preda è
stordita, vi si avventano sopra senza grazia, senza
pudore.
Ancora due stazioni è sarò a casa, a casa dei miei
genitori, presto solo della mamma.
Agosto
2007
Me ne sto a guardare il panorama da una sporgenza della
terrazza dell’Albertina con le gambe
penzolanti e gli stupidi turisti che da sotto
fotografano me e il piccione che mi sta accanto.
Qualcuno porterà la mia foto, che ne so, a Tokio: in
contemplazione dell’Oper con piccione e sullo
sfondo il Feldmareschall Erzherzog
Albrecht von Österreich.
Se ci fosse un corso di conformismo per principianti mi
segnerei, forse.
Anni fa, accovacciata come un gatto, dalla finestra del mio
appartamento dell’ultimo piano sulla Ybbsstraße
mi piaceva osservare l’interno delle case nel
palazzo di fronte.
Era uno spettacolo vedere come, dietro ogni finestra, si
svelava a me una cultura diversa: pakistani,
bosniaci, arabi, ceci, russi, formavano tutti
insieme un grande Advenzkalender e io me ne
stavo a guardarlo per ore senza stancarmi.
Quando mi sono trasferita nello zehntem Bezirk
dal primo piano non riuscivo a vedere che uno
spicchio di cielo e il trambusto del Café Merlin,
dove gli ubriachi uscivano a squarciagola
barcollando per Buchengasse.
La vita dall’alto ha un’altra prospettiva, me ne convinco
sempre di più quando, nelle pause dall’Università,
mi rilasso ciondolando da un ramo nel parco sulla
Colombo.
Eppure per anni a Vienna sono stata etichettata, come tutti
i miei connazionali, una di quegli
Spaghettifresser o Eismacher.
A Vienna noi Italiani siamo benvenuti come turisti, ma
diamo fastidio come ospiti.
Nella città degli
Zeitungskioskein via di
estinzione e delle Litfaßsäulen copiate da
Berlino per la creatività c’è spazio solo se è in
armonia con la tradizione nazionale.